PRIMA PARTE
Negli anni Venti del Novecento in Russia venne messo in pratica un decreto datato 27 agosto 1919 che riguardava la nazionalizzava dell’industria cinematografica. Il provvedimento fu attuato prima a Mosca, dal 15 gennaio, poi nel resto dello sterminato Paese. Fu la fine del cinema privato che aveva continuato a produrre pellicole anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre e l’inizio di una delle più grandi stazioni cinematografiche della storia. I protagonisti del cinema prerivoluzionario fecero scelte diverse. Aleksandrovic Protazanov (Mosca, 4 febbraio 1881 – Mosca, 9 agosto 1945), che aveva diretto una novantina di film tra il 1911 e il 1919, lasciò la Russia per recarsi prima a Parigi poi a Berlino. Tornò in quella che era diventata l’Unione Sovietica solo nel 1924 per realizzare il suo film più celebre: il fantascientifico Aelita (che lanciò la carriera di Julija Ippolitovna Solnceva la futura moglie di Aleksandr Petrovic Dovženko). Vladimir Rostislavovič Gardin (Mosca, 18 gennaio 1877 – Leningrado, 28 maggio 1965) si mise, invece, non sempre convintamente, al servizio del nuovo corso politico e artistico, sia dirigendo la prima scuola di cinema della Capitale, sia realizzando pellicole: Golod… Golod… Golod (Fame… Fame… Fame, 1921), purtroppo perduto; Serp i molot (Falce e Martello, 1921) sui simboli del comunismo; Prizrak brodit po Evropu (Uno spettro si aggira per l’Europa, 1922) che, anziché rifarsi alle parole del Manifesto del Partito Comunista, fu una brutta trasposizione della “The Masque of the Red Death” (“La maschera della morte rossa”) di Edgar Allan Poe e Slesar’ i Kancler (Il meccanico e il cancelliere, 1923) da una commedia di Anatolij Vasil’evič Lunačarskij. Aleksandr Alekseevič Chanžonkov (Makeevka, 8 agosto 1877 – Jalta, 26 settembre 1945), il più importate produttore e distributore dell’epoca prerivoluzionaria, emigrò all’estero nel 1920 per poi ritornare in patria e divenire consulente della Goskino e della Proletkino, due nuove strutture cinematografiche sovietiche (nel 1926 venne accusato di irregolarità finanziarie e arrestato).
Nel 1922 Lenin affermò: “Per noi il cinema è la più importante di tutte le arti” e esortò la formazione di quadri professionali nuovi, non legati al periodo zarista, e la realizzazione di quelli che vennero chiamati “agitka” (film d’agitazione) capaci di portare il “verbo sovietico” anche nelle terre più desolate. Sopravvissero solo poche pellicole di quel primo periodo, generalmente erano brevi film di battaglie eroiche. Tra gli autori anche il primo cineasta di formazione sovietica Lev Vladimirovič Kulešov (Tambov, 13 gennaio 1899 – Mosca, 29 marzo 1970) che realizzò, con una troupe ridotta, Na krasnom fronte (Sul fronte rosso, 1921) e il poeta Vladímir Vladímirovič Majakóvskij (Bagdati, 7 luglio 1893 – Mosca, 14 aprile 1930). Proprio quest’ultimo, nel 1923, fondò la rivista “LEF” (“Fronte della sinistra nelle arti”) con la quale, come spiegò in una lettera inviata al Comitato Centrale del Partito Comunista, intendeva: individuare una linea comunista per tutte le arti, definire il concetto di “arte di sinistra”, riunire le componenti rivoluzionari nel campo delle arti. Al manifesto aderirono personalità assai differenti, tra queste due registi: il già affermato Dziga Vertov (pseudonimo di David Abelevič Kaufman, fratello di Boris Kaufman magnifico direttore della fotografia in tutti i film di Jean Vigo) autore della Kinopravda e un giovane assai talentuoso, Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.
Figlio unico di Michail Osipovič Ėjzenštejn (San Pietroburgo, 5 settembre 1867 – Berlino, 2 luglio 1920) un architetto e ingegnere civile di origine ebreo-tedesca convertito al cristianesimo, cui si devono alcuni dei più eleganti edifici Art Noveau di Riga, e di Julia Ivanovna Koneckaja, una donna di religione ortodossa proveniente da famiglia di ricchi mercanti russi, Sergej nacque nell’attuale capitale della Lettonia, allora cittadina dell’Impero russo, il 22 gennaio del 1898. Un’agiata famiglia borghese.
Durante l’infanzia i genitori cambiarono spesso città fino a quando, a seguito della rivoluzione del 1905, la madre portò il piccolo Ėjzenštejn a Pietrogrado (l’attuale San Pietroburgo). Nella città russa la bambinaia gli fece conoscere la magia del circo; Sergej rimase molto colpito dalle esibizioni dei clown e da allora divenne un assiduo spettatore degli spettacoli circensi. Intorno al 1910 madre e figlio furono raggiunti dal padre a Pietrogrado, ma il matrimonio era in crisi e Julia abbandonò Michail per trasferirsi in Francia. Senza la figura materna, i rapporti di Sergej col padre furono difficili e complessi, anche perché il piccolo stava maturando un’avversione verso il potere, consolidata dalla precoce lettura de “La storia della rivoluzione francese” di François-Auguste Mignet.
Il futuro regista venne quindi mandato a Riga da una zia materna, dove si iscrisse al liceo scientifico tedesco della città. Sergej fu assai precoce nell’apprendimento delle lingue: il russo, il tedesco, il francese, l’inglese. Si appassionò di arte e di teatro. Terminato il liceo, Ėjzenštejn nel 1914 tornò a Pietrogrado, dove era rientrata anche mamma Julia, e si iscrisse alla Facoltà ingegneria civile e architettura, scoprendosi, tuttavia, più propenso per le materie umaniste e l’arte. In particolare studiò il Rinascimento italiano, sia la commedia dell’arte, sia le arti figurative, avvicinandosi alle figure di Carlo Gozzi, nel 1914 partecipò alla messa in scena dello spettacolo “Turandot” (che qualche secolo dopo ispirò l’opera di Puccini), e di Leonardo da Vinci, il suo ideale di scienziato e artista.
