Ai tempi della prima Lega Lombarda, poi federata nella Lega Nord, si potevano leggere sul prato di Pontida sia gli striscioni e i cartelli inneggianti al federalismo ispirato da Gianfranco Miglio (allora ideologo del movimento), sia qualche – seppure raro – anatema contro i fascisti del MSI. «Mai con i missini! Mai con gli eredi di Almirante e Mussolini», tuonava Umberto Bossi nei comizi e dagli scranni del Senato della Repubblica.
Poi i tempi sono cambiati e, all’egosimo nordista, originariamente interclassista ma con qualche simpatia per un operaismo che, purtroppo, si riconosceva volentieri nel regionalismo esasperato della Lega, si è unita una collocazione sempre più marcatamente di destra: non poteva, del resto, essere altrimenti, visto che i tratti e i connotati politici dell’autonomismo di primo modello migliano facevano il paio con l’esclusione e non con l’inclusione.
La teorizzazione delle quattro repubbliche italiane da confederare (nord, centro, sud e isole) ebbe una vita relativamente breve, se si guarda alla complicata parabola ascendente, discendente e poi ciclicamente ripetuta in questo schema ascensionale prima e discensionale poi tra bossismo in disgrazia, maronismo di intercapedine tra il primo movimento e la sua involuzione salviniana neonazionalista.
Sta di fatto che, sul prato di Pontida, via via che gli anni passavano, le bandiere regionali rimanevano, da quella del Granducato di Toscana a quella della Serenissima Repubblica di Venezia, ma vi si affiancavano nuovi slogan che parlavano di invasione migratoria, dimenticando il federalismo della prima stagione leghista e persino il Sole delle Alpi del padanesimo secessionista.
Riti celtici, ampolle e sorgenti del Po erano ormai, nella seconda fase del berlusconismo ritrovato ma notevolmente infiacchito dalle troppe vicissitudini giudiziarie del cavaliere nero di Arcore, un retaggio quasi ancestrale, da collocare nella giovanile primavera del sussulto separatista per lasciare spazio ad una possibilità di rinvigorimento del movimento su un piano nazionale. Intuizione non certo di poco conto: l’unico sprazzo quasi geniale per la mente salviniana.
Il problema era riunire sotto un’unica nuova bandiera nord, centro, sud e isole, facendo dimenticare i confini tracciati dai giovani leghisti e da autorevoli esponenti del partito all’altezza di una nuova Linea Gotica che separava anche linguisticamente l’antica Gallia Cisalpina romana dal resto della regio italica. Servivano nuovi argomenti su cui fondare una narrazione complessiva che potesse rappresentare nel Paese una opzione di destra estrema in una cornice di centrodestra.
Questo compromesso, questa volta molto oltre l’interclassismo primitivo ed originario del Carroccio, si è potuto concretizzare e realizzare facendo leva sull’alleanza ritrovata (ma veramente mai abbandonata) con Forza Italia e con un nuovo partito, allora ancora troppo minuscolo per poter fare la voce grossa dentro il perimetro della coalizione di centrodestra, guidato da una Giorgia Meloni che qualcuno ricordava come “ministro per la gioventù” nel governo Berlusconi tra il 2008 e il 2011.
Forza Italia, in qualche modo, ha coperto il fianco destro, almeno per un certo periodo, della Lega Nord nella sua fase involutiva da partito antimeridionalista a partito anti-immigrazione e anti-islamismo, rappresentazione della peggiore retrività conservatrice e reazionaria dell’Italia che si avviava, senza saperlo, al biennio pandemico. Nel momento in cui la meteora salviniana si accende, fiammeggia e pare brillare nel cielo, sulla scena irrompe, a contenderle la scena, il movimento grillino.
Così, siccome il centrosinistra non è in grado di dare vita ad un governo con una solida maggioranza, nasce il gialloverdismo contiano. Una aberrazione per alcuni, un capolavoro di schiettezza per altri: c’è chi vede perfetta condivisione di vedute tra i due soggetti politici, ad esempio, per quanto concerne quell’infamia che divengono i “decreti sicurezza” e chi, provenendo da radici più di sinistra (come del resto molti militanti dei primi tempi del leghismo…), rimprovera a Grillo, Di Maio e Conte di aver tradito l’impulso rivoluzionario e progressista del M5S.
