Sfidare il capitalismo

La capacità di rendere di facilissima comprensione i grandi problemi nazionali ed internazionali della grande Repubblica stellata americana è, in tutta evidenza, il tratto più peculiare dell’ultimo libro scritto...

La capacità di rendere di facilissima comprensione i grandi problemi nazionali ed internazionali della grande Repubblica stellata americana è, in tutta evidenza, il tratto più peculiare dell’ultimo libro scritto da Bernie Sanders “Sfidare il capitalismo” (Fazi editore, 2024) senza nulla togliere, si intende, proprio ai contenuti che sono così bene espressi e descritti da astrarci dal ruolo di spettatori della politica mondiale e nordamericana, costringendoci benevolmente a diventarne, almeno pagina dopo pagina, direttamente parte, quasi fossimo noi stessi cittadini statunitensi.

Ciò vale ancora di più, appunto, per noi italiani che ci sentiamo molto poco europei e guardiamo all’America come ad un avversario del resto del mondo che vi si oppone, obiettivamente, con esempi di governo, metodi e azioni tutt’altro che differenti da quelli rivendicati dalla “democrazia” molto tra virgolette che saluta chi arriva dal mare con le sembianze della Libertà che tiene in alto la fiaccola splendente dei diritti di ognuno e di tutti.

Ma vale anche per tutti quei popoli che, diversamente da noi europei che conosciamo gli Stati Uniti per la loro potenza economica, le mode, Halloween, Hollywood, Playstatione  e telefonini di ultimissima generazione della Sylicon Valley, hanno potuto saggiare la prepotenza delle amministrazioni tanto repubblicane quanto democratiche laddove si parla di politica estera, di “esportazione della democrazia“, di “guerra al terrorismo“, di rivendicazione dei diritti umani… Bernie Sanders, che rappresenta la sinistra socialista in seno al Partito Democratico, non fa sconti a nessuno.

Tanto meno al suo stesso partito e ai leaders che lo hanno rappresentato in tutti questi anni, fallendo in quella che sarebbe dovuta essere la missione di un nuovo progressismo, seppure moderato, ma nettamente alternativo alla prepotenza trumpiana. La vittoria di Biden – ammette Sanders – non era l’unico obiettivo che i progressisti americani si ponevano elle elezioni pandemiche del 2020. La base più sociale del partito era consapevole che avrebbe dovuto puntare su uomini e soprattutto su donne che erano stati bersagliati dagli avversari proprio per le loro posizioni sociali.

Alla campagna per l’affermazione di tutta una serie di diritti del mondo del lavoro si accompagnava quindi quella per la rivendicazione dei diritti civili: ad iniziare dalla lotta contro quello che il senatore socialista definisce un “razzismo sistemico“. Come suggerisce il titolo del libro, il cuore di tutti i problemi è il sistema in cui viviamo e vive l’americano moderno: il capitalismo. Un sistema che, nella sua involuzione antisociale liberista, Sanders apostrofa come “übercapitalism“, ossia una estensione totalizzante della merceologizzazione, della trasformazione di qualunque cosa in fattore di scambio e di oggettivizzazione.

Tutto rientra nella preservazione di quel mondo di miliardiari che, titola nemmeno tanto provocatoriamente l’autore in un capitolo, “non dovrebbero esistere“. Perché la loro esistenza è sinonimo di ineguaglianza massima, di sproporzione quasi incalcolabile tra un uno per cento della popolazione che si può permettere qualunque tipo di lusso, sognando persino di andare su Marte con navicelle spaziali proprie, mentre il restante 99% si spartisce le briciole di una sopravvivenza che è aggrappata alle fluttuazioni dell’alta finanza, delle grandi concentrazioni bancarie e delle multinazionali che divorano il pianeta.

Leggendo le riflessioni che Sanders mette nero su bianco nel suo libro, si ha la certezza che il socialismo ha un senso nella misura in cui diventa nuovamente una coscienziosa, critica alternativa a questo capitalismo sopra tutto e sopra tutti. L’affermazione di principio risulta piuttosto semplice da fare; molto più complesso è tradurla nella pratica soprattutto politica, ma non di meno sociale e sindacale, nonché cultural-civile dei nostri tempi pseudo-moderni.

In fondo, Sanders non fa un grande sforzo nel dimostrare, partendo dall’oggettiva inconfutabilità dei dati economici forniti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, che il capitalismo non può rendere umano il lavoro, non può arricchirlo di socialità, di condivisione di responsabilità dal basso. Questo perché, il capitale è fondamento di una piramide al cui vertice sta la privatizzazione di ogni cosa, di ogni attitudine umana e animale, che rende merce e che spoglia di ogni diritto. Primo fra tutti quello alla vita degna di essere vissuta.

