Sindaci di minoranza

Com'è andata. Astensione record, ormai la scelta del sindaco è un affare per pochi. Ma stanno a casa soprattutto gli elettori di destra e così vincono gli altri. Quasi ovunque i candidati di centrodestra fanno peggio del primo turno e pagano il non voto delle periferie. A Roma salto all'indietro di 70 anni, così pochi elettori solo nel 1952. E negli anni Novanta Rutelli prendeva da solo più consensi di tutti quelli che sono andati domenica e lunedì ai seggi

Votare per scegliere il sindaco della propria città interessa ormai solo una minoranza di elettori. In media in Italia 44 elettori su 100. Ma è una media che non dice tutto, perché nei piccoli centri in generale va meglio e nelle grandi città peggio, in alcuni casi molto peggio. Nelle regioni dove si votava solo in comuni medio-piccoli, come Abruzzo, Puglia, Basilicata, Molise e Toscana, l’affluenza media riesce almeno a restare sopra il 50%.

Invece è proprio Roma a registrare il calo più forte nell’affluenza tra il primo e il secondo turno (-7,86%). Quello della Capitale è anche il dato più basso tra i tre capoluoghi di regione al ballottaggio: per Gualtieri o per Michetti vota solo il 40,68 degli elettori (a Torino il 42,14, meno 5.94% e a Trieste il 42%, meno 4%). Questo significa che nella capitale – come previsto – hanno scelto il sindaco meno di un milione di romani (960mila).

Per trovare un precedente a questa «bassezza» bisogna tornare indietro di settanta anni, al 1952 quando però la città era grande (e abitata) la metà. Per stare a un periodo più recente, e a parità di abitanti, negli anni Novanta Francesco Rutelli ha vinto due volte le elezioni conquistando da solo lo stesso numero di elettori che nel complesso sono andati a votare tra domenica e lunedì.

Un’affluenza così bassa è dunque, inevitabilmente, la prima causa dei risultati di ieri: sono stati innanzitutto gli assenti ad assegnare le vittorie nei ballottaggi e vedremo in che senso. Ballottaggi che nel complesso hanno premiato il centrosinistra, vittorioso in 32 della 65 città in palio (ma solo in otto casi in alleanza formale con il Movimento 5 Stelle). Sono state invece 14 le vittorie del centrodestra o della destra, 13 quelle dei candidati di liste civiche e cinque quelle del Movimento di Giuseppe Conte, che però ha perso gli unici capoluoghi dove aveva la sindaca (Roma, Torino e Carbonia al primo turno).

Pd e alleati vincono in otto dei dieci capoluoghi di provincia che erano in corsa, conquistandone dunque cinque in più rispetto al 2016. Di queste nuove cinque, due sono città strappate al M5S (Roma e Torino) e tre città strappate al centrodestra. In questo caso due volte su tre i candidati del centrosinistra, a Cosenza e a Isernia, hanno avuto l’appoggio dei 5 Stelle, che a Savona lo hanno invece negato. In definitiva gli unici due capoluoghi di provincia dove il candidato di centrosinistra non ha vinto sono stati quelli dove è stato confermato il sindaco uscente, Trieste e Benevento.

Quasi ovunque il candidato di centrodestra ha preso meno voti al secondo turno che al primo. È successo a Cosenza, a Latina , a Isernia, a Torino e a Savona. Non è successo solo a Caserta e a Varese dove però il centrodestra ha perso ugualmente, a Roma dove Michetti nei due turni ha guadagnato quasi niente (fermandosi, come vedremo, nei Municipi decisivi). Non è successo anche a Trieste, dove a Dipiazza ha mantenuto gli stessi voti del primo turno (precisi, tranne 31) ma in virtù del forte vantaggio è riuscito a prevalere di un soffio su Russo che pure ha raccolto 10mila voti in più (guarda caso esattamente la somma di quelli andati al primo turno a 5S e sinistra).

A Roma, dicevamo, hanno guadagnato voti entrambi, sia il vincente Gualtieri che il perdente Michetti. Ma nella Capitale c’era la grande torta degli elettori di Calenda e Raggi da recuperare, nell’insieme 432mila voti.

A conti fatti la torta è andata in grande maggioranza al candidato del centrosinistra, che al secondo turno ha aggiunto 265mila voti a quelli raccolti nel primo. Una seconda fetta di elettori di Calenda e Raggi, grande la metà di quella andata a Gualtieri, è presumibilmente finita nel non voto, costituendo la parte maggiore (125mila voti) dei nuovi astenuti (in totale 192mila elettori spariti). A Michetti sono finite le briciole, tra primo e secondo turno il tribuno radiofonico ha recuperato appena 40mila voti, il 4% degli elettori al ballottaggio. Il centrodestra è rimasto al palo nelle periferie dove più forte è stata l’astensione: nel sesto municipio ha votato appena il 32,45% degli elettori, nel decimo il 37,7%. Di conseguenza Gualtieri, che in termini di voti reali è salito in modo omogeneo in tutti i municipi, proprio nelle periferie è cresciuto di più in termini percentuali.

Ma è una successo che non deve ingannare, perché costruito interamente sull’astensione degli elettori di centrodestra al primo turno e di ex elettori di Calenda e Raggi di tendenza centrodestra al secondo turno. La performance peggiore Gualtieri l’ha fatta proprio nel sesto municipio (l’unico dove è arrivato dietro Michetti e l’unico dove ha vinto un presidente di municipio di destra), a seguire in tutti gli altri municipi di periferia dove l’affluenza è andata peggio.

Anche a Torino le circoscrizioni di periferia sono quelle dove Damilano ha costruito la sua sconfitta. Tra primo e secondo turno, il candidato del centrodestra ha perso ottomila voti. Un po’ ovunque, ma maggiormente nelle circoscrizioni della periferia nord, la quinta e la sesta, dove si è votato con percentuali bassissime, appena il 35,8% e il 35,6%. E nel vuoto della destra la vittoria del centrosinistra può sembrare un trionfo.

ANDREA FABOZZI

da il manifesto.it

foto: screenshot

categorie
Politica e società

altri articoli