Il protagonista della scena qui non è ancora l'”avvocato del popolo“: la stella rinascente sembra proprio quella di Salvini. Ed è anche la conferma che il trasformismo novecentesco italico si è riverberato nel nuovo millennio in una serie di peggioramenti della rappresentanza politica che hanno stabilito nel leaderismo e nel carisma del capo il termine di paragone necessario per definire efficace la delega parlamentare data dal popolo.
Dai partiti di massa, ispirati da ideologie (oggi anatemizzate come il male quasi assoluto dell’agone politico dell’italica nazione) che avevano un disegno e un sogno di mantenimento dello status quo, di trasformazione riformista o di capovolgimento rivoluzionario in vista di una prospettiva di giustizia sociale, si è passati ai partiti personali: il berlusconismo ha fatto da apripista e molti tentativi di imitazione sono stati intentati con qualche successo, altri con rovinose precipitazioni al suolo.
Il salvinismo, ergo, è il punto di caduta oscurantista, precipizio del riciclaggio delle idee del passato e dei tentativi di costruzione di una favola del confederatismo regionalista mutata in separatismo, tramutatasi in neonazionalismo per poter far sopravvivere un movimento-partito che avuto in gestione un sacco di soldi, importanti posti di potere e di gestione dello stesso negli apparati pubblici (e privati) e che ha rischiato il fallimento per bancarotta anzitutto morale.
La storia dei famosi quarantanove milioni è, in questo frangente, la cartina di tornasole del passaggio da forza di popolo a forza di compromesso tra istanze di base e interessi privati. Lotta e governo per la Lega ha voluto significare questo e ha rischiato, nel solco di questo binomio, di naufragare se Salvini non l’avesse tratta dal pantano in cui era finita, facendola riemergere con l’idea di farne un partito nazionale e nazionalista.
La storia del trasformismo italiano sorprende, quasi sempre in negativo, con una ciclicità quasi indescrivibile a parole: perché davvero la realtà supera ogni tipologia di immaginazione. Così, da qualche tempo a questa parte, lo spettro multicolore delle bandiere regionaliste cui erano abituati i leghisti in un allora in cui i nomi riecheggianti erano Bossi, Speroni, Maroni, un inossidabile Calderoli, Borghezio, Farassino, Miglio, Formentini e via dicendo…, ha fatto posto anche al tricolore italiano.
Dal cesso in cui gli era stato consigliato di andare a finire al vento di Pontida che fa garrire i colori nazionali: ma anche le ricostituenti mutazioni necessarie a soddisfare un istinto di sopravvivenza della specie più cavernicolicamente inevoluta della penisola, abbisognano di una attualizzazione stretta degli slogan. La fase del “capitano” è ormai stonante con le vicende giudiziarie del ministro dell’attuale governo Meloni. Si parla pur sempre di mare.
Ma qui il tema sono le vittime del mare: quei migranti che sono fenomeno ed epifenomeno al tempo stesso di una paventata invasione che si corrobora vicendevolmente con le parole in libertà di altri ministri, ma non della Lega (quant’anche probabilmente alcuni la possono certamente pensare così), che temono la “sostituzione etnica“. Sul palco di Pontida i rappresentanti di questa espressione ci sono tutti: vengono dagli angoli di mezza Europa a dare sostegno a Salvini per il processo sulla Open Arms.
Dall’ungherese Viktor Orban all’olandese Geert Wilders, dal portoghese André Ventura all’austriaca Marlene Svazek e in videocollegamento la francese Marine Le Pen. Non manca quasi nessuno, e se qualcuno manca è per impegni di governo. Assenti giustificati, quindi. I sovranisti e i patrioti se la intendono alla grande quando si tratta di rimettere in circolo tutta una caterva di presupposti ideologici che, ufficialmente mitigano dietro una galante, cortese, rispettosa cortesia istituzionale, mentre ufficiosamente, richiamandosi al postfascismo del secondo Novecento, coltivano senza indugio.