Il nostro senatore fa una distinzione sottile ed arguta quando tratta del tempo dato al lavoro e del modo in cui questo lavoro si svolge: «Il vero dibattito non è se la gente andrà a lavorare o no. Il vero dibattito è se saremo in grado di dire “Voglio andare a lavorareanziché “Devo andare a lavorare“». Uno degli obiettivi di un movimento socialista moderno dovrebbe essere quello di lottare per la riconversione proprio del tempo di lavoro in attività personali e collettive che siano un sostegno tanto psicofisico all’individuo quanto al benessere della comunità.

Invece questo capitalismo ci ha costretti a considerare l’avere una occupazione qualcosa di più del guadagnarsi da vivere. Una locuzione innaturale, concepibile soltanto entro il perimetro del capitale e del liberismo: la vita non bisognerebbe guadagnarsela, facendo quindi arricchire altri rispetto a noi, ma bisognerebbe poterla vivere per quello che è, con tutte le problematiche e le contraddizioni che, prescindendo dal sistema in cui siamo costretti a sopravvivere, ci verrebbero comunque incontro.

Manca – ribadisce Sanders – anche nella rivendicazioni dei socialisti moderni il coraggio di riprendere in mano la bandiera dell’autorganizzazione sociale ed operaia, di proporre una alternativa che non sia un capitalismo più benevolo rispetto a quello malevolo di oggi, ma un andare per l’appunto “oltre il capitalismo” stesso, sfidandolo sul terreno della soddisfazione dei bisogni universali che, in tutta evidenza, non è mai riuscito e mai riuscirà a soddisfare. I teorici del pragmatismo economico, delle compatibilità sostenibili sono gli stessi che ci hanno condotto già al di là del punto di non ritorno per quanto riguarda la crisi climatica.

La contrapposizione tra lavoro e natura, tra economia sociale e sviluppo ecosistemico è il frutto di una deformazione complessiva che esige la quadratura dei conti sulla pelle dei popoli: due miliardi e mezzo di salariati nel mondo su otto miliardi di persone vivono praticamente alla giornata, senza poter risparmiare nulla dalle misere paghe che ottengono da importantissimi gruppi che delocalizzano sempre di più la produzione là dove il costo del lavoro è minore, là dove la deregolamentazione è maggiore, dove i diritti dei moderni proletari sono praticamente quasi a zero.

Quello che Sanders definisce il “disperato bisogno di un profondo cambio di direzione nella nostra economia“, ovviamente riferendosi agli Stati Uniti d’America, è stato testimoniato da un consenso sempre maggiore alle proposte della sinistra socialista del Partito Democratico. La vittoria di Biden aveva lasciato intravedere qualche speranza in questo senso, pur apparendo comunque meno efficacemente impulsiva rispetto all’intraprendenza obamiana (finita anch’essa in una amara delusione nei titoli di coda degli otto anni alla Casa Bianca del primo presidente di origine africana).

Cuore della rivendicazione del progressismo socialista sandersiano è la traduzione fattuale del concetto di libertà americana: che cosa significa essere realmente liberi, si domanda il senatore. L’elenco delle formulazioni tutt’altro che retoriche è lungo: essere liberi vuol forse dire non poter andare da un medico quando stai male perché finisci col rischiare la bancarotta se sei ricoverato in un ospedale?

Essere liberi è non potersi permettere i farmaci salvavita? Oppure è l’essere costretti ad indebitarsi con una finanziaria a tassi di interesse del duecento percento? Essere liberi è essere un veterano di guerra, indotto dal governo a difendere la libertà e la democrazia nel mondo, e ritrovarsi poi a dormire per strada senza sussidio e senza tutele alcune? Il biennio pandemico ha chiaramente reso esponenziali tutte queste criticità e ha aperto una caterva di nuovi problemi sociali a cui l’amministrazione Biden non ha dato una risposta compiuta e soddisfacente.

Il ruolo della classe lavoratrice in America è quello di un immenso blocco sociale costretto a subire progetti di automazione che impoveriscono le qualità professionali, quelle delle stesse produzioni, il valore delle merci che vengono immesse sul mercato e, a cascata, l’intera economia nazionale statunitense ne risente. Così pure quella mondiale. La fine dell’unipolarismo è stata causata anche da un impoverimento sociale nazionale che si è riverberato nella più complicata situazione globale.

