Siamo molto di più di quello che pensiamo di essere

Piccolo diario intimo. Se volete… Il primo dicembre è sempre la giornata mondiale per la lotta contro l’AIDS. L’acronimo terrorizzava negli anni Ottanta e Novanta. Lo stigma era pressoché...

Piccolo diario intimo. Se volete… Il primo dicembre è sempre la giornata mondiale per la lotta contro l’AIDS. L’acronimo terrorizzava negli anni Ottanta e Novanta. Lo stigma era pressoché totale. La pubblicità progresso tinteggiava di un contorno violaceo, a tratti bluastro, chiunque: perché tutte e tutti noi potevamo essere veicolo consapevole o meno di un virus che poteva portare all’immunodeficienza umana e allo sviluppo quindi di un crollo delle difese che il nostro corpo mette in essere quando viene attaccato da agenti patogeni.

Da allora sono passati quarant’anni e la scienza medica ha fatto passi da gigante nella prevenzione virale e nella cura della malattia. Tuttavia si continua, seppure in sempre più modesta parte, a confondere HIV e AIDS, a non conoscere con oculatezza le modalità del contagio e, quindi, ad alimentare pregiudizi, timori e vere proprie fobie sull’argomento che, inevitabilmente, si ripercuotono nella vita quotidiana soprattutto di chi è affetto dalla sindrome citata, ma pure di chi gli vive intorno, così come di chi ne è lontano.

C’è stato un tempo in cui – e forse c’è ancora – anche la diagnosi di tumore era sotto una lente di pesante ingrandimento che aveva un retrogusto pietistico, ipocrita e fintamente benevolo nei confronti del malato. Trattato soltanto come tale e non come un essere umano che deve affrontare un percorso di guarigione, breve o lunga nel migliore dei casi, o di accompagnamento verso la fine, nel peggiore. Pareva quasi che essersi ammalati di cancro volesse significare doversi portare appresso una colpa di non si sa bene cosa.

Una responsabilità che la società affidava al malato, facendolo sentire dipendente dagli altri ogni ora della giornata e, quindi, sostanzialmente, un peso per la società. Poi, siccome siamo anche capaci, quando lo vogliamo, di reazioni empatiche, provando a metterci per un secondo nei panni di chi sta peggio, allora abbiamo compreso che il “male brutto” non era contagioso al punto da farci rimbecillire, lasciando da soli tutte e tutti coloro che ne erano colpiti.

Non solo un’etica della scienza, che deve occuparsi necessariamente del rapporto con i pazienti e pure di quello con chi non capisce tutte le implicazioni di una malattia, ma anche un lavoro meticoloso di reti sociali e culturali dedite al volontariato e all’assistenza, hanno permesso di vincere la nostra, recondita, forse inconscia, paura per i tumori e di affrontarli da un punto di vista diametralmente opposto: includendo noi stessi nel cammino di chi è malato, smettendola di pensare allo stesso come ad una donna o un uomo che fossero soltanto quello. Dei malati.

Si è anche malati, ma si rimane anzitutto esseri umani. Uguali agli altri. Il tema delle differenze rientra sempre in gioco nel momento in cui ci rendiamo conto che dobbiamo fare i conti con realtà che non conoscevamo perché, almeno fino ad un dato momento, non ci hanno riguardato. Ed invece non dovremmo mai dare nulla per scontato, perché in questo modo impediremmo alla presupponenza di essere intoccabili da sorti avverse, malattie e quant’altro, di prevalere sul mortalità che ci caratterizza e che non andrebbe mai dimenticata.

Soltanto i giovanissimi possono consentirsi di non pensare troppo alla fine dell’esistenza: non fosse altro perché l’hanno appena iniziata e, quindi, come cantavano I Nomadi e Guccini in “Canzone per un’amica” «…quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano…». Ma nell’età della maturità, anagrafica quanto meno, si deve iniziare un percorso di acquisizione della consapevolezza dell’imperfezione, della mutevolezza dell’esistenza, degli accidenti che ci possono accadere e della finitudine che ci è propria.

