Nella “Critica al programma di Gotha“, Marx esplicita non soltanto la confutazione del lassalismo come intenzionale equivoco dell’impostazione rivoluzionaria del Partito socialista democratico tedesco che, quindi, si dirige verso un riformismo di stampo nazionale, ma introduce una prima minuziosa analisi del confronto tra Stato borghese e Stato socialista.
Questa piccola premessa ci serve per parlare di un’opera di Lenin che, viste le numerose successive contraddizioni sorte in seno al sovietismo, all’impianto fortemente autoritario dell’URSS, è stata ingiustamente considerata un po’ il libro malefico che avrebbe ispirato tanto lo statalismo quanto il perfido burocraticismo panrusso. Quanto meno dalla morte del rivoluzionario in avanti, per trovare la sua più completa espletazione nel buio antisociale ed anticomunista dello stalinismo.
“Stato e rivoluzione” (Red Star press, Donzelli editore, PGreco, Oaks editrice e altri) si situa in un filone di elaborazione della critica marxista al sistema rappresentativo della istituzioni forgiatesi dentro la lotta fra le classi, mentre il racconto classico vorrebbe proporci una teoria della nascita dello Stato tutta imperniata sulla necessità dello stesso in qualunque tipo di società. Il primo compito che Lenin si dà è proprio quello di smontare questa narrazione.
Proprio mentre la rivoluzione sta per infiammarsi (Lenin scrive quest’opera nell’estate del 1917) e l’assalto al cielo sarà, di lì a pochi mesi un concretissimo capovolgimento di una somma secolare di poteri, oligarchie aristocratiche, sedimenti istituzionali di ogni tipo, corruttele e immiserimento generale della popolazione proletaria e contadina, l’attenzione che si riserva al problema della conservazione dello Stato dopo la trasformazione sociale radicale viene a galla nei dibattiti di mezza Europa.
Non è una novità. Se ne discuteva da un secolo almeno: fin da quando le prime esperienze di aggregazione dei movimenti operai avevano cominciato a pensare che, forse, molto probabilmente, non era solo possibile una migliore condizione delle tremende vite delle lavoratrici e dei lavoratori, adulti e bambini…, nei paesi a capitalismo già sufficientemente sviluppato, ma che si poteva, su queste basi rivendicative, pensare ad un mutamento molto più vasto e universale.
Una vita che passasse dalla sopravvivenza all’esistenza dignitosa, dal potere imposto verticalmente a quello livellato orizzontalmente e gestito dal basso verso l’alto. Si potrà affermare che a questo ha teso la rivoluzione parlamentarista che si è via via fatta largo nell’assolutismo monarchico sei-settecentesco. Ed è certamente così. Allora si trattò di un passaggio storico-sociale che dalle vecchie basi aristocratiche del potere si andava evolvendo verso il regime borghese.
Un cambiamento reso possibile dalla trasformazione dei rapporti di forza tra le classi, permesso da una produzione che, dall’artigianato tramutava nelle piccole imprese, dai commerci che si andavano sempre più globalizzando, da un capitalismo che metteva le sue radici nella vecchia Europa e faceva il suo salto di qualità verso i nuovi mondi ancora in larga parte da scoprire.
La forma dello Stato, dunque, cambia perché a cambiare è il sistema economico, tanto dell’accumulazione del capitale quanto dello sfruttamento del lavoro. La stessa natura del salario diventa un oggetto di discussione. Lenin, riprendendo sempre Marx ed Engels, ne parla nel momento in cui deve trattare della basi economiche che – in linea ovviamente teorica – dovrebbero condurre a quello che è stato sintetizzato nel concetto di “progressiva estinzione dello Stato“.
Si deve notare che a scrivere è colui che sarà il capo indiscusso, insieme a Trotzky, di una rivoluzione che, per la prima volta nella storia dell’umanità, rovescerà struttura economia e sovrastrutture politico-culturali-morali in uno dei paesi più arretrati dell’Eurasia, sicuramente in quello in cui meno si poteva sperare nella preconizzazione di un inizio della riscossa proletaria mondiale.
Lenin è un uomo di Stato, è uno statista, ma è prima di tutto un rivoluzionario comunista. Il suo libro esce proprio a ridosso dell’inizio del processo di trasmutazione di una intera società, mentre il resto del mondo si domanda che razza di persone siano questi bolscevichi che non hanno rispetto per nessuna autorità, che pretendono di sovvertire l’ordine costituito e che non si fermano davanti a niente.
E’ ovvio che la teorizzazione della fine dello Stato è, almeno in questa fase, un “programma massimo” dei comunisti di allora. Essi ereditano dalla critica marxista un bagaglio culturale che mette le istituzioni in diretta dipendenza con i bisogni sociali e, quindi, capovolge l’assunto della funzionalità del potere fine a sé stessa, per un indistinto benessere sociale che, almeno fino ad allora, era stato solo quello esclusivo delle classi dirigenti.
Paradossalmente, ma nemmeno poi tanto, “Stato e rivoluzione” è un binomio che obbliga i bolscevichi a fare i conti con la riorganizzazione totale di un popolo su un territorio e, quindi, si deve occupare della rifondazione di una nazione giacobinamente intesa come tale, in quanto espressione unitaria di un intera comunità in un determinato ambito, in un preciso momento storico.
La consapevolezza quasi scientifica che la democrazia, così come fino ad allora è stata interpretata dalle istituzioni borghesi, è una «democrazia tronca, miserabile, falsificata, una democrazia per i soli ricchi, per la sola minoranza» è la determinazione di una più generale teoria rivoluzionaria sul recupero delle vere essenze del potere popolare e, quindi, della fondazione necessaria di uno Stato dei lavoratori al posto di quello degli sfruttatori.
Lenin specifica meglio il concetto quando scrive del carattere specifico dello Stato nella società borghese. In essa – dice – si sostanzia praticamente il vero Stato, quello che il capitalismo esige sia l’apparato di potere che tuteli gli esclusivi interessi, per l’appunto, di una esiguissima parte della società. Ogni tentativo di sovvertimento di questo principio di difesa del privilegio è colpito, inevitabilmente, dalla repressione poliziesca, di tutti gli apparati di controllo sociale che sono al servizio del potere organizzato.
Oggi molto più di ieri, immaginare una transizione al socialismo (come fase prima del superamento del sistema di produzione capitalistico) significa prima di tutto riprendere l’antica avversione che Marx stesso aveva nei confronti delle immaginazioni (più che delle teorie) riguardanti una “società comunista“. Proprio nella “Critica al programma di Gotha” vi sono numerosi riferimenti ad un possibile futuro senza più capitale, merci, profitti, sfruttamento, classi sociali.
Anche Lenin considera le confutazioni marxiste del programma lassalliano come una sorta di programmazione dell’evoluzione anticapitalista e socialista dell’intera società. Piuttosto, il Moro volle mettere nero su bianco le caratteristiche ovvie di una antiteticità al regime borghese, alla sua economia, alla sua strutturazione come classe dominante su scala globale.
Non c’è nulla nell’opera omnia di Marx che induce a ritenere la prefigurazione di una società comunista secondo precisi dettami, schematizzazioni e indicazioni di sorta. Proprio perché l’analisi è scientifica, si basa su dati oggettivi e può solo dirci ciò che intende confutare, criticando dialetticamente i processi produttivi, dimostrando una semplicissima, e per questo molto invisibile, verità: il capitalismo non è eterno.
E’ un prodotto umano, una conseguenza disorganizzativa di una società che si crede così naturalmente organizzata. La narrazione borghese, che oggi possiamo chiamare “imprenditoriale“, ha combattuto la critica marxista proprio su questo terreno; ha messo molte energie nel fare apparire le contraddizioni capitalistiche come un prodotto necessariamente accettabile e condivisibile di una società arrivata alla “fine della Storia“, al gradino ultimo dell’evoluzione.
L’enorme massa di produzione, tradotta nell’ingente quantità di merci che vengono immesse sul mercato in ogni parte del pianeta, ha generato quasi una superstizione riguardo il livello di benessere che è possibile raggiungere nel capitalismo moderno. La dogmaticità di questi presupposti, l’innegabilità del veloce progresso scientifico, hanno relegato in secondo piano il prezzo di questa felicità indotta, di questo consumismo esasperato in cui tutto diventa possibile se si ha denaro da spendere.
Ciclicamente si può assistere ad un alternarsi di momenti di crescita e altri di decrescita: quando prevalgono i secondi, le contraddizioni tra capitale e lavoro diventano più marcate e la sofferenza sociale si manifesta attraverso un pauperismo dilagante, una restrizione della domanda, una compressione delle esigenze e dei bisogni di larghissime fasce della popolazione.
