Se per Sinistra Italiana la decisione sul voto a favore o contro il governo Draghi non è stata uno spartiacque, un punto di non ritorno, l’estremità dirimente, allora nulla potrà esserlo a tal punto da far pensare che la formazione erede di SEL, moderatamente antiliberista e certamente di sinistra moderata, abbia finalmente scelto da che parte stare, cosa fare da grande.
Ciò, non tanto per la scelta in sé stessa, che abbisogna di un normale momento di confronto dentro ad un partito prima al governo e ora all’opposizione, quanto per il merito politicamente e tecnicamente antisociale che esprime e che rappresenta nella composizione fotograficamente distanziata di un governo che riunisce veramente tutta la rappresentanza unitaria del mondo imprenditoriale, del padronato e dell’alta finanza italiana.
La scelta diventa così manifesto politico e programmatico. E’ apprezzabile che la direzione nazionale di SI abbia approvato con l’87% dei voti la relazione del segretario Fratoianni che si oppone alla fiducia al governo Draghi. Ma non è possibile non considerare destabilizzante per questa decisione democratica, certamente non unificante sul piano politico (e rappresentativo), la separazione netta tra i tre soli rappresentanti in Parlamento che ha Sinistra Italiana: alla Camera Fratoianni voterà contro, mentre Palazzotto a favore. Al Senato questo dualismo non sarà nemmeno ripetibile, essendo Loredana De Petris la sola senatrice del partito, ed a favore della fiducia al neonato governo.
L’amaro caso di Sinistra Italiana va osservato e commentato con quel rispetto che si deve a qualunque formazione politica viva una scissione al suo interno tra posizioni diametralmente opposte e confliggenti per un futuro riorganizzativo delle forze antiliberiste e progressiste nel nostro Paese.
Del resto, problema ben più complesso, che sta alla base di una proiezione esterna del dibattito, è la riaffermazione unanime del tridente PD – Cinquestelle – Liberi e Uguali, dentro il quale SI rimane convintamente, sostenendo tutta la bontà del precedente governo Conte bis e non aprendo quindi ad una nuova stagione che riveda la considerazione dei rapporti a sinistra, per cercare di fare quella scelta definitiva sul cosa si vuole essere e chi si vuole rappresentare.
Una linea che trova, proprio nel giorno di presentazione del nuovo esecutivo Draghi al Senato della Repubblica, una conferma nella conferenza dei capigruppo dell’ex maggioranza: un consolidamento della fisionomia organizzativo-politica di un “intergruppo” parlamentare, preludio ad una riproposizione dell’alleanza giallo-rosa nei territori, a partire dalle prossime elezioni amministrative. Un progetto che il PD per primo non disdegna, così da rimettere mano ad una certa idea di centrosinistra, rinnovata nella sua composizione, epurata dal renzismo e quindi proponibile come “sinistra” dell’intero schieramento attuale di “unità nazionale“.
Così, ancora una volta, Sinistra Italiana oscilla tra due linee opposte e non offre alcuna garanzia di stabilità in merito all’affidabilità politica: il voto contrario a Draghi e l’appartenenza non smentita all’alleanza con PD, Cinquestelle e ovviamente LeU, si elidono a vicenda. Praticamente nell’esistenza di due posizioni, finisce per non esisterne veramente nessuna.
Nella politica italiana non si riscontra solamente un settarismo di estrema sinistra, facilmente individuabile e stigmatizzabile in posizioni isolazioniste e refrattarie a qualunque tipo di abboccamento per trovare punti comuni di intesa anche solamente tattici. Esiste un settarismo di nuovo conio, un moneta falsa che circola pericolosamente nella inconcludente politica riformista italiana, che promette di far valere i diritti dei lavoratori in Parlamento e invece non riesce e non vuole – per le sue ridotte dimensioni, ma soprattutto per la scelta di aver subordinato al governismo ogni altra pratica politica – valorizzare la visione di classe, l’analisi critica della società.
Si dispone, ormai da sempre, invece sull’asse delle compatibilità con le esigenze del mercato e lo fa non mettendo affatto in discussione l’attuale pars construens, erede del precedente governo Conte, con il centrismo del PD e il populismo dei Cinquestelle. La dicotomia tra scelta del partito e scelta di due terzi dei parlamentari di SI è un ennesimo traumatico passaggio sotto le forche caudine di una chiamata alla presa di posizione nei confronti di un governo che pare aver ricondotto all’unità della classe padronale.
Sinistra Italiana sceglie e non sceglie. Il NO a Draghi avrebbe avuto un significato pienamente di sinistra progressista e antiliberista se fosse stato fatto seguire dalla separazione con l’asse PD-Cinquestelle. La manifesta speranza di rimettere in campo un fronte riformista non elude la domanda di nettezza e di scelta di una parte piuttosto che un’altra. Anzi, chiarisce ennesimamente il carattere interscambiabile di una formazione politica “resiliente” e non precisamente definita.
Nel pieno di una pandemia, che aumenta i profitti di multinazionali e speculatori finanziari, mentre impoverisce il resto della popolazione, Draghi può essere la soluzione veramente “ideal-ideologica” per alcune forze politiche, per un ritrovato slancio magari presidenzialista, di una Repubblica avviata già da tempo su una pericolosa strada accidentata di controriforme incostituzionali. Un lavoro costante, interrotto da decisioni popolari che hanno cautelato la mutazione genetica di parti importanti della Costituzione in altro da sé.
Vanno considerati tutti gli scenari probabili, proprio perché possibili, vista la mutevolezza delle posizioni politiche dei partiti e la loro disponibilità ad un adeguamento repentino al correre degli eventi, al quadro ridipinto che ha per tema il riadattamento dei colori in un caleidoscopico mescolamento di interessi che convergono nella spartizione tanto della gestione quanto dei fondi stessi che proverranno dall’Unione Europea.
Una sinistra consapevolmente di alternativa avrebbe dovuto lavorare da tempo alla propria ristrutturazione, tanto culturale quanto progettuale. Senza una analisi compiuta, approfondita e oggettiva della fase di trasformazione capitalistica in cui ci stiamo addentrando, e che viene fatta scambiare alla gran parte della gente per l’arrivo del Cincinnato di turno, non si può dare vita nemmeno ad una federazione dei partiti atomizzati del movimento anticapitalista italiano.
Le linee programmatiche elencate da Draghi in Parlamento sono un prodotto tutto tecnico-economicistico che esclude il “politicismo“, quindi l’intromissione diretta della dialettica partitica e parlamentare nel nucleo essenziale del mondo degli affari interstatali e continentali. Il formale rispetto delle istituzioni, del rapporto tra governo e Camere, dell’equipollenza tra i diversi poteri dello Stato, non ci salverà dalle politiche di “compatibilità” del nuovo esecutivo.
Per questo diviene più che contraddittorio l’appartenere tanto al NO alla fiducia nei confronti di Draghi e del suo governo, quanto all’ex maggioranza contiana che vorrebbe riproporre uno schema di compromesso interclassista battuto dall’attualità feroce del liberismo, dalle esigenze della filosofia confindustriale, da una riorganizzazione del mondo del lavoro secondo la logica del più forte e produttivo (che va salvato). Vale per i singoli cittadini, vale per le imprese: la chiarezza non è certo una virtù che manca a Mario Draghi: non siamo neppure al “si salvi chi può“, ma al “si salvi chi concretamente ce la fa“. Per gli altri si aprano pure le porte del destino…
MARCO SFERINI
17 febbraio 2021
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