Petrolieri di tutto il mondo, preoccupatevi. Un’associazione ambientalista e 17mila cittadini olandesi hanno vinto contro un peso massimo del petrolio, la Royal Dutch Shell. A cui una giudice dell’Aja ha ordinato di tagliare le emissioni di gas serra e di farlo ora, non fra trent’anni.
È una prima mondiale, gioiscono i capi di Milieudefensie (Difesa ambientale, in olandese). Perché Shell è il nono inquinatore mondiale. E perché non sono solo i governi a dover rispettare gli Accordi di Parigi sul clima. Ora anche le aziende, almeno quelle che hanno fatturati come il pil di un piccolo-medio stato.
Milieudefensie è nata come associazione di scienziati nel 1971, oggi è la branca olandese di Amici della Terra e dichiara 90mila iscritti. Con 300mila dollari di budget per avvocati, ricerche ed esperti, ha sfidato una delle quattro più grandi compagnie del pianeta, che fattura 260 miliardi di dollari l’anno in 140 paesi. L’ha sfidata in casa sua – il quartier generale e a Houston, in Texas, ma la sede fiscale è L’Aja. E l’ha sfidata sulla base del «danno imminente» e della preminenza del danno collettivo sull’interesse aziendale, e anche questa è una prima.
Perché Shell non ha fatto niente di illegale, ha stabilito la giudice Larisa Alwin. Ma siccome il 95% dei suoi investimenti sono e continuano ad essere spesi per trivellare petrolio o per cercarne altro, e da decenni si è a conoscenza dei danni dei gas serra, i generici impegni non bastano più: troppo evidente il danno in arrivo per i cittadini olandesi (e magari per tutti quelli che respirano un’aria simile), troppo lieve l’impegno per contrastarlo – la definizione del giudice è «intangibile, indefinito e non vincolante». Quindi la sentenza: taglio del 45% dei gas serra entro il 2030, sia i vostri che quelli provocati dai vostri prodotti. Fate come volete, scrive il giudice, ma tagliate.
La multinazionale anglo-olandese – nata nel 1907 per contrastare lo strapotere della Standard Oil di Rockefeller e adeguatasi molto in fretta alla sua prassi industriale – ha espresso «disappunto» e annunciato ricorso, sulla base tra l’altro del fatto che a dover dar retta agli Accordi di Parigi sono i paesi che li hanno firmati e non le aziende. I più grandi e inquinanti firmatari di quegli accordi, peraltro, erano gli Stati uniti, e appena Trump divenne presidente li stracciarono di gran carriera. Perché dovrebbe conformarvisi un’impresa, che ha negli azionisti i soli elettori che contano?
Ma «ci sarà un giudice a Berlino»: come il mugnaio settecentesco bistrattato dal suo conte si rivolse a Federico II, così la piccola Milieudefensie ha congregato un altro po’ di associazioni – tra cui Greenpeace – e si è rivolta al giudice dell’Aja. E ora gli imperi dei combustibili fossili devono guardarsi da una pioggia di cause simili nelle rispettive sedi fiscali. L’avvocato di Milieudefensie, Roger Cox, già lo teorizza: «Raccogliete il guanto di sfida», ha detto, chiedendo di aprire cause così ovunque sia possibile.
Che Shell è il nuovo inquinatore mondiale lo dice il Carbon Majors Database. I primi dieci sono tutti nei combustibili fossili e da soli fanno oltre un terzo della percentuale dei gas serra mondiali: China Coal (14,3%), Saudi Aramco (4,5%), Gazprom (3,9), National Iranian Oil (2,3%), ExxonMobil (2%), Coal India (1,9%), Pemex Mexico (1,9%), Russia Coal (1,9%), Royal Dutch Shell (1,7%), China national petroleum (1,6%).
La causa è iniziata lo scorso 1 dicembre e Shell, sicura di vincere, aveva presentato il suo calendario contro i gas serra che prevedeva di tagliare le emissioni carboniche del 20% entro il 2030, per arrivare a emissioni zero entro il 2050. Ma per taglio, il gigante petrolifero intendeva più che altro l’impiego di una tecnologia detta Ccs (Carbon capture & storage), che prevede di “catturare” l’anidride carbonica nell’aria e ficcarla in profondi pozzi sotterranei per i secoli dei secoli amen. Una tecnologia non ancora completamente disponibile. Per la quale comunque la Norvegia, grande e socialdemocratico produttore di petrolio, sta trivellando i suoi stessi mari nella fabbricazione di queste cisterne per rifiuti sempiterni – e sui cui anche l’Italia sembra contare per spendere un po’ dei soldi europei per l’ambiente.
È comunque il terzo schiaffo giudiziario a Shell in pochi mesi. Lo scorso gennaio un tribunale olandese aveva condannato la multinazionale a compensare le vittime del disastro provocato dalla perdita di un oleodotto in Nigeria una decina di anni fa, e in febbraio la corte suprema della Gran Bretagna aveva reso possibile a migliaia di nigeriani di fare causa a Shell per danni ambientali nei tribunali inglesi.
E non è la sola batosta ecologica per i top petrolieri mondiali. Per la prima volta al mondo, due direttori nel consiglio d’amministrazione di Exxon – la più grande compagnia petrolifera americana, uno dei quattro big del mondo – sono stati cacciati da un azionista “attivista” che protestava per i pervicaci investimenti oil only dei gigante del greggio, quello che più di tutti si ostina a investire solo in petrolio e niente – ma proprio niente – in energie alternative (perdendoci anche, che è il vero motivo della cacciata). L’hedge fund “Engine N. 1” ha guadagnato i voti di un gruppo di potentissimi fondi-pensione americani e ha vinto due posti nel cda, estromettendo due dirigenti “nemici”. È la prima volta che un azionista vince una battaglia ”ambientale”, ma è solo l’inizio.
ROBERTO ZANINI
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