L’attesa della Fine dei tempi e dell’Età nuova ha poco a che vedere col fatidico anno Mille. La visione che dobbiamo attribuire soprattutto alla storiografia romantica, secondo la quale l’ultimo giorno del primo millennio del Cristo la gente si sarebbe raccolta tremante attorno alle chiese e ai monasteri attendendo la tromba del Giudizio e all’alba del nuovo millennio, visto che nulla era accaduto, sarebbe tornata alle sue case con nuova energia e gioia di vivere è, ovviamente, del tutto falsa.
Se l’inizio del secondo millennio mostra i segni più evidenti di una ripresa dell’Europa, questa si era preparata almeno nei due secoli precedenti, anche grazie a un miglioramento climatico. In effetti, sappiamo che nel corso della seconda metà del X secolo i ghiacci polari cominciarono a sciogliersi; la linea di coltura della vite avanzò successivamente a nord ben più su di Londra: segno certo, questo, di un generale addolcimento del clima; si susseguirono molte annate caratterizzate da piogge regolari e tiepide primavere, ciò che favorì la realizzazione di buoni raccolti. Anche la peste endemica che aveva toccato, secondo molti travolto l’Europa e il Mediterraneo nel VI secolo, poi restando endemica, era sparita.
Questo ovviamente non è vero soltanto per l’Europa e il Mediterraneo, ma almeno per questi secoli siamo meno abituati a volgere lo sguardo verso il resto del mondo.
Tuttavia, che certi fenomeni sistemici siano globali lo evidenzia molto bene l’ultimo libro di Amedeo Feniello, Demoni, venti e draghi. Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi (Laterza, pp. 328, euro 20). Il suo racconto prende le mosse da un nuovo periodo di crisi. Com’è noto, dopo la crescita che culminò nel Duecento, la curva positiva trovò una repentina interruzione nel corso del Trecento. Se il ritorno della peste, probabilmente più possente rispetto a quella di alcuni secoli prima, fu l’evento centrale, non mancano i segni di un incrinarsi precedente del sistema-mondo.
In assenza di una rivoluzione nei metodi agricoli e nelle tecnologie, il massiccio aumento demografico dei secoli precedenti era stato reso possibile essenzialmente attraverso l’estensione delle superfici coltivate; ma verso la fine del Duecento molte superfici disponibili erano state ormai dissodata, sicché la produzione cessò di aumentare.
La precarietà di questo equilibrio si rivelò drammaticamente quando, nei primi due decenni del Trecento, il continente europeo dovette affrontare una fase di raffreddamento e di generale peggioramento climatico. La popolazione denutrita già in condizioni normali era destinata a soccombere. Carestie vi furono, con una cronologia un po’ diversa, anche dall’Egitto all’estremo oriente. Su questa situazione già precaria si abbatté una nuova ondata di peste che fra 1347 e 1351 devastò l’Europa e il Nord Africa (dopo aver attraversato l’Asia, da dove si era originata).
Dopo il 1351, la peste restò endemica: in Europa se ne segnala il ritorno, spesso potente, fino alla metà del Seicento. In Europa, nel periodo fra l’inizio della pandemia e il Quattrocento, la popolazione scese di almeno un terzo, in alcune zone anche di più. Certamente fu una crisi gravissima per tutti e tre i continenti coinvolti, e quasi ovunque si registrarono reazioni e anche cambiamenti importanti. Feniello mette in relazione il mondo cristiano europeo, quello islamico (nelle sue diverse compagini etniche fra Africa e Asia) e quello cinese, che proprio alla metà del Trecento vide oscillare e poi abbattersi la dinastia mongola degli Yuan che l’aveva dominato approssimativamente per un secolo e mezzo.
Concepito durante la corrente pandemia, Demoni, venti e draghi mostra la capacità di reazione che i diversi sistemi riuscirono a mettere in atto per fronteggiare e superare la crisi. Lo fa con una prospettiva veramente di storia globale, poiché le società prese in considerazione non sono esaminate singolarmente, ma si evidenzia bene come già all’epoca esistesse un sistema-mondo, e implicitamente si sottolinea come studiarlo in tale prospettiva possa aiutare a svecchiare la concezione eurocentrica della quale, bene o male, siamo tutti ancora portatori. Fra i diversi modi culturali di affrontare crisi profonde, la tentazione apocalittica sembra sempre dietro la porta.
La caduta degli Yuan e l’affermazione di una dinastia cinese, quella dei Ming, fu in effetti accompagnata da moti improntati certamente alle richieste politico-sociali, ma anche da attese apocalittiche circa la fine dei tempi, non diversamente dalle jacqueries e dai tumulti in Europa, dove anche una parte del mondo religioso aderiva a tali tendenze, sia pur con azioni ben diverse. Siamo infatti agli albori della stagione della grande predicazione popolare, nella quale le correnti apocalittiche sono spesso molto forti.
Dall’Osservanza francescana al Savonarola, tali elementi passano in secondo piano rispetto alla volontà di riformare profondamente la società. Ma nelle correnti del francescanesimo spirituale, o anche in una figura istituzionale quale fu quella del catalano domenicano Vincenzo Ferrer, i temi millenaristici furono invece costanti.
Al Savonarola è stato spesso erroneamente accostato un interessante predicatore francescano vissuto a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, Francesco da Montepulciano, sul quale getta nuova luce il lavoro di Michele Lodone, I segni della fine. Storia di un predicatore nell’Italia del Rinascimento (Viella, pp. 284, euro 29). Figura dell’inquietudine di quei tempi, Francesco vive nell’Ordine seguendone i contrasti interni, all’epoca frequenti, ma anche studiando e insegnando, fino a quando non si ritira come eremita per sei anni fra il Gargano e la Majella.
Ne emerge nel 1513 per predicare su tempi apocalittici fra l’Umbria e la Toscana, culminando con un terribile sermone sui segni della fine, ispirato a Matteo 24, il 18 dicembre a Firenze, che gli attirò la perplessa attenzione delle autorità. Si spense subito dopo, l’ultimo giorno di quell’anno. Allo psicologo del profondo, l’ansia apocalittica potrebbe sembrare un riflesso di quella personale; uno storico come Lodone non può che farne un paradigma di un sentimento della crisi della Cristianità che di lì a poco sarebbe stata dilaniata dalla Riforma.
MARINA MONTESANO
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