In Europa, dal dopoguerra sino ai primi anni ’70, in una fase in cui il capitalismo in espansione da un lato e la forza politica del movimento operaio dall’altro, avevano determinato una dinamica redistributiva delle ricchezze, la democrazia, forte delle esperienze delle resistenze antifasciste ed antinaziste, si era evoluta in una forma di governo che preconizzava al proprio interno la possibilità di un enorme allargamento dei diritti civili e sociali, financo una trasformazione socialista della società. I grandi soggetti collettivi, partiti e sindacati in primis, ma anche i movimenti del cattolicesimo democratico, soprattutto in Italia, divenivano in tal senso veicoli di un’alfabetizzazione politica (e non solo) di massa in grado creare un circolo virtuoso di partecipazione a partire dai rioni, dai quartieri, dai piccoli centri, e via via a salire; questa era la “rivoluzione promessa” di cui parlava Calamandrei a proposito della nostra Costituzione, la quale, dunque, oggi -sia detto per inciso- è sotto attacco non per ragioni fortuite ma in quanto le classi dominanti – dal loro punto di vista in maniere corretta- identificano in essa una concreta possibilità di avanzamento sociale delle classi popolari.
Di fronte ad una società di massa che potenzialmente covava al proprio interno la possibilità di una trasformazione radicale, la risposta, come è noto, fu il neoliberismo come vera e propria “lotta di classe al contrario” economica ed ideologica: fra gli anni ’70 e il 1989, di quelle rivoluzioni promesse restava bene poco e la società, accuratamente disillusa attraverso una propaganda mediatica martellante, era ormai pronta per la “fine della storia” intesa come bellum omnium contra omnes, la guerra infinita dei “mercati”in cui qualunque idea di solidarietà andava espunta radicalmente dagli orizzonti individuali e collettivi. Quando oggi, un po’ delusi, un po’ adirati, ci confrontiamo con la passività masochistica di massa di fronte ai guasti materiali e culturali del neoliberismo, dobbiamo forse risalire alla genesi di tale processo, al fine di comprenderne il cammino che ci ha portato sin qui e, possibilmente, al fine di invertire tale percorso esiziale, ben consapevoli del fatto che, di giorno in giorno, quasi di ora in ora, gli alfabeti della partecipazione si stanno smarrendo sotto il peso di un vero e proprio totalitarismo a bassa intensità fondato sulla passivizzazione delle masse.
Se la democrazia si misurasse sul tasso di informazione e partecipazione consapevole dei cittadini alla vita dello Stato, così come avveniva fra gli anni ’50 e gli anni ’70, ci accorgeremmo che oggi in Italia, dopo trent’anni di televisione commerciale e trasferimento di grandissime quote di reddito dal lavoro al capitale, con conseguente processo di deprivazione non solo economica, sui circa sessanta milioni di italiani, ben pochi potrebbero dire di partecipare alla vita democratica del Paese con la costante consapevolezza della fase in cui stanno vivendo. Quanti cittadini italiani sono a conoscenza di quei trattati economici internazionali, dal MES al Fiscal Compact al TTIp che influenzano ed influenzeranno per decenni la vita quotidiana e materiale di tutti? La domanda, così “inutile” da parere retorica, proprio in virtù dell’apparente retoricità del quesito, sta a mostrare come l’ignoranza dei fondamentali da parte dei cittadini sia assoluta e paragonabile ad una vera e propria forma di analfabetismo: sfatta l’Italia, hanno sfatto gli Italiani, per parafrasare in senso contrario l’ambizioso programma del D’Azeglio. Il segno regressivo di una crisi capitalistica, che ovunque si pone come crisi di civiltà e che in Italia si agglutina ai peculiari esiti trasformistici delle classi dominanti e dei partiti dell’ex opposizione nell’ultimo decennio, lo si coglie dunque non soltanto nel crollo verticale dei redditi e del tenore di vita, ma anche nel fatto che i tecnocrati