I lavoratori americani vivono nel paradosso liberista di sapere di far parte di una delle più grandi economie mondiali , senza però poter condividere questa ricchezza. La forbice delle diseguaglianze è aumentata e Sanders fa il paragone tra questi primi decenni del nuovo millennio e gli anni Cinquanta del secolo scorso: allora i compensi degli amministratori delegati delle grandi aziende erano circa venti volte di più della retribuzione media di un lavoratore altrettanto medio. Negli anni Ottanta questa disparità è raddoppiata. Oggi i cosiddetti CEO prendono quattrocento volte di più delle lavoratrici e dei lavoratori sfruttati nelle loro aziende.

La differenza sociale tra le classi non riguarda soltanto più i quartieri più degradati e periferici delle immense metropoli della Repubblica stellata. Ora sono anche i quartieri più distinti e signorili a conoscere gli effetti della crisi economica mondiale e, nello specifico, nordamericana. Si calcola che nella sola Washington le aspettative di vita siano enormemente diminuite, di ben ventisette anni, nel giro di pochissimi decenni tra coloro che abitano in zone dove il degrado è massimo e chi invece può permettersi di stare lontano dai quartieri neri di Trinidad e Suitland.

Le ricette risolutive, per una netta inversione di tendenza a favore dei modernissimi proletari americani (e non solo), sono quelle che anche noi in Italia sbraitiamo da anni e anni, inascoltati o depressi nelle nostre rassegnazioni cicliche ad ogni passaggio elettorale in cui non riusciamo a concretizzare una rappresentanza parlamentare e ad uscire dal torpore antidemocratico, anticivile e antisociale in cui è piombato larga parte del popolo che un tempo votava e sosteneva le ragioni comuniste, socialiste e progressiste in generale.

La tassazione dei grandissimi e grandi capitali è necessaria. Così come è necessaria la riduzione drastica dell’orario di lavoro a trentadue ore a parità di salario: per permettere alle lavoratrici e ai lavoratori di riprendersi parte della loro giornata e della loro vita, per suddividere il lavoro tra molte più persone e abbattere i tassi elevati di disoccupazione e di precarietà sempre più diffusa e sistemica.

Le grandi imprese e le concentrazioni bancarie e affaristiche americane pagano meno tasse, in proporzione, rispetto alla povera gente, ai lavoratori più comuni. La politica fiscale dei democratici – stigmatizza Sanders – frena di continuo sull’uso di una politica fiscale che migliori le condizioni delle classi meno agiate e più deboli. Parimenti, dopo l’esperienza dell'”Obamacare“, l’avidità del sistema sanitario americano è tornata prepotentemente alla carica e si uniforma perfettamente all’übercapitalism di cui si faceva cenno poco sopra.

La lettura del libro di Sanders ci fa sentire davvero cittadini di un mondo in cui i problemi sociali e civili sono sostanzialmente gli stessi pur nelle grandi differenze che intercorrono tra i continenti, tra le storie che li hanno segnati nel corso dei millenni. Il punto di approdo è sempre quello: una minoranza di privilegiati intende mantenere questi privilegi e fare qualunque cosa per evitare di essere retrocessa al livello della gente comune che sfrutta senza alcuno scrupolo, senza alcuna morale.

La domanda che Sanders si fa, pur apparentemente ingenua, è se tutto questo è accettabile. Ovviamente no. E quindi la risposta è una sola: sfidare questo capitalismo per superarlo, per andare oltre il sistema delle merci, dei profitti e dei privilegi. L’estrema urgenza del problema ecologico ed ambientale urla a tutti l’emergenza cui andiamo incontro. Si salveranno – per qualche tempo – solo quelli che avranno risorse per poterlo fare. A cominciare dalle ricadute sulla salute che avrà il mutamento climatico globale.

Paradigmatica è l’affermazione per cui l’ingiustizia economica ci sta uccidendo. Letteralmente. Con le guerre che proliferano e che sono la risposta di una insufficienza politica, di una incapacità amministrativa nel creare un equilibrio mondiale tra le varie potenze: di vecchio stampo e di nuovo conio. Emergenti e riemergenti. Sanders chiama gli americani all’azione, evitando atteggiamenti rassegnati, perché il processo globale continua e va nella direzione del peggioramento se non facciamo nulla per contrastarlo.

Di qui lo “sfidare il capitalismo“. Il primo passo per poterlo, non di certo oggi, ma il prima possibile, superarlo per salvare il pianeta e tutti gli esseri viventi che, nonostante tutto, lo abitano ancora.

SFIDARE IL CAPITALISMO
BERNIE SANDERS
FAZI EDITORE
€ 20,00

MARCO SFERINI

29 maggio 2024

foto: particolare della copertina del libro


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