Ogni tentativo, ogni sforzo per rimettere insieme i cocci della sinistra in Italia è cosa buone e giusta, per dirla con evangeliche parole. Dovrebbe essere, questo, un principio universale, positivo a prescindere dai contesti, dalle persone, dalle forze che vi si impegnano, visto che il concetto usato (e tanto abusato) di “unità” ha assunto in questi anni un valore quasi assoluto, incontestabile, scevro per forza da critiche e da qualunque tipo di obiezione.
Ma quando un concetto, che dovrebbe trovare uno sviluppo conseguente nella realtà di ogni giorno – vista la sua caratteristica non propriamente metafisica e oltre-terrena – finisce col diventare una sorta di dogma inattaccabile, privo di qualunque possibilità detrattrice, allora la sua positività inizia a scemare e bisogna tenere conto di quelle molte variabili che lo circondano e che alla fine fanno dubitare – forse – delle intenzioni di chi propone l'”unità” a tutti i costi.
Si può affermare che l'”unità” venga cercata a tutti i costi proprio perché la si vuole, senza se e senza ma, quindi sempre con una accezione positiva.
Si può altresì affermare che questa “unità” della sinistra sia possibile farla prescindendo da aggettivi e che, se proprio deve essere specificata, declinata in qualche modo, e non rimanere nel vago, allora si possono eliminare vecchie terminologie ingombranti, come ad esempio la parola “comunista” o locuzioni come “di classe“, “di opposizione“, “di alternativa“.
Cosa hanno in comune questi epiteti, aggettivi, gruppetti di parole che da sola la “sinistra” non ha e non può avere? E’ molto semplice: chiariscono che tipo di sinistra si vuole costruire; accennano persino al programma con la quale si vuole rimettere in piedi una forza politica e sociale che muova nel senso della trasformazione sociale. Ammesso che si voglia andare in quella direzione.
Perché anche i programmi politici simili, come l'”andare controcorrente” o “in direzione ostinata e contraria” può significare dall’andare a far parte della maggioranza attuale di governo provando a modificarne infinitesimamente la rotta liberista, pagando il prezzo della subordinazione al liberismo stesso dell’esecutivo, fino al rappresentare invece una separazione dai modelli di intervento istituzionale che un certo progressismo italiano si è dato e, volendo ricreare le condizioni per una nuova sinistra di classe, necessita oggettivamente di un ruolo di opposizione in questa fase di stretta attualità politica e sociale.
Non c’è una terza via possibile e ce lo dicono prima di tutto i rapporti di forza che si sono creati all’interno di un mondo del lavoro che sempre più viene penalizzato da interventi politici che non sono una forma di ossigeno per i più deboli, per i salariati, per i moderni proletari costretti a fare i riders, oppure per gli esodati, per i precari trattati in mille modalità contrattuali differenti per separarli, per renderne la condizione di sfruttamento sempre meno percepibile perché quasi trasformati in padroni di loro stessi senza potersi però proclamare “lavoratori autonomi” perché dipendenti da qualche multinazionale del e-commerce, tanto per fare un esempio…
La formula del centrosinistra, ricomposto da una sinistra moderata e liberaleggiante (usiamo come “cortesie per gli ospiti” qualche eufemismo necessario), da forze espressamente di centro, ultra-europeiste e da forze di sinistra presuntamente alternativa cui si affiancherebbero settori ecologisti e progressisti, come accaduto in Emilia Romagna, non porta ad una definizione dell’autonomia necessaria per il recupero della riconoscibilità della diversità dell’anticapitalismo e del neo-comunismo, di questo millennio appena apertosi da due decenni, rispetto a tutte le altre forze politiche in campo.
Una formula simile non fa che ripetersi dentro alla stancante obbligatoria alternativa tra liberisti di centro (con molta poca sinistra) e liberisti di destra (con tanta destra invece). La partita, alla fine, la giocano sempre forze che si collocano al centro e che giovano tutt’oggi, come nel recente passato, dei trucchi elettorali, chiamati impropriamente “leggi“, che hanno reso il voto di ciascun cittadino differente in base al tipo di scelta fatta: ma non differente per qualità, per rapporto ideale con il partito cui ci si riferisce e si vota; semmai la differenza diventa quantitativa, per cui a partito più grande ed elettoralmente pesante corrisponde un voto eguale e contrario a quello uguale per diritto costituzionale che viene esercitato da chi mette la croce su un simbolo di una formazione minore.