Allo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 Ėjzenštejn, non ancora ventenne, abbandonò gli studi per arruolarsi nell’Armata Rossa, in aperto contrasto con la militanza del padre tra le fila zariste. Per due anni combatté contro le formazioni controrivoluzionarie dei “bianchi”, difendendo tra l’altro con successo uno degli accessi di Pietrogrado dalle orde di Lavr Georgievič Kornilov che guidava la sua ascesa “Nel nome di Dio e della Patria” (… corsi e ricorsi storici). Quindi il futuro regista venne trasferito a Vologda, poi a Daugavpils ed infine, nel 1920, a Minsk dove si distinse per la campagna propagandistica in favore delle forze bolsceviche. Ėjzenštejn ebbe, inoltre, l’occasione di avvicinarsi ad una sua grande passione, il teatro. Fu, infatti, assegnato ad una delle compagnie organizzate per intrattenere i soldati. Si occupava della scenografia, di manifesti, costumi, nonché di alcuni emblemi ed insegne che venivano messi sui carri armati.
In questo periodo coltivò, grazie ad un professore di Minsk, una grande passione per l’Oriente e per il Giappone in particolare. Una curiosità, per quelle terre lontane, nata dopo la morte del fratello minore di suo padre, Dmitry Osipovich Ėjzenštejn, lo “zio Mita”, ucciso in Corea nel 1904 durante il conflitto russo-giapponese. Sergej imparò i rudimenti della lingua del “sol levante” e si appassionò al teatro Kabuki.
Al termine della guerra civile con la vittoria dei bolscevichi, il padre si trasferì in Germania, dove morì poco dopo. Questo schieramento su fronti opposti, non isolato in molte rivoluzioni, lasciò segni profondi nella vita di Sergej e nella sua produzione artistica.
Come altri giovani che avevano partecipato alla guerra, Ėjzenštejn venne premiato dal Governo con una borsa di studio in una facoltà a sua scelta. Sergej decise di studiare giapponese e alla fine del 1920 si trasferì a Mosca. Per mantenersi iniziò a lavorare, forte delle esperienze teatrali, per il Proletkul’t, uno dei gruppi di artisti più radicali di Mosca. Nato nel 1917, indipendente ma finanziato dal Partito, il Proletkul’t si proponeva di sviluppare l’attività artistica delle masse operaie, secondo le teorie del critico marxista Aleksandr Bogdanov, tra i fondatori del bolscevismo, nonché il primo a tradurre in russo “Il Capitale” di Marx. In pratica questo collettivo provava a fornire le basi di una vera arte proletaria in contrapposizione alla cultura borghese. Ėjzenštejn fondò con Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d (Penza, 9 febbraio 1874 – Mosca, 2 febbraio 1940), suo padre e maestro artistico, la sezione teatrale del Proletkul’t. Contemporaneamente Sergej entrò in contatto con Lev Kulešov e con i registi della Fabrika Ekscentričeskogo Aktëra (FEKS, Fabbrica dell’attore eccentrico).
Nel 1920 debuttò alla regia con “Meksikanec” (“Il messicano”), riduzione di un racconto di Jack London, realizzato insieme Valerij Smysliaev e interpretato, tra gli altri, da Maksim Strauch. L’anno successivo Ėjzenštejn curò, invece, le scenografie di due rappresentazioni dirette da V. Tichnivic: “Car’ golod” (“Il re ha fame commedia”) da una commedia di Leonid Andreev e il celeberrimo “Macbeth” di William Sheakspeare. Tra il 1921 e il 1922 seguirono, racchiusi sotto il titolo “Tre vaudevilles”, tre spettacoli diretti dall’ucraino Nikolaï Foregger: “Trattate bene i cavalli” di V. Mass, “La ladra di bambini” di Adolphe d’Ennery, “La fenomenale tragedia di Fedra” parodia dello stesso Foregger dell’opera “Fedra” messa in scena da Aleksandr Jakovlevič Tairov. Opere che vedevano Ėjzenštejn nella veste di scenografo, lavoro che svolse anche per “Casa Cuoreinfranto” commedia di G.B. Shaw per la regia di Vsevolod Mejrchol’d, rappresentazione preparata e allestita per nove mesi, ma mai andata in scena; e per “Nad obryvom” (“Sul precipizio”) commedia di Valerij Pletnev regia M. Altman.
Nel 1923 Ėjzenštejn curò la messa in scena di “Na vsjakogo mudreca dovol’no prostoty” (“Anche il più saggio sbaglia”), adattamento di una versione del drammaturgo Aleksandr Ostrovskij. Per il regista, alla sua prima produzione indipendente, il teatro doveva trovare nuove forme comunicative e per questo l’allestimento prevedeva, tra le altre novità (incluso un attore che camminava su una fune tesa sopra la testa degli spettatori), la proiezione di un breve filmato realizzato dallo stesso regista intitolato Dnevnik Glumova (Il diario di Glumov o Il furto del diario di Glumov). Nel cortometraggio (120 metri, circa 5 minuti), proiettato per la prima volta il 23 maggio del 1923, Glumov (Ivan Ezikanov) cerca di scappare tra acrobazie, clown e giochi di guerra. Surreale, sperimentale, quasi futurista. Nel film, come ricordò anni dopo lo stesso Ėjzenštejn: “Già possiamo scorgere i primi accenni di un vero e proprio montaggio […] C’era già un sentore di montaggio del nuovo cinema di sinistra”.
Il diario di Glumov, inserito col titolo Vesennie ulybki Proletkul’ta (Sorrisi di una primavera al Proletkul), nel cinegiornale 16 di Dziga Vertov, Vesennjaja kinopravda (Kinopravda di primavera), fu importante perché rappresentò una svolta teorica e artistica per Ėjzenštejn. Nel 1923 il regista aveva aderito al LEF di Majakóvskij e sul terzo numero della rivista (lo stesso in cui comparve la teoria del “Cineocchio” di Vertov), proprio partendo dalla prima esperienza cinematografica, scrisse un articolo titolato “Montaž attrakcionov” (“Il montaggio delle attrazioni”) in cui teorizzò l’indipendenza dei singoli elementi dello spettacolo che, proprio grazie alla propria eterogeneità, dovevano essere capaci di coinvolgere ed emozionare lo spettatore. Si aprì un grande dibattito tra il documentarismo di Vertov, il realismo di Pudovkin e le sperimentazioni di Ėjzenštejn.
Nell’estate del 1923, ancora per il Proletkul’t, Sergej diresse “Slyšiš, Moskva?” (“Mosca ascolti?”) da una commedia di Sergei Tret’jakov. Ma la mente di Ėjzenštejn era continuamente proiettata verso nuove sperimentazioni. Così, tra il 1923 e il 1924, nel tentativo di superare la frattura tra l’artificiosità del palcoscenico e la realtà quotidiana, realizzò “Protivogazovye maski” (“Maschere antogas”), ancora da un soggetto di Tret’jakov. Lo spettacolo venne allestito in un’autentica fabbrica di maschere antigas di Mosca, in cui recitarono attori del teatro proletario e operai. Il tentativo, tuttavia, fallì e Sergej Michajlovič Ėjzenštejn maturò l’idea che il teatro non era più il luogo in cui esprimere le sue esigenze artistiche. Solo il cinema poteva farlo. Nello stesso anno il Proletkul’t, spesso in opposizione al PCUS su questioni culturali, cessò ogni attività proprio a seguito dell’intervento di Lenin che ne condannò il tentativo di esercitare un monopolio della cultura proletaria.
Ėjzenštejn dichiarò così di essere “caduto ne cinema” e, dopo aver curato, insieme a Ėsfir’ Šub, il montaggio della versione russa del Doctor Mabuse di Fritz Lang, passò alla sua prima regia completamente cinematografica.
Il soggetto del film nacque da un’idea del Proletkul’t, ovvero quella di realizzare un ciclo epico sulla Rivoluzione intitolato “Verso la dittatura”, ovviamente del proletariato. Il progetto prevedeva otto film incentrati su: importazione dall’estero di letteratura di contrabbando; stampa clandestina; lavoro fra le masse; Primo maggio, dimostrazione; sciopero; perquisizioni e arresti; prigione e deportazione; evasioni. L’ambizioso progetto non andò in porto e venne sviluppato “solo” il quinto episodio, nacque così Stačka (Sciopero!) teso ad illustrare la genesi del movimento dei lavoratori, che ebbe origine, nella Russia zarista, dall’estrema povertà dei proletari e dalla costante violazione dei diritti umani.
La sceneggiatura fu scritta dal regista insieme ad altri compagni del Proletkul’t: Valerian Pletnëv, Il’ja Kravšunovskij e Grigorij Vasil’evič Aleksandrov (Ekaterinburg, 23 gennaio 1903 – Mosca, 16 dicembre 1983) che, dopo aver recitato ne Il diario di Glumov, divenne abituale collaboratore, nonché amico del regista. La fotografia del film fu, invece, affidata a Ėduard Kazimirovič Tissė (1 aprile 1897 – Mosca, 18 novembre 1961). Dopo aver realizzato alcuni cinegiornali durante la guerra civile, Tissė si dedicò al cinema nel 1918 divenendo, dopo Sciopero!, collaboratore di tutti gli altri film di Ėjzenštejn. Il cast fu composto da attori non professionisti del Proletkul’t e da operai. Il primo febbraio del 1925 a Pietrogrado, divenuta Leningrado, e dal 28 aprile nel resto dell’Unione Sovietica uscì Stačka.
Nella Russia del 1912 gli operai di una fabbrica, senza luogo e senza tempo, sono in stato di agitazione. Ma, come recita una didascalia “In fabbrica tutto è tranquillo…”. I padroni, infatti, ben consci che i ritmi e le condizioni di lavoro sono intollerabili, si sono rivolti alla polizia per tenere sotto controllo gli agitatori. L’agitazione si trasforma comunque in sciopero quando un lavoratore, ingiustamente accusato di furto, si impicca. Gli operai non si limitano alla protesta per la morte del loro compagno e chiedono la riduzione dell’orario di lavoro e un aumento salariale. I padroni ignorano le rivendicazioni, assoldano dei delinquenti del sottoproletariato, tra cui accattoni e provocatori e tentano di corrompere i lavoratori più deboli. Le famiglie sono alla fame, ma lo sciopero va avanti fino a quando la polizia a cavallo reprime nel sangue la manifestazione di protesta, massacrando scioperanti e famiglie, inclusi i bambini.
Nel lungometraggio, prodotto dalla Goskino di Mosca, Ėjzenštejn mise in pratica le sue teorie rifiutando una narrazione convenzionale e sviluppando, con grande efficacia, il “montaggio delle attrazioni”. Notevoli le innovazioni che fecero scuola, dando il via al cinema di avanguardia e stabilendo i tratti distintivi del cinema sovietico fino agli anni Trenta. Da ricordare: la presentazione delle spie che vengono scelte dai poliziotti attraverso le foto inserite in grossi album, in uso nelle famiglie borghesi, che si animano e salutano gendarmi e spettatori; le immagini di vita quotidiana delle famiglie proletarie; il foglio con le rivendicazioni degli operai usato da un padrone per pulirsi la scarpa; le straordinarie scene di massa; l’impatto conflittuale tra i primi piani e i campi lunghi; le analogie portate all’estremo come la similitudine, più citata e nota, che alterna le immagini della mattanza degli operai e lo squartamento di un bue.
Il tema centrale del film, tuttavia, non fu la storia di uno sciopero, ma la nascita di un collettivo che di li a pochi anni (rispetto al 1912 raccontato nel film) sconvolse il mondo. Un collettivismo posto in contrapposizione all’individualismo, all’eroe del cinema europeo e hollywoodiano. In Sciopero! sia i personaggi principali sia quelli secondari hanno la stessa importanza e sono caratterizzati rispetto alla classe sociale di appartenenza e per questo, seppur un po’ stereotipati, sono facilmente riconoscibili dallo spettatore che individua quindi la “classe” e non l’attore. Da citare, comunque, gli interpreti e i ruoli: Ivan Kljukvin (attivista), Aleksandr Antonov (operaio, membro del comitato di sciopero), Michail Gomorov (operaio con la fisarmonica), Konstantin Kočin (operaio con il samovar), Miča Mamin (suo figlio), Daniil Antonovič-Bud’ko (operaio suicida), Sergej Tumanov (operaio), Aleksandr Lëvšin (membro del comitato di sciopero, traditore), Vera Janukova, Ol’ga Ivanova, Borisova, Kuznecova (mogli degli operai), Pavel Grajver (maggior azionista), V. Poltorackij (azionista minoritario), P. Beljaev (terzo azionista), Vasilij Čaruev (direttore della fabbrica), Grigorij Aleksandrov, L. Alekseev (artigiani), I. Ivanov (capo della polizia segreta), Maksim Štrauch (“Bulldog”), Arkadij Kurbatov (“Lisa”), P. Malik (“Martyčka”), Janyčevskij (“Sova”), Boris Jurcev (“re della teppaglia”), Judif’ Glizer (“regina della teppaglia”). Cui si aggiunsero gli operai della fabbrica di Kolomenskij e dei cittadini moscoviti.
