Iniziare o iniziarsi alla lettura di Carmelo Bene, anzitutto vuol dire depensare, depensarsi, entrare ed uscire da una dimensionalità che non ci appartiene, perché la consapevolezza non è sempre buona: molte volte è la pietra angolare su cui erigiamo una serie di multiconvinzioni e convenzioni che ci portano ad una pregidizialità tossica, ad una percezione di noi stessi come qualcosa di veramente tale.
L'”assenza” beniana è presa d’atto inconsapevole di una vita che “si fa tanto per fare“, che la vive tanto per viverla dentro a quella umanità eguale, che si lascia produrre senza soluzione di continuità e che fluisce nel corso del tempo, dei millenni, senza uno scopo, senza un senso. Eppure noi siamo sempre alla ricerca del significato della nostra ragione d’essere: un po’ spasmodicamente ontologica, un po’ derelittamente dediti ad una rassegnazione ad una oggettività dell’incomprensione della vita stessa.
Il rifugio nella religione, che creiamo con tutti i suoi dei immaginati, è d’obbligo per chi non si abbandona al mancato, a ciò che non si può dire a ciò che soltanto sappiamo, come ne scriveva Montale: sappiamo solamente ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. E questo solo è comunicabile: l’inesistente, quello che, in prospettiva riflessa, vorrebbe essere il suo contrario.
La vita è irrisolutezza per definizione: non fosse altro perché non c’è un approdo ai concetti assoluti che dipingiamo in noi e negli altri, e nel mondo che ci attornia, come elementi definitivi cui tendere. La verità, la via, evangelicamente intesi, sono progetti incompiuti, continuamente in costruzione ma senza un preciso intendimento, senza uno scopo che li definisca in quanto tali.
Dobbiamo vivere, ci lasciamo vivere, altre volte ci illudiamo di aver risolto la vita e di averne compreso il senso. Nemmeno una passione politica può dare soluzione a tutto questo ma, se non altro, impedisce di cadere nel tranello dell’invenzione di dio, del rifugio oppiaceo nella religiosità come elemento di certezza assoluta, dogmaticamente inteso, imposto come cardine di una morale che non ha da essere interpretata, criticata o, peggio, messa sub iudice.
Chi si avvicina al teatro di Carmelo Bene, sappia anzitutto che non è teatro, non è rappresentazione, non è recitazione. Bene non recita, perché non cita, non ripete nulla, perché è ripetuto, è vissuto da chi lui chiama in causa e non esiste in questo particolare aspetto: essere giunto al principio, tutt’altro che alla conclusione, di capire che non siamo mai quello che pensiamo d’essere.
Quando affermiamo “Io sono“, “Io so“, “Io dico“, “Io penso“, in realtà siamo sempre altro, proferiamo ciò che altri hanno già detto, pensato e sono stati. Siamo, quindi, vissuti da tanti secoli, da tante migliaia di anni. E soltanto in piccolissima parte possiamo dirci noi stessi quando diventiamo quei “capolavori” che dovremmo essere: unici nella nostra unicità.
Uscire da un “possibile” che è tremendamente annientante quell’essenza vera che è l’incoscienza consapevole: un po’ socratica sul piano della conoscenza, molto meno su quella di un ancestralismo tutto al singolare.
Si può estendere questo vuoto interiore, questa mancanza di noi stessi in noi, proprio nel riconoscersi come, prima di tutto, formati e plasmati attraverso la vicendevolezza, il confronto reciproco, lo scontro con quello che ci circonda: noi siamo anzitutto ciò che fingiamo di essere. Dentro noi vive questo inconscio dinamismo di un animo – intelletto che sa di essere solamente in relazione al confronto con l’altro e non di per sé stesso.
Noi siamo ineguagliabili quando raggiungiamo la facilità del fare senza pensare.
Carmelo Bene, che ha destrutturato il teatro classico e ne ha fatto uno spazio di libertà, al di là del successo che ha avuto in tutta la sua vita, che ne ha fatto forse il più grande classico del Novecento italiano, ripercorre questa sua presenza-assenza in una biografia parlata, in un dialogo impersonale, rivolto praticamente a nessuno nell’essere scritto così come potrebbe essere recitato ora, in questo preciso istante da chiunque di noi.
“Sono apparso alla Madonna” (Bompiani, 2005; quinta ristampa, 2022) non è un libro, ma un continuo, incessante addormirsi contro le banalità, contro la superficialità del pensato, del detto e dello scritto. E’ un divertissement dell’autore stesso, di un Assente con la A maiuscola, per evidenziare ulteriormente la completa dedizione al riporre la propria causa al di fuori del potere, nell’incoerenza dell’aere.