Nulla a che vedere con un rattristante cogitabondo starsene appollaiati su una sedia o un divano a fissare il vuoto rimestando in un turbinio tempestoso di pensieri. Semmai soltanto la coscienza attiva e presente di porsi alcuni limiti per vivere meglio e per aiutare a vivere meglio chi ci sta intorno. Tutto qui. Sembrerebbe semplice, almeno scritto e letto così. Ma non lo è. Perché ognuno di noi, nella sua unicità, dà seguito a tutta una serie di specificità nei rapporti che sono altrettanto uniche e, quindi, i precetti generali, pur pieni di ottime intenzioni, finiscono col condizionare i buoni propositi e farli deragliare su qualche binario morto.

Quando ho capito che mi piacevano gli uomini anziché le donne ero poco più di un adolescente. Avrò avuto quindici, sedici anni al massimo. Ho tenuto tacitamente in me i desideri, non negandoli, ma evitando di mostrarli, di renderli per quello che avrebbero potuto essere: uno sguardo che si sarebbe potuto soffermare più a lungo sul bel viso di un ragazzo; magari una gentilezza regalata in forma di timido tentativo di corteggiamento; o, ancora, una vera e propria voglia di dare una carezza a chi poteva sembrare il primo amore, fra tanti.

Erano gli anni Novanta del secolo scorso, imperversava non solo ancora il pregiudizio nei confronti delle persone che oggi definiamo con il lungo acronimo LGBTQIA+, ma, come si faceva cenno all’inizio di queste righe, soprattutto aleggiava lo spettro dell’HIV che tutti confondevano con l’AIDS. Per quanto gli scienziati si sforzassero di comunicarlo, saliva, lacrime, sangue e sperma erano un tutt’uno e, probabilmente, per qualche lungo, lungo attimo ci abbiamo creduto un pochino anche noi che ci informavamo più compiutamente, percependo la nostra omosessualità (che vuol dire semplicemente che si è attratti da persone del proprio medesimo sesso).

Non esisteva Internet, non c’erano i social e, quindi, era pressoché impossibile riuscire ad avere informazioni di prima, propria mano. Ci si doveva affidare ai giornali, alle pagine pubblicitarie che davano istruzioni su come comportarsi nel fare l’amore, su come farlo protetto, su come proteggere e proteggersi. E su come rapportarsi in famiglia. Se si poteva o meno usare gli stessi asciugamani in bagno, condividere le docce e la vasche, disinfettare o meno lavandini, maniglie, piatti, cessi, bidet…

All’improvviso, comparsi i primi casi di AIDS, la notizia dell’incurabilità della sindrome da immunodeficienza umana aveva opportunamente fatto il giro del mondo e terrorizzava, perché la diagnosi era la stessa di quella dei tumori maligni e metastatici: la morte. Non c’era nessuna possibilità di rallentare il decorso fatale, mentre oggi la vita di un sieropositivo è, grazie alla scienza, con diagnosi precoce, assimilabile a quella di chiunque si trovi nella condizione di dover convivere con una patologia cronica ma non degenerativa. Per fare, molto banalmente un esempio: il diabete. Ma questo non deve far abbassare la guardia.

Perché le malattie sessuali sono tante e gli stigmi molti di più ancora. L’HIV e l’AIDS erano, qualche decennio fa, sindrome e malattia dei froci, dei culattoni, dei finocchi, di chi si inculava. Questo perché i primi casi si erano scoperti nell’ambito della comunità omosessuale o erano saliti alla ribalta delle cronache per il fatto che a incapparvi erano stati famosi attori, bellissimi e corteggiatissimi dal pubblico femminile, come Rock Hudson.

Per fortuna se ne è parlato tanto e la conoscenza ha permesso di aumentare la coscienza singola e collettiva riguardo la ricaduta proprio sociale di quella che era ritenuta la “peste del XX secolo“. Ad un Albert Sabin che andò in televisione ad affermare che esistevano anche altre pericolosissime patologie, come la tubercolosi di cui morivano centinaia di migliaia di persone nei paesi in sottosviluppo, si rispondeva, da parte dei commentatori saputelli di allora, con risolini, spallucce e quasi il compatimento nei confronti di un vecchio, grande uomo di scienza che non tentava affatto di minimizzare la problematica rappresentata da HIV e AIDS.

C’era superficialità ma anche voglia di saperne di più. Perché la società non mai uniforme: è molteplice nelle sue espressioni e, quindi, non bisogna mai fare di tutta l’erba un fascio. Occorre arrivare a quella parte più disposta ad approfondire i temi, a non fermarsi alla superficie delle cose, a non ritenere che ciò che si vede è sempre e soltanto l’unica verità possibile. Trent’anni fa era possibile per due uomini o due donne baciarsi per strada. Ma tra sguardi accusatori, mimiche facciali che interpretavano lo schifo che si viveva in quel momento, risatine sardoniche e sarcastiche.