Ėjzenštejn costruì, per esplicitare meglio il suo pensiero politico, tre livelli: in superficie i proletari, sopra i capitalisti, sotto i delinquenti e i “lumpenproletariat” (sottoproletari), che come scriveva Marx non hanno coscienza di classe. Il messaggio del regista era e rimane chiaro: sopprimere questa verticalità vuol dire sopprimere il sistema capitalista. Non solo: Ėjzenštejn sottolineò che non bisogna occuparsi ne del Paradiso (il livello dei padroni) ne dell’Inferno (il livello dei sottoproletari), ma solo della Terra, il livello dei proletari, l’unico in cui si può realizzare il comunismo (un film che dovrebbe essere visto dalla sinistra italiana divisa tra capitalisti e sottoproletari… mentre i proletari guardano a destra).
Sciopero! fu il primo film rivoluzionario della storia, nonché una straordinaria “opera prima”, paragonabile per importanza a quella di Orson Welles (Quarto potere) e di Luchino Visconti (Ossessione).
Ejzenštejn, mai pago, sviluppò le sue teorie su cinema e montaggio in due importanti saggi editi nel 1925: “K voprosu o materialističeskom podchode k forme” (“L’atteggiamento materialista nei confronti della forma”, pubblicato in “Teoria del cinema rivoluzionario”, a cura di P. Bertetto, 1975) e “Montaž kino-attrakcionov” (“Il montaggio delle attrazioni cinematografiche”, in “Il montaggio”).
Il 1925 fu un anno importante per l’URSS, ricorreva, infatti, il ventennale della prima rivoluzione russa, quella del 1905, considerata anticipatrice della Rivoluzione d’Ottobre. Per celebrarla anche sul grande schermo, il “Comitato per le celebrazioni” istituito dal PCUS (… la burocrazia sovietica) approvò due soggetti: “9 Yanvarya” (“9 Gennaio”), incentrato sulla cosiddetta “Domenica di sangue” in cui l’esercito zarista sparò su una manifestazione pacifica e “1905” che avrebbe ripercorso gli eventi di quell’anno. Fu scelto quest’ultimo e a svilupparlo venne chiamata la scrittrice armena Nina “Nune” Ferdinandovna Agadžanova-Šutko (Ekaterinodar, 8 novembre 1889 – Mosca, 14 dicembre 1974). Rivoluzionaria dal 1907 la donna, arrestata e condannata più volte, aveva ricoperto ruoli di direzione politica, prima di dedicarsi alla scrittura. La rivoluzionaria elaborò un corposo scritto “Pjatyi god 1905” (“L’anno 1905”), approvato dal Comitato esecutivo centrale dell’Unione Sovietica, che ripercorreva la storia di quella rivoluzione mancata, dalla guerra russo-giapponese all’insurrezione armata di Mosca.
Per la regia del progetto 1905 venne scelto, dopo il successo di Sciopero! (pare anche su consiglio della stessa Ferdinandovna), Ėjzenštejn. Il regista e “Nume” si misero al lavoro. Tra materiale di archivio, documenti ufficiali, ricordi dei protagonisti, lo scritto della Ferdinandovna era talmente imponente da prevedere più film. Tutti da realizzarsi, secondo le volontà del PCUS, entro il dicembre del 1925.
Le prime riprese vennero effettuate in aprile a Leningrado, ma le cattive condizioni atmosferiche costrinsero la troupe, formata dai fedelissimi di Ėjzenštejn, a spostarsi a sud, per la precisione ad Odessa, dove erano previste solo due sequenze da girare nel porto, con la prospettiva di rientrare nell’ex Pietrogrado non appena il tempo lo avrebbe consentito. Non ci tornarono più.
Ėjzenštejn e i suoi alloggiavano ad Odessa nell’Hotel London, un edificio della città che affacciava sul porto. Lì il regista vide un particolare architettonico che cambiò il corso degli eventi: una scalinata. Ejzenštejn e Ferdinandovna capirono, infatti, che sarebbero riusciti a realizzare una sola pellicola e quella scalinata portò a scegliere un unico episodio del 1905. I due incomprensibilmente, come affermò lo stesso regista, decisero di concentrarsi su una piccola parte di quella corposa documentazione. Poche righe dello scritto di “Nune” che coglievano però il carattere e lo spirito del tempo. Lo attualizzavano, rendendolo immortale. Il Partito, tramite la Goskino, acconsentì.
L’episodio, già portato sul grande schermo da La Révolution en Russie (1905), un corto di tre minuti diretto dal francese Lucien Nonguet per la Pathé, riguardava l’ammutinamento, avvenuto il 27 giugno del 1905, dell’equipaggio di una nave da battaglia nei pressi dell’isola Tendra. Più che una nave, una corazzata dedicata ad un principe russo che rispondeva al nome di Grigorij Aleksandrovič Potëmkin. Nacque così, anche un po’ per caso, uno dei film più belli di sempre, la cui importanza travalica la storia del cinema: Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin).
Il film venne girato in tre mesi, con una tecnica sorprendente, nei luoghi reali della storia e, poiché il Potëmkin era stato smantellato, gli interni furono realizzati sia nella sua nave gemella, la “Dodici apostoli”, sia nell’incrociatore “Komintener”. La scenografia fu curata da Vasili Rachals, la fotografia ad opera di Tissė. Particolare attenzione fu messa nella realizzazione delle didascalie redatte dai poeti futuristi Sergej Tret’jakov e Nickolaj Aseev, la cui grafica era ispirata dalle ricerche costruittiviste, ma fu lo stesso Ėjzenštejn a sceglierle una ad una, facendole diventare degli autentici slogan capaci di scandire il ritmo del film. Ritmo garantito anche dal montaggio, nervo strutturale del film, che lo stesso regista realizzò in soli 12 giorni. Il lavori sul montaggio portò quasi ad una causa di paternità contro Ėjzenštejn. Il regista, infatti, aveva ringraziato la sua collaboratrice per “le notti passate insieme”, con un biglietto che generò qualche equivoco. Il 21 dicembre del 1925, al Teatro Bol’šoj di Mosca di tenne l’anteprima del film che venne distribuito in altre città dell’URSS a partire dall’ultimo giorno dell’anno.