Sull’autonomia differenziata, così come sul processo Open Arms, Salvini è categorico: non si torna indietro. L’accusa viene rivolta, principalmente, ad un mezzo secolo di ingovernabilità di cui sarebbero responsabili i partiti della sinistra. Peccato che negli ultimi cinquant’anni vi siano più di vent’anni di berlusconismo, di governi di destra che riuniva attorno a sé monarchici come Tajani e liberali come Antonio Martino, estremisti di vario titolo, legati ai peggiori partiti del tradizionalismo autoctono e “giudaico-cristiano“, con ex popolari e socialisti.
Orbán ricalca i concetti salviniani e tiene a precisare che: «In Ungheria il numero dei migranti è zero, noi non diamo in mani altrui il nostro Paese. L’Ungheria è casa nostra e ci vogliamo sentire di casa». Quella completa assenza di non-ungheresi sul suolo magiaro è forse l’emblema più iconico (come si usa dire oggi…) di un governo che riesce ancora a stare nell’Unione Europea nonostante sia apertamente antidemocratico e irrispettoso (eufemismo) nei confronti delle minoranze e di chiunque non sia nato nella vecchia terra di Lajos Kossuth.
Zero migranti è l’obiettivo cui puntare. Vuol dire anche zero stranieri? Parrebbe di intendere così… Del resto, la xenofobia non è mai stata un mistero per formazioni che ieri erano apertamente populiste e oggi si sono convertite ad un neonazionalismo etnico che rasenta il razzismo di Stato (affermazione generosa… forse siamo già a questo livello di inciviltà di ritorno).
Il grande tema all’ordine del giorno è quello di una alternativa progressista entro e fuori i confini di un’Unione Europea che faccia da argine ai cambamenti di colore ruffiani e sesquipedali dei comizi dei Salvini, Orbán, Melonii, Le Pen, Bardella, Winders, eccetera, eccetera. La convergenza tra forze reazionarie e forze liberiste, a tutela del grande capitale e dei progetti finanziari sia nazionali sia continentali, ha una doppia valenza: da un lato consente alle classi dominanti di frenare le brame più accese dei neonazionalisti; dall’altro, però, ne mostra le potenzialità.
Perché la stessa necessità che ha la Commissione von der Leyen di appoggi esterni o interni da parte di questi figuri di destra estrema, è il sintomo evidente di una debolezza ormai strutturale del centro e della destra moderata, un tempo liberale. La capacità di adattamento dei sovranisti è tutta rivolta alla determinazione delle sempre migliori condizioni per loro che consentano di governare importanti paesi dell’UE: Ungheria e Italia, tanto per fare due esempi.
Le convergenze tra reazionari e liberisti accecano e sviliscono ciò che rimane della democrazia: l’esempio francese è lampante. La vittoria del Nuovo Fronte Popolare è stata praticamente messa da parte, una volta assorbiti i consensi della sinistra al secondo turno nel paniere di voti macroniano per scongiurare la vittoria di Bardella. Questo le forze di estrema destra lo sanno bene e fanno leva, proprio come i nazisti nel 1933, sulle contraddizioni dei partiti della classe dirigente per aprire varchi sempre più penetrabili e permeabili alle loro istanze.
Parimenti, i tanti prati di Pontida che si tengono in molte parti d’Europa, sono l’aspetto – se vogliamo – più folkloristico della questione politica di cui si scrive qui; ma sono pur sempre una sorta di espressione fenomenologica di un subconscio delle leadership che devono avere, pubblicamente, un aspetto di presentabilità presso le grandi concentrazioni politico-economico-finanziarie, per poterne fare parte o affiancarle nella gestione del potere.
I colori, i vessilli, le bandiere, gli slogan cambiano, ma l’obiettivo di queste forze politiche rimane sempre lo stesso: un deperimento democratico, una sostituzione delle libertà sociali e civili con le concessioni possibili da parte di un apparato di Stato improntato su una determinazione ferrea di legge e di ordine. Nessuna ribellione deve essere possibili e se il mondo ha un problema migratorio, ebbene che resti fuori dai confini nazionali. L’egoismo delle patrie contro il solidarismo delle nazioni e dei popoli.
MARCO SFERINI
8 ottobre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria