Dimenticare Panzieri? In molti vorrebbero farlo. In troppi l’hanno già fatto, ridotto al silenzio come i soggetti sociali di cui condivise attese e rivolte. Come i braccianti del sud d’Italia, che conobbe da dirigente di partito. Come gli operai delle fabbriche del Nord, in particolare di Torino, che incontrò già da «irregolare» della politica, proprio nel momento del loro «risveglio». (…) E tuttavia «ridurre al silenzio» Raniero Panzieri, ancora a quarant’anni dalla morte, così come avevano tentato di farlo in vita, non è cosa facile.
Per varie ragioni. Intanto perché nonostante la sua posizione di «irregolare» sempre un po’ ai margini delle grandi macchine politiche, anche quando vi militava all’interno e ne frequentava il «centro» – anzi, forse proprio grazie a questa sua irregolarità, a quella natura da eretico testardo di una fede senza chiesa, Panzieri ha lasciato un segno profondo nella vicenda tormentata del movimento operaio italiano del secondo dopoguerra, e nella sua cultura politica. È impossibile capire la storia sociale del nostro paese, in particolare quello snodo fondamentale che si colloca tra il XX Congresso del Pcus – con cui si aprì formalmente la crisi del movimento operaio «ufficiale» – e la vigilia della rivolta studentesca e dell’«autunno caldo», senza passare per Panzieri.
Non solo quello dei Quaderni rossi – il Panzieri più maturo e radicale -, ma anche quello di prima, delle elaborazioni precedenti: la sua riflessione sul «controllo operaio» (in collaborazione con Lucio Libertini), con il riferimento intransigente, fondante, a un concetto integrale di «democrazia diretta» e totalmente «partecipata» e quell’idea-guida (luxemburghiana? derivante dalla migliore tradizione «consigliare»?) secondo cui «il proletariato educa se stesso costruendo i suoi istituti». Le sue posizioni sui fatti d’Ungheria: si pensi alla nettezza, e chiaroveggenza, delle annotazioni fatte immediatamente a ridosso degli eventi, là dove si affermava senza mediazioni che «i fatti d’Ungheria in cui operai, cittadini e intellettuali sono stati costretti a prendere le armi della rivoluzione proletaria contro un sistema che continuava a dirsi socialista, ma socialista ormai non era né nelle forme né nella sostanza, crea una soluzione di continuità nel modo di concepire e realizzare il socialismo». E alla perentorietà della conclusione: «Dal XX Congresso ai fatti d’Ungheria si determina definitivamente la chiusura di un periodo storico nel socialismo stesso».
Nella fase crepuscolare del togliattismo, nel punto di frattura della lunga egemonia «comunista» che dal 1921 in poi aveva solidificato nella propria «forma-partito» l’esperienza di emancipazione e di lotta delle classi subalterne italiane, l’elaborazione di Panzieri segna l’emergere della possibilità, embrionale, di un «altro movimento operaio». Sanziona, nella propria felice capacità di saldare strategia e tattica, teoria e pratica, la legittimità del conflitto sociale – della «lotta di classe» – al di là dell’estenuazione delle sue «avanguardie» tradizionali e l’impasse del suo «partito-guida». È anche grazie a lui – al Panzieri «militante politico di base» (per usare l’espressione di Danilo Montaldi) e al Panzieri teorico alto dell’autonomia sociale e politica dell’identità operaia -, se la spontanea («strutturale», potremmo dire) volontà di lotta della nuova composizione di classe che andava emergendo nel pieno della tumultuosa transizione italiana al neocapitalismo poté trovare parole adeguate per «fare racconto» e una «teoria» per ottenere dignità storica e politica. Insieme a una fragile, sottile, e tuttavia efficace rete di intellettuali militanti disposti a spendersi e a sostenere. Se poté, cioè, farsi cultura diffusa e soggettività politica. Il che – si consentirà – non è poco.
Ma c’è anche una seconda ragione, che rende Panzieri così «imprescindibile» per la comprensione del nostro passato prossimo. Una ragione più «personale». O più soggettiva. Ed è il rapporto che egli stabilì – non so neppure quanto consapevolmente – con la generazione che si affacciava allora alle soglie dell’impegno politico e sociale. La generazione del «dopo-dopoguerra», assetata certo di «rotture» e di rivolta contro l’esistente, ma nel contempo già compiutamente disincantata nei confronti della «grande narrazione» comunista novecentesca, e in generale verso l’intero universo dei cosiddetti «partiti della classe operaia».