Così si può energizzare pienamente tutta la dirompente potenza del “voto utile” verso la proclamate “oggettività dei fatti“, ossia l’esistenza di coalizioni, costretta a diventare e rimanere tali, in virtù di un reciproco sostegno per garantire privilegi di classe a settori di una società che altrimenti sarebbe scomposta e tornerebbe a riflettere non mediante l’utilità del “voto utile” ma tramite l’utilità del voto sic et simpliciter, senza artifici e sofisticazioni antidemocratiche aggiunti.
Per questo, l’assemblea di Sinistra Italiana, che ha visto la partecipazione di Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia Romagna e indiscussa protagonista della lista “Emilia Romagna Coraggiosa“, non ha mostrato alcun segno di discontinuità verso quella linea di frontismo e di alleantismo filo-governista che vede sempre e solo nel PD l’aggancio necessario per battere le destre sovraniste oggi, berlusconiane ieri (tralasciamo la parentesi renziana…).
Ritenendo ciò l’elemento primario su cui fondare la sinistra, l’alternativa, ma senza più nominare qualunque elemento conduca ad una critica anticapitalista, persino anche solo antiliberista: fermandosi alla tattica espressa da Schlein con queste parole… “Al PD dico di individuare le candidature a presidente insieme, laddove non sono state già stabilite“.
Se tutto questo fosse accompagnato da una identità chiara, che vuol dire programmi chiari di volontà di rovesciamento di questo sistema economico, iniziando anche da un pallido riformismo istituzionalista, vi sarebbe almeno una comprensione delle ragioni del riformismo stesso. Ma, se ha fallito al momento l’ipotesi “di classe“, la proposta comunista, il cercare una soluzione politica che crei le condizioni per sostenere una ristrutturazione sociale fondata su una coscienza, su una consapevolezza dello sfruttamento generato dall’accettazione delle regole del mercato, non si può dire che abbia vinto il riformismo governista di Sinistra Italiana o del piccolo puzzle di Liberi e Uguali.
Ancora diverso è il discorso per quei settori di sinistra (presuntamente) socialdemocratica che si stanno riavvicinando al PD e che pensano di entrare in chissà quale nuovo “gorgo” per condizionare il maggior partito del campo avverso alle destre. Campo che, a differenza di un tempo, ha bisogno della destra grillina per poter battere i sovranisti e che tutto garantisce tranne uno “spostamento a sinistra” del quadro generale della politica tanto di strada quanto di palazzo.
Dobbiamo anche noi comunisti smetterla di essere o mostrarci ingenui: sappiamo bene che queste forze politiche hanno precise funzioni nella riedificazione del centrosinistra in Italia. Sono una piccola calamita che cerca di dare una sponda progressista ad un carrozzone altrimenti troppo simile anche visivamente al centrodestra.
All’assemblea di Sinistra Italiana è stato detto che lì, in quel contesto, si è riunito “il meglio della sinistra e dell’ambientalismo italiano per porre tutti insieme alcune domande: come possiamo contribuire a battere la destra nella società, l’unica condizione per batterla anche nelle urne“.
Ecco, il primo modo per battere la destra nella società è smetterla di fare la destra quando si è al governo con il nome di “governo giallo-rosso” o “sinistra di governo“. Ma per fare ciò occorre un salto culturale prima ancora che politico. Occorre l’umiltà della consapevolezza dei rapporti di forza attuali che è il contrario della rassegnazione ai dettami istituzionali creati e gestiti da chi afferma di voler cambiare le cose e invece non fa altro se non illudere milioni di persone e creare spazi enormi per le destre che finiranno, prima o poi, per divorarsi il Paese.
MARCO SFERINI
18 febbraio 2020
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