Diviso in cinque atti, il film racconta un avvenimento storico realmente accaduto all’epoca della prima rivoluzione russa. 1. Uomini e vermi. Sulla corazzata Potëmkin ancorata al largo di Odessa, regna il dispotico arbitrio degli ufficiali. I marinai, guidati dall’energico Grigorij Vakulinčuk (Aleksandr Antonov), rifiutano il rancio preparato con della carne putrefatta e piena di vermi. La rabbia cresce quando il medico di bordo Smirnov (Zavitok) afferma che il cibo è in buone condizioni. 2. Il dramma sul ponte (o Il dramma nella baia di Tendra). Il comandante Gólikov (Vladimir Barskij) per ristabilire l’ordine decide di fucilare i marinari che si sono lamentati del cibo e li fa coprire da un telo prima della fucilazione. La fine sembra certa, un prete ortodosso benedice l’esecuzione, ma Vakulenčúk ricorda al plotone che i condannati sono loro “fratelli”, scatenando così la rivolta dei marinai che buttano a mare gli ufficiali. Un militare riesce, tuttavia, a ferire mortalmente proprio Vakulenčúk. 3. Il morto chiama (o Il morto invoca vendetta). Gli abitanti di Odessa si radunano in porto intorno alla salma del valoroso marinaio (scena resa alcun più epica da un’inaspettata nebbia), mentre cresce la rabbia e la solidarietà verso i ragazzi del Potëmkin. 4. La scalinata di Odessa. Gli abitanti della città si radunano sulla scalinata del porto per solidarizzare con i marinai ammutinati, ma i cosacchi dello zar avanzano dall’alto sparando sulla folla inerme colpendo vecchi, mamme, bambini e perfino una carrozzina. Per fermarli la corazzata Potëmkin cannoneggia il teatro di Odessa, quartier generale dei militari. 5. L’incontro con la flotta. Per reprimere l’insurrezione viene inviata in porto la flotta zarista, ma i marinai delle unità navali e quelli della Potëmkin si rifiutano di sparare gli uni contro gli altri e all’urlo “Fratelli! Fratelli”, la corazzata Potëmkin riprende il suo viaggio per il mare aperto.
“Costruito come una tragedia in cinque atti, capace di fondere la storia personale degli individui in quella generale della Storia, dove l’esplosione rivoluzionaria viene vista come un momento necessario per lo sviluppo della società” (Mereghetti), Bronenosec Potëmkin è forse il film più famoso della storia del cinema, atto fondativo del “nuovo cinema russo”, grazie anche al ruolo centrale del montaggio che “scandisce le azioni, privilegia dettagli incisivi, riduce i protagonisti ai loro segni distintivi (stivali dei cosacchi, monocolo del medico di bordo, pugno che si chiude) e le istituzioni ai loro emblemi (stemmi gentilizi, statue)” (F. Albera).
Una straordinaria rielaborazione storica nonostante le connessioni reali con i fatti del 1905 siano molto deboli. La celebre scena della scalinata fu inventata, li sopra non ci fu alcuna strage, venne suggerita dal movimento di macchina (ben quattro furono le cineprese utilizzate) che l’elemento architettonico portava con se. Ma oggi chi potrebbe mai affermare che non ci sia stato un massacro sulla scalinata di Odessa? Talmente forte e reale che un turista francese, André Beucler, capitato per caso sul posto, pensò fosse scoppiata una nuova guerra! Diverso fu anche il finale. La ribellione della corazzata, che nella realtà era un incrociatore, non passò indenne tra le navi della flotta zarista. Ci furono, infatti, numerose vittime. Ma Ėjzenštejn doveva fare un film, non era uno storico, doveva trasmettere emozioni, sensazioni e violenze che egli stesso aveva vissuto all’età di sette anni. Riuscì così a far diventare La corazzata Potëmkin un forte e tuttora attuale messaggio di rivoluzionario, ben simboleggiato dalla bandiera rossa, colorata a mano fotogramma per fotogramma, che nel film si vede quattro volte, le prime due quando la popolazione festeggia con i marinai la loro vittoria e le altre due verso la fine, quando lo scontro con la flotta imperiale sembra imminente.
Ma nel film Ėjzenštejn inserì anche un altro messaggio, non semplice nell’URSS, quello dell’omosessualità: ad inizio pellicola il sonno agitato dei marinai è molto sensuale, i petti nudi nelle amache vengono mostrati in una serie di fotogrammi distintamente omoerotici; dopo l’episodio della scalinata il clima nella corazzata è diverso e i marinai dormono assieme, abbracciati. Uno mette affettuosamente una mano sulla spalla di un altro. Due si baciano sulle labbra. Un tema che ritornò nella vita e nella filmografia del regista.
Temi forti, ma nonostante qualche problema col montaggio risolto in extremis, all’anteprima la pellicola fu ben accolta dal pubblico. Tuttavia le sperimentazioni del regista, la sua adesione al formalismo e al costruttivismo, la sua scomposizione e ricomposizione della storia con l’uso del montaggio non piacque a tutti. Il regista Aleksej Dobrovskij affermò che Bronenosec Potëmkin introduceva “un principio di confusione nella cinematografia sovietica”. Gli fece eco un altro regista, Abram Matveevič Room, secondo cui gli uomini non erano presenti, ma solo le macchine, “Quando muore Vakulinčuk, se ne va gran parte della forza del film”. Ma benché spesso il film sia stato visto solo come mero strumento di propaganda, a boicottarlo fu soprattutto Konstantin Shvedchikov, Direttore della Sovkino la struttura che distribuiva i film in URSS, un vecchio amico di Lenin divenuto, come molti, un annoiato burocrate di partito. Di cinema non capiva nulla, pare passasse le ore a guardare modesti film stranieri, era antisemita e non amava Ėjzenštejn che chiamava dispregiativamente “il nobiluomo di Gerusalemme”. Shvedchikov si rifiutava di distribuire Bronenosec Potëmkin in tutta l’Unione Sovietica così come all’estero. Si mobilitò anche Majakóvskij, vecchio amico del regista, ma l’oscuro burocrate fu inamovibile. Solo dopo numerosi pressioni fece distribuire il film in URSS, dal 19 gennaio 1926, e inviò qualche copia a Berlino, convinto di un insuccesso che avrebbe giustificato il suo boicottaggio.
