Partiamo dalla considerazione, per me elementare, che ogni essere umano appartiene solamente a sé stesso non avendo, almeno tangibilmente, nessun altro punto di riferimento, di appartenenza se non, nella pubertà e nell’adolescenza, il legame genitoriale o di chi ne fa le veci.
Nonostante questo legame, comunque ogni essere non solo umano ma vivente dovrebbe poter appartenere a sé stesso e a nessun altro e, secondo coscienza, decidere della propria sorte senza che alcuna morale, altra persona o qualunque potere possano dirgli come comportarsi quando ci si riferisce alla nostra interiorità, ai sentimenti, alle percezioni che si vivono e si patiscono rispetto al mondo esterno.
Ma non è così: in quanto parte di una comunità che ha un “contratto sociale” e che ha una morale spesso emanazione di un flusso religioso di superstizioni e di tradizioni ancestrali, di pregiudizi e di convenzioni tramandate di secolo in secolo magari soltanto oralmente, ogni individuo deve prima di tutto rendere conto alla comunità di ciò che dispone per sé stesso.
Intendiamoci, mi riferisco a questioni inerenti più la parte inconscia di noi che, però, mostra il suo disagio attraverso sofferenze psichiche ormai note, studiate e ancora oggetto di dibattito più che legittimo tra correnti di interpretazione un tempo semplicemente divise in due grandi ordini (freudiani e junghiani), oggi molto più articolate perché la complessità del “mondo grande e terribile” di gramsciana memoria impone maggiore rigore e oculatezza nel decriptare i misteri dell’animo umano.
Noa aveva 17 anni. All’età di 11 anni è stata abusata, stuprata, vilipesa più volte. Da allora ha smesso di essere una ragazzina felice e spensierata: è divenuta un ricettacolo di angosce, di attacchi di ansia e di panico, di anoressia, di repulsione per quel mondo che l’aveva tradita in così tenera età e che le aveva tolto letteralmente l’anima.
Noa non era una malata terminale, non soffriva fisicamente ma le sue pene quotidiane erano legate tutte al balletto tra inconscio e conscio e, ogni volta che si trovava nel secondo stato, quindi nella veglia, nella sopravvivenza giornaliera, per lei era come sopportare di vivere e non godere del vivere.
Ha scelto di lasciarsi morire di inedia. Di non mangiare e nemmeno bere. Una “eutanasia” rifiutata dall’Olanda ma impossibile da fermare. Una libera scelta di un libero essere umano. Umano e quindi sensibile, senziente e cosciente dalla sua volontà, per quanto terribile ci possa apparire.
Magari Noa avrà anche sorriso molte volte, avrà consolato chi le stava intorno, prima fra tutte la madre. Noa interagiva via social, parlava del suo problema e aveva anche scritto un libro a tal proposito per aiutare chi come lei era entrato o rischiava di entrare in un vortice di depressione e di sentimenti respingenti nei confronti del piacere di vivere.
Oggi, dopo che Noa si è tolta la vita nel suo paese, in Olanda, l’opinione pubblica si divide – come era “naturale” che fosse – tra coloro che ritengono impossibile accompagnare (seppur indirettamente) alla morte una ragazza che soffre di un male non terminale, non fisico, ma “semplicemente” (questo è l’aggettivo che più mi ha colpito) di una angoscia permanente, di un disagio costante, che non l’abbandonava mai e che, parole sue, l’aveva “prosciugata”.
“Semplicemente”. In quell’avverbio c’è tutto il modernissimo pregiudizio verso chi non mostra evidenti segni di deperimento fisico per via di una malattia incurabile o per uno stato comatoso irreversibile ma, appunto, “semplicemente” la sua sofferenza è impercettibile ad occhio nudo, è magari frutto di ciò che viene considerato un “capriccio”, un “lasciarsi andare”, un “compatirsi”.