cosmopoliti e i loro satrapi locali (non saprei in che altro modo definire i vari esponenti del Pd e delle destre) teorizzino apertamente l’idea di una passività di massa, di una spoliticizzazione del quotidiano e di un astensionismo diffuso come cifra di un futuro nel quale, sparita la società, gli ex cittadini si trasformino in atomi di egoismo che fondano la propria esistenza sulla distopia unificante della competitività; le classi dominanti stanno arando il campo del senso comune per introdurvi i semi ogm di una nuova società in cui l’unica prospettiva è costituita da un conformismo sempre eguale a se stesso e da una totale precarietà esistenziale, fomentando l’incultura come un valore ed occultando la dimensione emancipatrice dello studio e dell’analisi. E’ superfluo dire che tale visione, propagandata quotidianamente attraverso il rumore di fondo mediatico come unica colonna sonora nella vita di ciascuno, sia oggi lo strumento principe della battaglia ideologica che il capitalismo porta avanti per garantirsi un’egemonia di classe entro una fase in cui la sua dimensione dismessi completamente gli orizzonti di creazione di un benessere diffuso, si fa ormai biopolitica, con la conseguente “nuova accumulazione primitiva” che mira direttamente all’appropriazione dei beni comuni attraverso le nuove “enclosures” fatte di trattati internazionali posti a nuovo stato di necessità e fatti digerire come ordinari stati di emergenza.
Di fronte ad una situazione di tal fatta, inevitabile, come metastasi della tecnocrazia, il populismo reazionario delle piccole patrie identitarie create dal nulla di cui si nutrono fomenta le ondate xenofobe che i partiti di destra, governativi o di “opposizione”, utilizzano come valvola di sfogo di una società disarticolata, e dunque bisognosa di “identità statiche” come contraltare inconscio alla continua precarietà. Basta dare una scorsa veloce alla pagine internet di quotidiani e riviste e leggere i commenti farneticanti che centinaia di migliaia di persone ogni giorno, centinaia di migliaia di uomini e donne “normali”, scrivono alla luce del sole, inneggiando apertamente al razzismo, all’odio verso lo “straniero”, quando non direttamente alla violenza, condendo il tutto con la patologica serialità di locuzioni come “colpa dei buonisti”, “portateveli a casa vostra gli stranieri” ecc, espressioni ricorrenti come quegli incubi che coprono la paura del “Grande altro” e mandate a memoria da individui che pensano ed agiscono come i padroni vogliono che pensino ed agiscano.
In un deserto simile, la sinistra, con tutti gli errori sui quali ora non ha senso tornare, si è distaccata dalle masse per un motivo drammaticamente semplice: le masse parlano un’altra lingua e non comprendono neppure più i segni della lotta; letteralmente non vedono neppure più i pochi manifestanti che percorrono le strade e non comprendono il senso di un semplice volantinaggio o di un presidio: dietro ai tanti “non mi interessa” o “cosa vendete?” con cui si scontrano quotidianamente torme di volenterosi militanti che, contro tutto e tutti, si ostinano lodevolmente a stare nelle strade, si nascondono un analfabetismo assoluto ed un’incapacità relazionale su cui, forse, anche gli psicologi dovrebbero interrogarsi; la libertà e l’eguaglianza non vivono più nell’immaginario di un senso comune che, colonizzato dalla merce, al più sogna i prossimi saldi, la vacanza-deportazione in uno dei tanti resort in giro per il Pianeta o i grattacieli di Dubai.
Sta a noi, noi comunisti, socialisti, libertari, uomini e donne di sinistra, cercare di inventare nuovi alfabeti e tentare di ricostruire quella “connessione sentimentale” senza la quale anche le avanguardie più preparate e motivate si ridurranno al massimo in profeti disarmati ed incompresi. La sfida è epocale e, probabilmente, interesserà più di una generazione: perché, dunque, aspettare ancora?
ENNIO CIRNIGLIARO
redazionale