Nella capitale tedesca una prima proiezione privata, organizzata dall’Ambasciata, si tenne il 21 gennaio 1926 al Schauspielhaus. Il distributore che ne aveva acquistato i diritti, Premotheus, tentò di presentare la pellicola come una ricostruzione storica, priva di qualunque valenza politica. Vennero quindi tagliati svariati metri di pellicola e modificate le didascalie. Il 24 marzo, pare per intervento diretto del Ministro della guerra, Bronenosec Potëmkin fu proibito perché considerato “di natura tale da perturbare in modo durevole l’ordine pubblico e la sicurezza”. Venne pertanto nuovamente tagliato e rimontato. La prima ufficiale si tenne all’Apollo-Theatre il 29 aprile del 1926, tra gli spettatori Max Reinhardt e Asta Nielsen, ma copie meno manomesse erano state proiettate tra il 23 e il 26 aprile in un piccolo cinema della Friedrichstrasse, in periferia dove il Partito Comunista Tedesco e le organizzazioni ad esso affiliate, vantavano un forte radicamento. Tutte le proiezioni ebbero successo e la pellicola di Ėjzenštejn arrivò ad essere proiettata in dodici sale contemporaneamente. La Sovkino si vide così costretta a distribuire capillarmente il film in URSS e ad inviarlo in altri Paesi.
Ma la “vendetta” di Shvedchikov era dietro l’angolo. Il Direttore della Sovkino si affrettò a vendere tutte le copie originali alla Germania, quasi a volersi liberare del film di Ėjzenštejn. Ma la storia ebbe, un corso, purtroppo noto. Dopo altri tagli e proiezioni sempre più lontani dall’originale, nel 1933 il regime nazista sequestrò ogni singola copia. Il potente Ministro della propaganda Joseph Goebbels non poteva permetterne la visione, lo considerava “un film meraviglioso senza eguali nel cinema. La ragione è la sua forza di convinzione. Chi non abbia fede politica salda, dopo aver visto il film, potrebbe diventare un bolscevico”. Sollecitò, invano, i cineasti tedeschi di realizzarne una “versione nazista” della Bronenosec Potëmkin. Volontà che suscitò in Ėjzenštejn rabbia e disgusto. Il regista scrisse così al gerarca nazista sottolineando che di realismo e verità il nazionalsocialismo non ne conteneva “Neanche un atomo!”. Goebbels si dovette accontentare, qualche anno dopo, del famigerato Süss l’ebreo.
La prima a Parigi si tenne, invece, il 13 novembre del 1926 in una proiezione organizzata dalla regista Germaine Dulac (poi scopritrice di Jean Vigo), ma il film venne bandito l’anno successivo perché “di propaganda”, “violento” con “immagini immorali”. Fu proiettato privatamente in cineclub e circoli operai gestiti dall’associazione comunista “Amis de Spartacus”, fino a quando nel 1928 la polizia ne proibì ogni proiezione. Sempre in Francia la censura esaminò nuovamente il film nel 1950, ma lo distribuì solo dopo la morte di Stalin nel 1953. In Danimarca e Svezia Bronenosec Potëmkin venne arbitrariamente rimontato, capovolgendo il senso della storia che vedeva nella versione scandinava i cosacchi riportare l’ordine.
Nel Regno Unito il colonnello J. C. Hanna, al servizio della British Board of Film Censors (BBFC), decise di proibire il film fino al 30 settembre del 1926 poiché “infiammava la classe operaia alla rivolta”. Gli operai avevano da poco organizzato uno sciopero generale e la pellicola rivoluzionaria avrebbe avuto, secondo Hanna, un effetto dirompente. Nel 1928 il distributore Ivor Montagu, attivista comunista e responsabile della Film Society, cercò di aggirare la BBFC rivolgendosi direttamente ai governi locali di Londra e del Middlesex, ma entrambi confermarono il divieto. Non solo. Scotland Yard intervenne presso i distributori per vietare loro di diffonderne le copie. Nonostante questo Montagu riuscì a organizzare una proiezione il 10 novembre del 1929 al Tivoli Palace. Se si escludono due proiezioni “abusive”, una nell’Hampstead l’altra in Scozia, il capolavoro di Ėjzenštejn nel Regno Unito si vide solo nel 1954.
Negli Stati Uniti, dopo una proiezione organizzata da Douglas Fairbanks al Baltimore Theatre di New York, Battelship Potëmkin, come venne ribattezzato il film, fu tagliato, mutilato, rimontato come un flashback che partiva dal racconto di un ex marinaio del Potëmkin interpretato da Henry Hull con dialoghi scritti da Albert Maltz, uno dei “Dieci di Hollywood” perseguitati negli anni del Maccartismo. Ancora una volta la forza del film superò gli ostacoli, conquistò gli intellettuali, per Charlie Chaplin l’opera non invecchiava mai, e gli strati popolari e proletari. In poco tempo questo film rivoluzionario venne visto in Sierra Madre dai minatori messicani, così come nei sobborghi operai di Liegi. Clandestinamente. Ovunque ci fosse una cellula comunista.
Nella primavera del 1928 Bronenosec Potëmkin era stata venduta in 38 nazioni. La pellicola venne proibita in quattro (Francia, Regno Unito, Italia e Giappone, dove il film giunse solo nel 1970) e in altri quattro (Stati Uniti, Olanda, Finlandia e Svezia) fu distribuita in versioni tagliate, ma subì ovunque tagli e modifiche arbitrarie.
E l’Italia? Il film come detto fu proibito, ma il nostro Paese ebbe e tuttora ha un rapporto particolare con La corazzata Potëmkin. Uno dei volti simbolo del film, quello della mamma con la carrozzina, venne interpretato da una donna di origine italiane, Beatrice Vitoldi. Nata a Salerno il 15 dicembre 1895 emigrò con i genitori a Riga dove il padre trovò lavoro come ingegnere. Successivamente la famiglia si trasferì a Pietrogrado. La giovane donna si interessò all’arte e alla politica. Venne presentata a Ėjzenštejn, anch’egli passato da Riga all’attuale San Pietroburgo, e partecipò attivamente alla Rivoluzione. Dopo aver recitato per l’amico in quell’unico ruolo cinematografico, Beatrice Vitoldi divenne nel 1931 la prima ambasciatrice sovietica in Italia. Nel 1937 fu richiamata a Mosca, arrestata e processata durante la “Grande Purga”. Morì, come molte vittime dell’epurazione stalinista, in circostanze tuttora sconosciute. Si sa solo che era il novembre del 1939.
