Ernst Lossa ha dodici anni: da grande, racconta a un amico, vuole andare in America col padre – un venditore ambulante – diventare uno sceriffo, vedere gli indiani, fare il bagno nel lago Michigan. Vive però in Germania, sono i primi anni Quaranta e per il regime nazista è un ladro e un bugiardo, un ragazzo problematico oltre che di etnia jenisch.
La sua vera storia ha ispirato Nebbia in agosto del regista tedesco Kai Wessel, uscito in sala a pochi giorni dalla celebrazione, il 27 gennaio, della Giornata della memoria.
Con il suo film Wessel non ripercorre però la storia dei campi di sterminio ma un altra tragedia legata al terzo Reich: l’omicidio sistematico dei pazienti invalidi, malati di mente e «asociali» a opera del regime nazista all’interno del programma T4, che mirava a liberare il popolo tedesco dal fardello costituito da chi non era in grado di contribuire al benessere della società, oltre che dalle «malattie ereditarie», come osserva il direttore dell’ospedale psichiatrico dove viene rinchiuso il piccolo protagonista.
La sua foto, trovata da alcuni investigatori americani dopo la guerra, ha portato alla progressiva scoperta dei crimini compiuti dentro l’ospedale, oltre che in tutta la Germania nazista e nei paesi occupati: l’omicidio di circa 300.000 persone, tra cui moltissimi bambini .
Kai Wessel sceglie proprio questo protagonista, tra i tanti che hanno subito la stessa sorte, per l’esemplarità della sua vicenda (raccontata nel romanzo omonimo del 2008 di Robert Domes in uscita a breve in Italia): Ernst era un «giusto» che dentro l’ospedale si prendeva cura dei più deboli, e quando il programma T4 era stato chiuso – e l’eliminazione era stata affidata agli stessi ospedali psichiatrici – aveva cercato di salvare altri pazienti come lui dall’eutanasia. Era un ribelle, per questo era stato ucciso nonostante fosse sano e in grado di lavorare.
Una vicenda esemplare come, per altri motivi, quella dei personaggi che lo circondano e che illustrano in modo un po’ didascalico tutte le possibili forme di adesione al progetto criminale nazista: la banalità del male di chi esegue gli ordini, il «conformismo» di chi – come uno dei dottori – avverte l’orrore delle azioni che è chiamato a compiere ma non si tira comunque indietro.
E la fede nel progetto di miglioramento della razza manifestata dai «mostri», come il direttore dell’ospedale o l’infermiera dall’aspetto e i modi angelici che serve ai bambini sciroppo di lampone mischiato a barbiturici e morfina.
Non manca neanche l’indifferenza della chiesa: una suora che lavora nell’ospedale si rivolge al vescovo, sconvolta dalle «eutanasie». Lui la invita a tornare al suo compito di dare conforto ai piccoli pazienti, e ad aver fede nel fatto che la religione cristiana non soccomberà mai al nazismo.
Così facendo Nebbia in agosto cerca di ricomporre, senza finezza ma con onestà, i pezzi di quel puzzle che costituisce la risposta al quesito più urgente e complesso posto dall’esistenza del nazismo: come è potuto succedere?
GIOVANNA BRANCA
foto tratta da Wikimedia Commons