È utile il voto il 4 marzo?
Nel sistema politico istituzionale italiano verrebbe da dire di no.
Il motivo principale per dire di no è (e non è un paradosso) il sistema elettorale fondato proprio sul cosiddetto “voto utile”.
In questo sistema è effettivamente utile votare se si considera, si crede o si spera, che il voto serva a scegliere il governo fra opzioni apparentemente diverse ma sostanzialmente identiche su alcune questioni fondamentali: il primato del mercato su tutto, un’idea della società fondata sull’individualismo e sulla competizione, la politica estera e, infine, una concezione della politica ultrapersonalizzata, spettacolare e litigiosa.
Ogni problema sociale reale è evocato nella continua rissa consumata nei media, nei talk show televisivi come sui social network, in modo strumentale e demagogico senza mai proporre realisticamente programmi e alleanze sociali e politiche per rimuoverne le vere cause e per trasformare la realtà.
Ai cittadini, ridotti a consumatori passivi, non resta che essere tifosi di questo o quel leader. Che il leader scelto vinca o perda non cambierà una virgola la loro condizione sociale, di lavoro e di vita.
Persino i più informati, ma sarebbe più giusto dire i più disinformati, che non esprimono il voto per mero tifo bensì sulla base di calcoli e previsioni dedotte da sondaggi e da continue illazioni sulle reali intenzioni dei leader, sono indotti a scegliere il meno peggio, a votare per far perdere un leader piuttosto che farne vincere uno proprio che non hanno, o a “sperare” irrazionalmente che qualche promessa elettorale abbia un seguito.
Dall’Italia della Repubblica Parlamentare, con il sistema elettorale proporzionale, con il quale votava il 90 % degli elettori e con 7 o 8 partiti in parlamento, nella quale una rivendicazione sociale o civile poteva essere conquistata da partiti collocati all’opposizione a dispetto del partito egemone nel governo, siamo passati all’Italia del primato del governo sul parlamento, con decine di partiti e partitini dediti al trasformismo più osceno, con una partecipazione al voto costantemente in calo e che in regionali e amministrative ormai è di poco più della metà degli aventi diritto al voto.
La combinazione delle leggi elettorali degli ultimi 25 anni e la trasformazione del dibattito pubblico ed elettorale in uno spettacolo osceno, confuso, rissoso e soprattutto demagogico e superficiale, ha pressoché cancellato la possibilità di votare sulla base di interessi di classe e sociali rappresentanze dotate del potere effettivo di trasferire nelle istituzioni il conflitto in modo efficace ed anche vincente.
Tutto ciò è avvenuto sulla base di una sconfitta sociale, politica e culturale, delle classi subalterne che si è prodotta negli ultimi 35 anni e che ha ridisegnato istituzioni e poteri sulla base degli interessi dei vincitori.
Oggi è impossibile sperare di controvertere questa situazione con il voto in una tornata elettorale.
Quindi, per chi si proponga di conquistare obiettivi di lotta trasformatori della realtà, interrogarsi sulla reale utilità del voto è legittimo.
Ma, per quanto legittima, questa domanda necessita di una risposta articolata e complessa. Non di una ulteriore semplificazione.
Il non voto banalmente non risolve nessuno dei problemi. E non funziona nemmeno come protesta giacché il sistema attuale cerca esattamente la non partecipazione al voto proprio dei settori sociali e politicamente coscienti della vera natura dei problemi che affliggono il paese.
In molti paesi indebitamente considerati democratici, come gli Stati Uniti d’America, tutto questo è più che evidente.
Che fare, dunque?
Secondo il mio modestissimo parere bisogna, per prima cosa, avere coscienza della realtà e dismettere illusioni, suggestioni e speranze infondate.
Senza questa coscienza è inevitabile essere risucchiati dalla logica del sistema, deludendo le aspettative infondate e ignorando le pur possibili cose positive che si possono fare realisticamente.