Negli stessi anni in Italia non si stava certo meglio e La corazzata Potëmkin fu perseguitata dal Fascismo. Nel nostro Paese la prima proiezione pubblica si ebbe solo nel 1945 in occasione della rassegna “Cinquantenario del cinematografo”, ma la censura DC colpì il capolavoro di Ėjzenštejn che si diffuse solo nei cineclub e nelle case del popolo. La Democrazia Cristiana continuò a impedirne la proiezione fino alla primavera del 1960, quando il film uscì regolarmente nelle sale. A distribuirlo fu la Cinelatina, una società legata al PCI presieduta dal senatore ed ex partigiano Egisto Cappellini. La versione fu quella sovietica sonorizzata tra il 1949 e il 1950, vennero mantenute le didascalie in cirillico, cui si aggiunse un inutile e pomposo commento letto da Arnoldo Foà, che a volte tradiva e enfatizzava le scritte. Il film incassò ben 58 milioni di lire, facendo sperare alla Cinelatina una ribalta nazionale che alla fine non ebbe. Sebbene il documento ministeriale (n° 31223 del 18 febbraio 1960) non indicava alcuna censura, la pellicola in Italia portava con se i tagli subiti dal film in Germania e in URSS: la bandiera rossa issata nel porto di Odessa mentre la folle applaude; la partecipazione popolare attorno alla salma di Vakulinčuk; tredici tagli delle immagini più cruente del massacro della scalinata (tra queste il bambino colpito alla testa, la fucilazione della madre, l’anziana donna che sanguina da un occhio). Nel mostro Paese l’ultima mutilazione La corazzata Potëmkin la ebbe per la proiezione RAI, avvenuta sul secondo canale il 24 febbraio del 1964. Per quell’occasione vennero tagliate le didascalie e le inquadrature, in sfregio al senso poetico e ritmico di Ėjzenštejn.
Ma per la maggior parte degli italiani La corazzata Potëmkin rimane, purtroppo, quella irrisa e parodiata da Paolo Villaggio ne Il secondo tragico Fantozzi diretto da Luciano Salce. Nella celebre sequenza del cineforum aziendale, il professor Guidobaldo Maria Riccardelli, interpretato da Mauro Vestri, impone ai suoi impiegati la ripetuta visione di vecchi film d’autore. Una sera, durante una partita della Nazionale di calcio, organizza la proiezione della “Corazzata Kotiomkin” della durata di “diciotto bobine” (in realtà è lunga 5, circa un’ora e un quarto). Dopo il film Riccardelli stimola il dibatto. Fantozzi, prima umiliato, prende la parola, si ribella, ed esclama la frase simbolo della saga fantozziana “Per me la Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!”. Un urlo di ribellione che distrusse il mito del film di Ėjzenštejn nel nostro Paese.
Ma siamo davvero sicuri che l’intenzione di Villaggio fosse quella? Innanzitutto il nome fu volutamente storpiato in rispetto all’opera, così come il nome del regista sovietico in “Serghei M. Einstein”. Non solo. La scena della scalinata venne girata da Luciano Salce, la scalinata è quella di fronte alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea a Roma, il celeberrimo “occhio della madre” è quello dell’attrice italiana Alba Maiolini. Come scritto dal collettivo Wu Ming erano, infatti, altri gli intenti di Villaggio, elettore del PCI e poi candidato per Democrazia Proletaria. L’attore genovese ribaltò tutto (non un cineforum di sinistra, ma uno aziendale) per fare di quell’esclamazione, ormai di uso comune, un inno alla rivolta, proprio come la vera corazzata Potëmkin.
Tornando a Bronenosec Potëmkin, un cenno merita la musica. Nelle prime proiezioni in URSS venne utilizzata una selezione di brani di Beethoven e Čajkovski, ma per la prima berlinese Ėjzenštejn volle della musica composta appositamente. Il regista affidò così il lavoro ad Edmund Meisel (Vienna, 14 agosto 1894 – Berlino, 14 novembre 1930) che la realizzò in soli dodici giorni. Quella di Meisel, autentico pioniere della musica per il cinema, divenne la colonna sonora ufficiale del film, capace di trasferire “al cinema un linguaggio sonoro fatto di dissonanze, bruitismi e citazioni, soprattutto dal jazz e dalle canzoni proletarie” (Mereghetti) e di resistere all’accompagnamento di Nikolai Kryukov realizzato per la già citata riedizione del 1949 e a quello per l’edizione “giubilare” del 1976 composto da brani sinfonici di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, che, in ambito cinematografico, si rifarà “prestando” il suo “Valzer n.2” a Stanley Kubrick per Eyes Wide Shut.
La corazzata Potëmkin fu un’opera corale come Sciopero!, dove il collettivo è più importante del singolo. Una menzione particolare merita, tuttavia, Aleksandr Pavlovich Antonov (Mosca, 13 febbraio 1898 – Mosca, 26 novembre 1962) che, dopo aver debuttato in Dnevnik Glumova ed essere apparso in Stačka, divenne, in Bronenosec Potëmkin, Grigory Vakulenchuk, marinaio realmente esistito, la cui tragica fine è narrata nella pellicola. Successivamente l’attore recitò in una decina di film, tutti sovietici, prima di ritirarsi nel 1956.
Almeno una citazione meritano anche gli altri attori che, contrariamente a quello che si è a lungo pensato, vennero perlopiù trovati in loco a Odessa, scegliendo facce espressive capaci di restituire sullo schermo la complessità e la varietà del popolo. Un giardiniere di Sabastopoli interpretò il prete, il regista Vladimir Bàrskij divenne il comandante della Potemkin, un fuochista di nome Zavitok il medico della nave, lo stesso Ėjzenštejn apparve come un abitante di Odessa, mentre il suo collaboratore Grigorij Aleksandrov interpretò il luogotenente Giljarovskij. Oltre alla già citata Beatrice Vitoldi da menzionare: Aleksandr Levšin, Andrej Fajt, Marusov (ufficiali), Michail Gomorov (marinaio nel comizio), Ivan Bobrov (marinaio recluta), Konstantin Fel’dman (studente nel comizio), Julija Ejzenštejn (la donna con il porcellino), Aba Glauberman (bambino sulla scalinata), Prokopenko (madre di Aba), N. Poltavceva (insegnante in pensione), T. Suvorina (donna anziana sulla scalinata), Zerenin (studente sulla scalinata), cui si aggiunsero veri marinai e degli abitanti di Odessa.
La corazzata Potëmkin, più volte votato il miglior film della storia, vanta numerose citazioni in svariati film. Da Partner di Bernardo Bertolucci a C’eravamo tanto amati d Ettore Scola, da Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce a Sweet Movie di Dušan Makavejev, ma la citazione più famosa rimane quella girata da Brian De Palma lungo la scalinata della Union Station di Chicago per The Untouchables (Gli Intoccabili). Bronenosec Potëmkin, in parte influenzato da alcune intuizioni di Murnau e Lang, ispirò anche registi quali Dreyer, Buñuel, Hitchcock, Visconti, De Santis, Satyajit Ray, Godard; ma anche la musica di Šostakovič, la poesia di Brecht e di Neruda, la pittura di Francis Bacon.
