«Sociologia delle macerie», così Marco Revelli definisce il proprio programma di ricerca all’interno dell’universo «sociale». Ricerca di una «verità» in «travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell’erba incolta dei vuoti industriali, nelle terre di nessuno e nei mille abbandonati di oggi» (Non ti riconosco, Einaudi, 2016).
Sappiamo che le macerie possono essere utilizzate anche come materiale indispensabile per la costruzione di nuovi edifici, in un contesto di nuovi territori intrisi di contraddizioni strutturali e di sofferenza umana. Edifici instabili, passibili di ritornare macerie con rapidità perché privi della «“bella centralità” del conflitto di un tempo».
Privi di un «punto archimedico su cui poggiare», sono anche privi, quindi, dello strumento analitico principe tramite cui individuare «l’embrione di una linea di faglia» produttrice di un’efficace antitesi sociale (il manifesto, 23 marzo). Chi ha fatto, come Revelli, «dell’interrogazione sul sociale il proprio mestiere» deve necessariamente guardare dentro questo panorama che è insieme di macerie e di processi costruttivi (ricostruttivi) informi, fragili, assai spesso episodici.
Non solo la sociologia, ma anche la storiografia sul movimento operaio e socialista, quando ha voluto emanciparsi dalla storia «politica», ha messo il «sociale» al centro del quadro e il «politico» ai margini, vicino alla cornice. A volte si è finito anche per stabilire un nesso funzionale tra sociale e politico, nesso dove il primo termine determinerebbe il secondo. Una forma di determinismo che era problematica anche quando nel «sociale» si formavano davvero le faglie larghe e profonde dell’antitesi.
Oggi, poi, proprio la «sociologia delle macerie» ci indica un contesto in cui quel tipo di determinismo è davvero fuori luogo.
Ciononostante si continua ad usare il termine «residuali» per definire le forze politiche (i partiti) presenti nel «nostro campo». In un campo di «macerie» dove anche il «sociale» si manifesta in modi fluidi e rapsodici, siamo tutti «residuali», e nello stesso tempo è tutt’altro che residuale il difficile e controverso processo di costruzione dell’antitesi che non può non essere che politica e nello stesso tempo sociale.
La crisi del conflitto centrale, della classe generale marxiana, non ci libera dall’esigenza, ancora tutta marxiana, di legare qualsiasi progetto politico «alto» all’interno dei processi reali di trasformazione in atto. Non ci libera altresì da un’altra consapevolezza marxiana, quella per cui, comunque, la creazione di un soggetto politico-sociale, o di un tessuto unificante tra diversi soggetti politico-sociali, è anche un’operazione culturale di lungo periodo.
E qui le forze politiche, i partiti, con tutti i loro limiti, non hanno una funzione marginale.
La scelta della loro collocazione in quei lineamenti di lungo periodo, ad esempio, è un aspetto essenziale nella caratterizzazione del «nostro campo». Sempre Revelli dice: sappiamo «che rinchiudersi nel proprio orto non va bene, ma restare senza orto vorrebbe dire consegnarsi al mercato».
Ebbene quei partiti hanno scelto, sia pure in tempi diversi, di non consegnarsi al mercato. Hanno scelto di ancorare la loro iniziativa politica, la costruzione della loro cultura politica, ai percorsi lunghi ed agli spazi ampi delle teorie critiche del capitalismo. Nella consapevolezza della loro fragilità e debolezza hanno scelto comunque di stare sulle spalle dei giganti per vedere più lontano.
Qualche settimana fa si è svolto il congresso fondativo di Sinistra Italiana. Si è trattato di un evento certamente positivo per il «nostro campo». In particolare perché la scelta del «nostro campo» non è rilevabile soltanto dai documenti congressuali, ma soprattutto dai numerosi interventi di giovani militanti e dirigenti locali direttamente impegnati in iniziative concernenti proprio la dimensione del «sociale». Nei loro discorsi emergeva in maniera esplicita la consapevolezza della «faglia», dell’insieme delle contraddizioni non componibili nelle attuali forme di accumulazione del capitale.
Il prossimo congresso del Partito della Rifondazione Comunista (31 marzo- 2 aprile) non potrà che recepire con favore tali risultati.
Sulla base di questi fatti (le idee sono fatti) SI e PRC non potranno non porsi il problema dei percorsi tra il campo ampio che si riconosce nel processo di costruzione dell’antitesi, e la più ristretta area della costruzione di un nuovo soggetto politico.
Dovranno esplorare tutte le forme possibili di un soggetto politico unito ed insieme articolato. Non mancano suggestioni e modelli a proposito in momenti decisivi della storia dell’emancipazione dei subalterni. E sempre le forme raggiunte di unità politica hanno fecondato i livelli di consapevolezza all’interno della dimensione sociale.
PAOLO FAVILLI
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