Sappiamo bene quante lotte hanno dovuto sostenere in Italia coloro che avrebbero voluto assolvere al desiderio dei loro cari e “lasciarli andare” mentre uno Stato moralista, etico, influenzato dal paradigma religioso del cattolicesimo in merito alla “proprietà della vita” ha impedito loro per tanti anni di poterlo fare: chi lo ha fatto per ritrovare coscientemente una dignità di essere umano è dovuto riparare in Svizzera. Chi non lo ha potuto fare, è morto da non cosciente, senza più alcun collegamento col mondo e con i suoi simili qui, nella patria della bontà cristiana.
Noa non era in coma, non aveva malattie gravi, non era nemmeno incorsa in un incidente che la tratteneva immobile in un letto in uno stato di coscienza ma senza la possibilità di essere autonoma nella parola e nei movimenti.
Noa non aveva nemmeno nessuna malattia degenerativa che la accompagnasse lentamente verso un logorio degli arti, della mente.
Noa era una ragazzina di 17 anni bella, bionda, con quella “vita davanti” che tutti rimprovereremmo a chiunque, giovane, si lagnasse di qualche accidente che la vita gli ha scagliato addosso.
Eppure Noa, nonostante anni di cure, di sedute psicoanalitiche, di pareri medici, di somministrazione di farmaci, ha sentito che il suo non era vivere ma solo un “respirare” in mezzo a tante angosce, a tante ferite di un’anima lacerata così profondamente da non riuscire a trovare un modo per cicatrizzare quei drammi interiori.
Io non riesco a giudicare Noa, a parlare bene o male del suo comportamento: posso solo rispettare il suo dolore. Comprenderlo, sapendo che non serve nemmeno appellarsi ad una qualche sorta di “coraggio” del morire. Molte volte è coraggioso continuare a vivere.
Ma bisogna per forza dire che la vita è un “dono”, altrimenti vieni tacciato d’essere un nichilista, un distruttore, un corruttore di anime (per l’appunto), magari perché anche solo lontanamente comprendi la fatica dell’andare avanti giorno dopo giorno anche se non hai dolori fisici da esibire alla pubblica benpensante opinione per soddisfarla del suo invece vivere felice…
La vita è degna di essere vissuta quando si sta bene nella vita e con la vita. Non so cosa si agitasse nell’animo di Noa, ma so cosa si agita in quello ben manifesto dei tanti che oggi accusano lei di aver tradito la vita e di aver reagito infantilmente davanti ad una difficoltà che sembrerà a chi non ne ha mai fatto esperienza, una bazzecola, e che per una diciassettenne stuprata era un muro insormontabile. Un non-senso da accettare nel nome di una morale comune che attribuisce alla positività degli eventi un ruolo sempre e comunque.
E’ ovvio che si dibatta sul tema dell’eutanasia come “cura” per la depressione. Stiamo parlando di un caso non comune e siamo davanti ad una volontà coscientemente manifestata. Quindi è escluso che se si va da un medico e gli si manifestano i propri disagi interiori questi possa reagire, anche in Olanda, consigliando al paziente di togliersi la vita.
Dovere del medico è di curare, di migliorare la vita ogni volta che sia possibile. Dovere del medico è prolungare la vita ma non al costo di prolungare le sofferenze. Se la vita è un dono, come sostengono i cattolici, allora anche le sofferenze vanno considerate tali? Che etica è quella che considera gioie e dolori alla stessa stregua? Solo un’etica che si affida al dogmatismo per non spiegare ciò che è per l’appunto inspiegabile.
Nel caso di Noa era possibile fare ancora qualcosa? E’ stato fatto tutto per riuscire a strappare la ragazza ad un destino di morte che lei scorgeva come ineluttabile per sottrarsi alle sofferenze che le avevano rubato l’animo due volte? Non lo sapremo mai.
Una storia così dovrebbe farci crescere tutte e tutti, sotto molti punti di vista: spirituale per chi crede, morale e civile per chi laicamente vive e prova a dare una spiegazione ai tanti misteri propri dell’universo, dell’esistenza, della vita minuscola sulla Terra e delle tante espressioni singolari e declinazioni specifiche che assume pur sempre in un contesto sociale.
MARCO SFERINI
5 giugno 2019
foto tratta da Pixabay