E’ probabile che la biografia di CB vada letta a posteriori, dopo averne assaporato le opere teatrali, le trasposizioni televisive, dopo aver messo mano ai suoi testi e introitato le sue innumerevoli e gustosissime interviste. Non fosse altro per gli innumerevoli rimandi che Bene vi immette, facendosi vivere da tutti gli autori che attraversa e da cui è stato, a sua volta, attraversato. Il linguaggio beniano è apocrifo, rigetta ogni canonicità espressiva.
Ci si sente, giustamente, smarriti mentre si leggono le pagine della vita di questo grandissimo intellettuale che tutto ha allontanato da sé tranne che il gusto di esercitarsi nell’utilizzare la mente: escludendo i pensieri pensati, facendo largo a quelli istintivi, prossimi al deserto interiore che aveva, rivolto al deserto dell’altro.
La sua “apparizione alla Madonna” è per l’appunto questo: elevarsi al cielo di Bologna, dalla Torre degli Asinelli e recitarvi l’Alighieri davanti a decine di migliaia di persone, pendenti tutte quante dal timbro potente della sua voce. Inconfondibile, intramontabile. Non si deve somigliare a niente e nessuno, diceva CB. Si deve essere quel che ci si prefigge di interpretare: se si bacia, si deve essere il bacio. Se si fa teatro, bisogna divenire il teatro stesso.
Non conta l’ascolto, il pubblico. Conta solo l’assenza della volontà: perché quest’ultima non è mai davvero buona. Porta a secondi fini, smarrisce sé stessa nel ritenersi utile allo scopo. Non c’è invece utilità, non c’è scopo, perché non c’è senso della vita.
Per la verità, non cercate di dare un senso a questa lettura. Non lo ha nella misura in cui vorreste aspettarvi una vita descritta meticolosamente. Bene discorre e non fa scorrere la penna sul foglio. Il racconto non è propriamente tale: è un continuo perdersi in altro, divagare, ampolleggiare e baroccheggiare con le parole: c’è del compiacimento in tutto questo. Una vanitas tutta quanta espressa nel mostrare la dissolutezza dello scandalo di uno stravolgimento di tutte le previsioni.
Dal canone linguistico già citato all’impostazione classica della biografia. E’ questo, ma è soprattutto una nuova opera di Carmelo Bene. Dall’alto dei suoi millenni, CB non intende scandalizzare nessuno, non intende stare nel tempo: ne esce e vi rientra, ma solo per fugaci apparizioni, privandoci di un quotidiano rapporto che noi pretenderemmo come lettori, spettatori e magari ammiratori di una presunto provocazione continuativa che non è per niente tale.
L’osceno di Carmelo Bene non è lo scandalo di un teatro anticonformista e parossistico. E’, letteralmente, lo stare fuori dalla scena, andando al di là della concezione consueta di arte, di attorialità, di teatro e di teatralità.
La complessità di CB sta tutta nel suo non essere soltanto sé stesso, ma proprio tutto quello di cui lui si è fatto vivere nel corso dell’esistenza dissacrante, turbolenta e percossa dal gelo delle sbarre burocratiche dello Stato, dell’imborghesimento generale che hanno tentato di imbrigliarlo dentro il quotidiano, dentro la ripetitività omicida dei giorni e delle stagioni che viene meno davanti all’incontro con Lacan, Deleuze, Kafka («Un vero pornomane», nel suo eccedere, nel suo essere al di fuori del consueto e del “caro” buon senso comune).
Non è un libro per tutte e per tutti. Almeno non all’inizio della propria traversata nel grande deserto della vita. Ma lo può diventare una volta che si è talmente incoscienti dal dedicare un po’ di tempo a qualcosa di veramente eccedente, che deborda dai confini di una solitudine che si prova quando ci si guarda intorno e si è annoiati, pervasi da uno spleen insormontabile.
Di sicuro, vi divertirete nel leggere CB. E, alla fin della tenzone, è forse questo l’unico vero senso della grande assenza in cui ci troviamo, pensando di essere noi stessi, pensando di poterlo addirittura affermare.
SONO APPARSO ALLA MADONNA
CARMELO BENE
BOMPIANI, 2005 / 2022
€ 10,00
MARCO SFERINI
4 gennaio 2023
Foto: particolare della copertina del libro