Oggi è possibile per me e il mio compagno girare per le vie e le piazze tenendoci per mano, fermarci per scambiarci qualche tenerezza, un bacio. Ma, nonostante si sia entrambi molto adulti, rimane il retaggio del passato: rimane la sensazione che si può dare una qualche forma di scandalo e, istintivamente, ci si guarda un attimo intorno prima. Poi ci si bacia. Mano nella mano, non c’è differenza statistica di età tra i giovani e i meno giovani che fissano, che provano a far finta di niente ma che si sorprendono.

Perché siamo ancora troppo pochi nell’osare essere ciò che siamo: uomini, donne, maschi, femmine, binari o non binari, trans o bi o intersessuali e tutti i plus che si vuole aggiungere, liberi di vivere i sentimenti alla luce del sole, dimostrando che eterosessualità e altre sessualità non sono qualcosa di esclusivamente intimo da vivere nel chiuso delle nostre stanze (quante volte avete sentito la frase: «A me i gay non fanno nulla di male, basta che quello che fanno lo facciano per conto loro e non davanti a tutti»). Ma sono parte della vita di tutti i giorni. E di questo non ci si deve stupire più.

L’omo-bi-lesbo-transfobia non si manifesta soltanto (si fa per dire…), nella cruda, spietata, ottusa violenza psicologica del bullismo o in quella materiale delle botte, delle aggressioni e dei pestaggi di chi si sente in diritto di rappresentare la “normalità” della maggioranza delle persone e, quindi, una morale superiore che deve imporsi su tutto il resto; no, ogni stupore davanti all’amore tra due uomini, tra due donne deve essere ancora considerato come un residuo dello stigma nei confronti delle persone LGBTQIA+. Ogni minimizzazione è una tentazione di conservazione dell’eterosessualità come unica naturale forma di espressione dei sentimenti, del desiderio, delle passioni.

Che sono tutte manifestazioni dell’unicità nostra nella complessità di un’esistenza che non è riducibile alla binarietà universale degli opposti e compenetrati al tempo stesso: luce ed oscurità, caldo e freddo, cielo e terra, buono e cattivo, eterosessuale e omosessuale, maschio e femmina, eccetera, eccetera… Qui sta un po’ il nocciolo della questione: diamo ancora per scontate troppe cose sulla base di pregiudizi vecchi come il cucco.

Diamo per scontato che i nostri (vostri) figli siano un giorno uomini che ameranno donne e donne che ameranno uomini. O che non potranno mai essere bisessuali, transessuali o che, magari, vengano a dirvi che non si riconoscono in nessuna delle affettività consuete, in cui si esprime la maggioranza dei viventi. Invece non dovremmo dare nulla, proprio nulla per scontato. E questo riflesso condizionato vale anche per le malattie: non dovremmo mai pensarci immuni dalle spiacevolezze: in questo modo potremmo forse apprezzare anche di più ciò che abbiamo, ciò che possiamo vivere e far vivere di noi e con noi.

Ma la rigidità millenaria di certi schemi, indotti anche (forse soprattutto) dalla Chiesa cattolica e dalle religioni in generale, ha impedito alle potenzialità davvero grandi della nostra intelligenza e della nostra conseguente capacità di espansione della coscienza (nella conoscenza) di trovare tutte le strade possibili per affermarsi in quanto tale, rimanendo relegati nelle preconcettualità: zone di comodo per avere la certezza di essere “normali” e non essere additati come “strani“, fuori dal contesto, innaturali o, come si diceva un tempo: invertiti. Capovolti da una condanna.

La lotta contro ogni stigma aiuta la nostra psiche e aiuta la nostra salute nelle sue dinamiche biologiche più recondite. Nessuna precondizione, nessuna certezza. Tante possibilità. La chiave di volta è questa: non ci sono solo due strade da percorrere, ma molte di più. I viaggi da intraprendere sono così diversi che ogni differenza è ricchezza. Non esistono novità, ma solo esperienze da fare che per secoli e secoli ci siamo preclusi. Camminiamo insieme, mano nella mano.

MARCO SFERINI

30 novembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria


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