Stellantis invoca sussidi per continuare a produrre auto in Italia e il governo contratta sull’ammontare. Se vi viene la sensazione di un deja vu non sbagliate: cambiano i nomi e i protagonisti ma la politica italiana del settore auto tende a ripetersi come un disco rotto. Il guaio è che il mondo cambia e le crisi del comparto diventano più difficili da gestire. Se Meloni e soci si illudono che la politica industriale possa ancora limitarsi a un po’ di traccheggio sulle prebende chieste da Tavares, le cose non si metteranno bene per gli impianti italiani.

La difficoltà principale è che l’industria dell’auto è ancora oggi gravemente malata di covid. Nel mondo, l’utilizzo della capacità produttiva del settore resta una decina di punti sotto i livelli pre-pandemia. E in Europa si registrano tuttora due milioni e mezzo di immatricolazioni in meno rispetto al 2019, un crollo di quasi il 20 percento.

Come la storia del capitalismo insegna, questa capacità produttiva inutilizzata crea lo scenario ideale per una lotta feroce tra costruttori. Una prova empirica sta nella guerra dei prezzi in corso. Non solo Tesla ma anche i cinesi e ora pure Nissan e altri, ritoccano i listini nel tentativo di accaparrarsi le quote di mercato dei concorrenti. In questa gara al ribasso, l’industria europea rischia oggettivamente più di altre.

Allianz stima che mentre i marchi americani e asiatici fanno margini di profitto superiori ai 6 punti percentuali, le aziende europee non raggiungono i 5 punti e quindi faticano di più ad abbassare i prezzi. Anche per questo continuano a perdere quote di mercato, con un calo di oltre 4 punti negli ultimi quattro anni. Stellantis, che è in ritardo sulle tecnologie e sui modelli, soffre in modo particolare la pressione competitiva. Per Tavares, se la guerra dei prezzi continua si rischia un “bagno di sangue”. Il riferimento è soprattutto ai 23 impianti ancora situati in Italia. E ai lavoratori, naturalmente.

Come scongiurare un tale destino avverso? E’ chiaro che con la solita politica dei sussidi non si va lontano. A ben vedere, i sussidi non sono altro che una propaggine della guerra dei prezzi, con questi che scendono e quelli che salgono. Se pure il governo italiano allunga qualche euro aggiuntivo per tutelare gli impianti nazionali, altrettanto faranno serbi e polacchi, e ancor più francesi e tedeschi. Il risultato è che nella lotta tra capitali nulla cambia. I forti si consolidano, i deboli soccombono.

Resta allora soltanto una via alternativa: un piano europeo di coordinamento della ristrutturazione del settore automobilistico. Che in sostanza vuol dire affidare non più alle lotte di mercato ma alla politica dell’Unione la ripartizione territoriale dei tagli di produzione nei 213 impianti attualmente situati in Europa. E vuol dire, contestualmente, dar vita a un piano europeo che sposti la capacità produttiva dalla mera realizzazione di vetture a tutto il complesso di attività necessarie a una transizione ecologica non solo efficiente ma anche equa.

Sembra una roba un po’ sovversiva, se non di sapore sovietico quantomeno da vecchia comunità europea del carbone e dell’acciaio. Eppure venne avanzata nientemeno che da un liberista doc come Sergio Marchionne. Nel 2012, quando oltre al ruolo di amministratore Fiat copriva anche la carica di presidente dell’associazione europea dei costruttori, Marchionne invocò esattamente un piano europeo di questo tipo.

A suo avviso, era l’unica alternativa possibile alla guerra dei prezzi che in quel periodo veniva portata avanti da Volkswagen e che stava spezzando le ossa ai concorrenti. Il celebrato talebano del liberismo veniva così folgorato sulla via del piano. Una circostanza imbarazzante, che non a caso i suoi agiografi tendono a dimenticare. E che invece dovremmo ricordare.

Se la direzione indicata dal liberista redento Marchionne fosse stata presa, oggi l’intero settore automobilistico europeo sarebbe più solido e più sostenibile. Ma la proposta cadde nel vuoto. Tajani, che era commissario europeo all’industria, fece finta di nulla. E gli altri governanti europei preferirono gestire la crisi al solito modo, con la gara dei sussidi. Siamo sempre lì, senza risolvere nulla.

EMILIANO BRANCACCIO

da il manifesto.it

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