Era la notizia che la famiglia Cucchi attendeva da tempo, e per la quale si batteva: al termine dell’indagine bis sulla morte di Stefano, la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di cinque carabinieri. «Finalmente ci siamo». Ci sono voluti otto anni, ma «finalmente ci siamo», ha commentato la sorella Ilaria.
Tre militari, Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, all’epoca in servizio al Comando Stazione di via Appia, sono accusati di omicidio preterintenzionale, aggravato dall’aver commesso il fatto con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti alle funzioni di ufficiali di polizia giudiziaria. In buona sostanza, i tre sono accusati di aver picchiato il geometra trentaduenne, la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 quando fu arrestato, «con schiaffi, calci e pugni», provocandogli una «rovinosa caduta con impatto al suolo della regione sacrale» e lesioni guaribili in almeno 180 giorni e in parte esiti permanenti, che, «unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi al Pertini», hanno portato alla sua morte. Era quello che denunciavano i familiari e che finora non si era riusciti ad accertare: Stefano sarebbe stato pestato nella caserma Casilina dai tre carabinieri che lo avevano arrestato, e questo avrebbe causato la sua morte, sei giorni dopo in un reparto di Medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma.
Decisiva sarebbe stata l’ultima perizia d’ufficio, condotta dal direttore dell’Istituto di Medicina legale di Bari, Francesco Introna, depositata a inizio di ottobre dello scorso anno, che aveva dovuto riconoscere, per la prima volta in otto anni ,che «le fratture traumatiche delle vertebre» di Stefano «ben possono aver determinato una condizione di vescica neurologica», al punto tale che «la stimolazione del nervo vagale ad esso connessa può aver accentuato la bradicardia di Cucchi fino all’esito finale».
I carabinieri avrebbero pure tentato di falsare gli atti. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia, insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante della stessa Stazione, mentre un altro carabiniere, Vincenzo Nicolardi, deve rispondere solo di calunnia. Il falso in atto pubblico è legato al verbale di arresto in cui si «attestava falsamente» che Cucchi era stato identificato attraverso le impronte digitali e il fotosegnalamento: circostanza che per gli inquirenti non corrisponde al vero ma ha rappresentato la ragione del pestaggio di Cucchi, ritenuto «non collaborativo all’operazione». Mandolini e Tedesco, inoltre, non avrebbero verbalizzato la resistenza opposta da Stefano Cucchi nella stazione dei carabinieri dove venne portato per il fotosegnalamento e avrebbero «attestato falsamente» che il giovane non aveva voluto nominare un difensore di fiducia.
La calunnia, invece, si riferisce alla varie testimonianze rese al processo in Corte d’assise, dove erano imputati tre agenti della polizia penitenziaria poi assolti con sentenza definitiva: Tedesco, Mandolini e Nicolardi, «affermando il falso in merito a quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009» accusavano implicitamente i tre agenti, pur «sapendoli innocenti», delle botte inflitte al detenuto. Per questo motivo i tre poliziotti sono indicati come parti offese, insieme ai genitori di Stefano e la sorella Ilaria.
Dopo un giudizio di primo grado, due di appello e uno di Cassazione, non è ancora arrivata una parola chiara sulla morte di Stefano Cucchi. Finora ci sono state solo assoluzioni: quelle definitive dei tre agenti della penitenziaria in servizio nelle celle di sicurezza del Tribunale di Roma, le due confermate in Appello per i sanitari del Pertini.
L’inchiesta bis, condotta dal procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal pm Giovanni Musarò, ha spostato l’attenzione sui carabinieri: i tre sono stati prima indagati per lesioni personali aggravate, poi è arrivato il cambio d’imputazione, che ha consentito anche di evitare la prescrizione. Ora manca l’ultimo passo prima di arrivare al processo: il rinvio a giudizio. Ilaria Cucchi è fiduciosa e, nel frattempo, si prepara a presentare, oggi a Roma, l’associazione intitolata a suo fratello.
ANGELO MASTRANDREA
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