Penso di non andare lontano dal vero se dico che senza Panzieri – e il piccolo gruppo che intorno a lui si raccoglieva – quella generazione forse non avrebbe mai incontrato la realtà di fabbrica e gli operai. O comunque non avrebbe trovato le immagini e i concetti per dare compiutamente senso a quell’incontro.
Forse si sarebbe ribellata ugualmente, come in effetti fecero poco dopo i giovani in tutto il mondo. Avrebbe celebrato ugualmente il proprio rito di passaggio rompendo le tavole dei padri e fingendo di mettere a rischio le proprie future carriere. Ma non col senso possente di trasformazione storica (ed esistenziale) che assunse, in qualche momento della vicenda italiana, in quegli anni, l’incontro studenti-operai.
In questo ruolo di interlocutore «generazionale» privilegiato, lo favoriva senza dubbio un aspetto biografico, per così dire: la sua collocazione a cavallo tra tradizione e innovazione, con un piede ben piantato nelle strutture organizzative, nella storia e nella cultura del movimento operaio da cui proveniva, in cui aveva fatto le proprie esperienze formative (nel Partito socialista ancora segnato dalla memoria morandiana prima, in rapporto col sindacato torinese poi) e di cui aveva condiviso le speranze dell’immediato dopoguerra e la crisi successiva; e l’altro piede proteso in avanti, nel vuoto, alla ricerca di un nuovo punto d’appoggio per un antagonismo sociale che non si rassegnava a dichiarare spento. Il che lo rendeva quasi naturalmente il trait d’union ideale tra due generazioni di «sovversivi», capace di tradurre nel linguaggio degli uni l’esperienza degli altri.
Ma poi c’era quello che diceva – al di là della propria biografia – a rendere il suo discorso così seducente per una generazione di ribelli alla ricerca della propria rivoluzione. Perché Panzieri diceva cose «folli» e razionalissime insieme, tratte dall’osservazione empirica dei processi e della materialità sociale quotidiana («sotto gli occhi di tutti») e tuttavia suscettibili di scardinare ogni ordine del discorso corrente. Ogni luogo comune stabilito.
In un’Italia in cui pressoché tutti sembravano credere alla favola bella neo-capitalista dell’esaurimento del conflitto grazie allo sviluppo e alla razionalizzazione capitalistica (in cui l’antagonismo sociale sembrava assorbito e messo fuori gioco dall’avvento della società dei consumi e del fordismo degli alti salari e della pianificazione d’impresa), Panzieri proclamava – da «visionario», poteva sembrare allora – l’avvento di un nuovo, più radicale antagonismo «di classe». (…) Il suo saggio Sull’uso capitalistico delle macchine, pubblicato sul numero uno di Quaderni rossi nel 1961, rappresentò una breccia nel muro ancora compatto del produttivismo e dello «sviluppismo» dominanti: in quella cultura di matrice secondo e terzo-internazionalista impregnata del mito dello «sviluppo delle forze produttive» come leva strategica per far saltare l’involucro dei rapporti sociali di produzione, affascinata dalla tecnologia come fattore di potenza e naturale alleata del «lavoro».
In quel testo, sostenuto dall’autorità indiscussa di Marx, fondato su una puntuale esegesi del primo volume del Capitale, si dicevano cose davvero intollerabili per quella tradizione. Si diceva che «la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale»; e che «lo stesso processo tecnologico si presenta come modo di esistenza del capitale, come suo sviluppo», aggiungendo – questa volta citando testualmente Marx (dando la parola, appunto, a Marx) – che «la scienza, le immani forze naturali e il lavoro sociale di massa… sono incarnati nel sistema delle macchine e con esso costituiscono il potere del ‘padrone’».
Si diceva anche – una vera bestemmia in quei tempi e per quella cultura politica – che «il processo di industrializzazione (…) via via che si impadronisce di stadi sempre più avanzati del progresso tecnologico, coincide con l’incessante aumento dell’autorità del capitalista». E lo stesso si faceva con il «feticcio» del piano, da quasi tutti ormai identificato con la forma realizzata del socialismo, come espressione della capacità di controllo dello Stato sull’economia e qui invece disvelato nella sua vera origine «aziendale», prodotto in primo luogo non della capacità pianificatrice della politica contro l’anarchia del mercato ma della volontà di controllo dell’imprenditore sul «proprio» processo di lavoro.
Era una rottura. Una rottura con la politica «del presente», cioè con pressoché tutte le diverse culture politiche che convivevano nella sinistra italiana, e non solo italiana, all’inizio degli anni Sessanta del Novecento.
MARCO REVELLI
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