Benché lontano ormai più di cento anni dalla Rivoluzione russa, il tempo presente somiglia molto al passato. Perché sono in particolare le contraddizioni più marcate ad essere rimaste tali, visto che è impossibile per il liberismo – quale fase aggressiva del capitalismo ipermoderno – eliminare l’ingiustizia di fondo, senza la quale non sarebbe possibile alcuna accumulazione di risorse a discapito del mondo del lavoro.
La rottura rivoluzionaria con questo sistema di impoverimento e di ingiustizia nei confronti di miliardi di esseri umani, di centinaia di miliardi di animali e della madre Gaia, richiede oggi un qualcosa di più del pure importante confronto tra transizione dal capitalismo al comunismo inteso come mutamento strutturale. Soprattutto se il concetto che oggi possiamo avere del secondo è molto differente da quello che aveva, e non poteva non avere, Lenin.
Ogni interrogativo sull’attualità del comunismo è oggi utile se pensiamo soprattutto in chiave anticapitalista e non rimettendo tutte le potenzialità della lotta alla sostituzione di uno Stato con un altro Stato, di una economia con un’altra economia. Anche Lenin fa cenno più volte a questa dicotomia tra concetti uguali in ambiti socio-politico-economici antitetici fra loro.
Sa benissimo che l’obiettivo del bolscevismo rimane la conquista del potere, la cosiddetta “dittatura del proletariato“. Ma sa anche – e lo scrive ripetutamente – che il socialismo, come preludio alla scomparsa del sistema capitalistico, è complesso da realizzare perché, archiviando parte del vecchio mondo, presuppone comunque un mantenimento di alcune sovrastrutture esistenti. Ad esempio il diritto, la Legge, lo Stato.
Stato e rivoluzione, dunque, sono due enigmi a cui non corrisponde necessariamente una soluzione unica. La seconda, per sopravvivere, ha bisogno di una fase di transizione se vuole costruire una nuova umanità. E il primo è destinato a scomparire nel momento in cui la sua funzione si sarà esaurita. E, come è ormai chiaro, la funzione dello Stato è quella di sostituire la libera organizzazione federata dei popoli, in cui varrà la nuova regole: “Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni“.
David Harvey, in quell’ottimo saggio che sono le sue “Cronache anticapitaliste“, senza volerlo mutua il pensiero tanto marxiano quanto leninista: inimmaginabile è il capovolgimento simultaneo, in tutto il mondo, del capitalismo attuale, la sua fine e scomparsa, la sua evoluzione nel suo esatto opposto. Ma, empiricamente parlando, è ragionevole quella lotta che Marx aveva considerato esclusivamente propria dei comunisti, come la “parte progressiva che più spinge per avanzare“.
L’essere accanto al resto dell’esercito democratico, ma distinguendosi per rivendicazioni, per quell’influenza da esercitare anche in campo politico ma, soprattutto, nel vasto mondo del lavoro, facendo dell’organizzazione il centro nevralgico della coordinazione delle coscienze, delle critiche, delle molte rivendicazioni della classe lavoratrice, di tutti gli sfruttati.
La conquista del potere è una prima tappa del comunismo, inteso sempre e soltanto come “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente“. La polemica tra Lenin e Rosa Luxemburg, proprio riguardo la forma-partito e il suo rapporto con le masse, sarà oggetto di divisioni quasi inenarrabili nella sinistra mondiale, tanto quanto in quella europea (ed italiana, nemmeno a dirlo).
La questione dello Stato non sarà da meno e si ritroverà al centro di dibattiti infiniti, tra riformismo e rivoluzione, tra gradualismo e anticapitalismo senza se e senza ma. Ma almeno su una cosa possiamo dire di essere un po’ tutti sicuri: lo Stato novecentesco e quello del nuovo millennio continua ad essere uno dei punti contraddittori del sistema economico globale. Per far consolidare i diritti ci è necessario e, allo stesso tempo, è uno degli ostacoli più utilizzati per impedire l’affermazione politica delle organizzazioni progressiste.
Dalla democrazia per pochi a quella per tutti il passo non è affatto breve. Ma qui è Rodi, e qui tocca saltare.
STATO E RIVOLUZIONE
LENIN
OAKS EDITRICE
€ 24,00
MARCO SFERINI
6 dicembre 2023
foto: particolare della copertina del libro
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