In altre parole più esplicite, se si pensa che quel che conta è avere una lista che dice di essere di sinistra, come Liberi e Uguali, che possa aspirare a un risultato utile a battere la “deriva” di Renzi e a condizionare effettivamente un eventuale governo di centrosinistra la delusione che ne deriverà sarà totale. Ovviamente delusione per gli elettori sinceramente di sinistra e non per gli aspiranti a un seggio. Del resto il PD di Bersani e la SEL di Vendola alle scorse elezioni presentarono una “Carta degli intenti” che tradiva lo stesso referendum sulla pubblicità della gestione dell’acqua, che santificava ogni trattato europeo, che prevedeva un’alleanza con Monti e così via. Carta degli intenti scritta con linguaggio ermetico ed imbroglione proprio per ingannare consapevolmente gli elettori.
Da dieci anni il Partito della Rifondazione Comunista insiste, in gran parte inascoltato, sulla necessità di mettere al centro le lotte, le esperienze di mutualismo e di resistenza, le analisi crude sullo stato dei rapporti di forza reali in Italia e in Europa, per produrre l’unità sufficiente a portare contenuti antiliberisti dentro le istituzioni senza coltivare l’illusione di poterli realizzare in alleanza col centrosinistra. E con la consapevolezza che solo ed esclusivamente il conflitto sociale, l’unità dei movimenti di lotta e una battaglia culturale seria e approfondita possono rendere utile una rappresentanza parlamentare nel lavoro di costruzione di un fronte sociale e politico, che in tempi medio lunghi possa proporsi obiettivi più avanzati.
I tentativi fatti fino ad ora in questa direzione sono sostanzialmente falliti. Io credo, e ne sono convinto profondamente, soprattutto per la mancanza della consapevolezza della natura del sistema oggettivamente impermeabile al conflitto sociale e per la perniciosa illusione, di alcune forze come SEL ma anche di moltissimi militanti dei movimenti di lotta, che esista una scorciatoia elettorale in grado di controvertere i rapporti di forza sociali e l’egemonia del pensiero unico liberista.
Il fallimento del Brancaccio è solo l’ultimo episodio.
Ma si può dire sinceramente e senza tema di smentita che la lista “Potere al Popolo” non è la semplice risulta ristretta dei fallimenti precedenti.
Si è condensata sufficientemente in questa lista la consapevolezza necessaria ad affrontare la battaglia senza illusioni e senza vendere fumo ai potenziali elettori.
Raccoglie programmaticamente i contenuti dei movimenti di lotta sindacali, sociali, civili e culturali più avanzati. È un primo passo significativo per costruire una unità dei tanti conflitti e movimenti che attualmente sono dispersi, isolati e a volte condannati all’autoreferenzialità proprio dalla mancanza di una mera rappresentanza politica.
Funziona democraticamente e può trasformarsi in una forza politica stabile, plurale per composizione politica e sociale, che dia protagonismo ai tanti e tante militanti di sinistra dispersi e delusi come a quelli organizzati sulla base del principio una testa un voto, e con misure utili ad impedire la formazione di ceti politici separati.
Il superamento dello sbarramento è un obiettivo arduo e molto difficile. Ma la mobilitazione e la coesione dimostrata nella raccolta delle firme oltre alla chiarezza politica, senza stupidi estremismi parolai e iperboli politiciste, dell’immagine costruita in campagna elettorale (anche grazie all’ottimo lavoro svolto dalla portavoce Viola Carofalo) la rendono non impossibile.
In ogni caso, qualsiasi sia il risultato elettorale, sono state poste le basi per una possibile inversione di tendenza. Per una prospettiva di lungo periodo.
Il voto a Potere al Popolo è un voto antisistema nel senso pieno del termine.
È un voto di coerenza e fedeltà a contenuti e movimenti di lotta che esistono e possono aspirare ad essere egemoni.
È un voto che esprime un moto liberatorio che dice basta!
La sua è un’utilità limitata.
Ma è un’utilità vera.
RAMON MANTOVANI
foto tratta dalla pagina Facebook di Potere al Popolo!