Dopo censure e tagli durati decenni, nel 2005 Enno Patalas e Anna Bhn-Schnitt curarono per la Stiftung Deutsche Kinemathek – Filmmuseum Berlin il restauro della pellicola. L’edizione integrale e restaurata della Bronenosec Potëmkin consta di 1372 inquadrature e 146 cartelli tra titoli di testa e didascalie. Pubblicata in Italia dalla Cineteca di Bologna è stata proiettata il 26 giugno 2017 in piazza Maggiore in occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, alla presenza di oltre quattromila persone. Un meraviglioso messaggio di fratellanza, un manifesto a favore dell’umanità al pari de “La Marsigliese”. Un potente messaggio attuale ancora oggi.
Ėjzenštejn “si svegliò famoso” come ricordò nelle sue “Memorie” e, sempre affascinato dall’oriente, iniziò a progettare un film in tre parti sulla Cina, la sua storia e la sua rivoluzione. Un’opera abbandonata per problemi tecnici, finanziari e per le posizioni assunte da Chiang Kai-shek che da nazionalista di sinistra era diventato un fervente anticomunista.
Nell’estate del 1926 il regista si accordò con gli enti governativi sul soggetto del successivo film, incentrato sulla politica seguita dal PCUS nella collettivizzazione dell’agricoltura. Nacque General’naja linija (La linea generale), ma a pochi mesi dall’inizio della lavorazione, Ėjzenštejn e i suoi vennero spostati su un progetto di maggiore urgenza, quello relativo alle celebrazioni del decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, con un film da proiettare il 7 novembre del 1927. Per commemorare tale evento la Mezrabpom, casa di produzione fondata dal comunista italiano Francesco Misiano insieme a Vsevolod Illarionovič Pudovkin, mise in lavorazione due film: Konec Sankt-Peterburga (La fine di San Pietroburgo) dello stesso Pudovkin e Moskva v Oktyabre (Mosca nell’Ottobre) di Boris Barnet, già regista della commedia Miss Mend (1926). La concorrente Sovkino affidò, invece, i suoi progetti a Ėsfir’ “Ester” Il’inična Šub (Shub), dal 1926 nominata direttrice della casa di produzione al posto di Konstantin Shvedchikov, l’uomo che boicottò La corazzata Potëmkin e a Ėjzenštejn.
La Šub (Suraž, 16 marzo 1894 – Mosca, 21 settembre 1959), dopo aver montato per il pubblico russo molti film stranieri, incluso Il dottor Mabuse proprio insieme a Ėjzenštejn, divenne la prima regista donna del cinema sovietico, nonché la migliore documentarista dopo Dziga Vertov. Per il decennale lavorò ad un film documentario, con immagini di repertorio, intitolato Velikiy put’ (La grande strada). Più in generale fu una regista capace di raccontare un’epoca. Da ricordare Padeniye dinastii Romanovykh (La caduta della dinastia Romanov, 1927), Rossiya Nikolaya II i Lev Tolstoy (La Russia di Nicola II e Lev Tolstoj, 1928) sulla Russia zarista; Ispaniya (Spagna, 1939) una celebrazione dei repubblicani spagnoli realizzata quasi interamente da materiale girato sul posto dai combattenti, tra i quali il fotografo e regista Roman Karmen; Fashizm budet razbit (Il fascismo sarà sconfitto, 1941) sulla lotta contro il Fascismo dilagante in Europa.
Tornando alle celebrazioni per il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, ad Ėjzenštejn non fu dato un soggetto preciso, ma un’enorme quantità di materiale relativo alla presa del Palazzo d’Inverno. Il regista insieme a Grigorij Vasil’evič Aleksandrov, anche aiuto regista, decise di ispirarsi per la sceneggiatura a “Ten Days That Shook the World” (“I dieci giorni che sconvolsero il mondo”), l’opera scritta nel 1919 dal giornalista comunista John Reed che descrive quasi fosse un reportage gli avvenimenti della Rivoluzione d’ottobre (la vita di John Reed venne magnificamente raccontata da Warren Beatty nel film Reds). I due, insieme a Tissė, concepirono un’opera divisa in due parti distinte Do Oktjabr (Prima dell’Ottobre) e Oktjabr (Ottobre). Per i tre solo narrando gli antefatti, la strategia, la tattica adottata, si sarebbe raggiunta una piena comprensione degli eventi.
Ėjzenštejn aveva nel frattempo maturato nuove convinzioni sul montaggio, pensate anche nel breve periodo di lavorazione de La linea generale, in cui superava la sfera delle emozioni e dei sentimenti portati dal “montaggio delle attrazioni”, straordinario in Sciopero! e ne La corazzata Potëmkin, per inserire elementi più propriamente ideologici e filosofici. Nacque così il “montaggio produttivo” (o intellettuale) ispirato agli ideogrammi cinesi e giapponesi tanto amati dal regista: separati possono non avere un significato, ma assieme portano un messaggio. Così doveva essere il montaggio.
Ma il tempo era tiranno. Le riprese della pellicola iniziarono il 13 aprile del 1927 e, per recuperare il ritardo rispetto agli altri cineasti impegnati nella celebrazione, la troupe lavorava anche 14 ore al giorno, l’immenso Ėduard Tissė girava diverse scene contemporaneamente. Durante le riprese ci fu anche uno “scontro” che alimentò la rivalità tra Pudovkin e Ėjzenštejn. I due, che avevano idee diverse sul montaggio, stavano, infatti, bombardando (cinematograficamente parlando) il Palazzo d’Inverno insieme, uno da sud l’altro da nord.
Il 7 novembre del 1927 Pudovkin, Barnet e Šub consegnarono puntualmente il loro materiale, mentre Ėjzenštejn era ancora alle prese col montaggio, questa volta per imposizioni politiche. Lenin era morto da due anni e Stalin non “gradiva” che nel film comparissero le figure di Zinov’ev e, soprattutto, quella di Trotsky. Il regista tagliò così tutte le scene incriminate, non sappiamo con quale reazione e stato d’animo, riducendo la lunghezza del film dai 4500 metri di pellicola iniziali ai 2200 finali. Ėjzenštejn si vide pertanto costretto a realizzare un unico film intitolato semplicemente, ma efficacemente Oktjabr (Ottobre. I dieci giorni che sconvolsero il mondo). Presentato il 20 gennaio del 1928, l’opera di Ėjzenštejn venne proiettato per la prima volta in pubblico il 14 marzo.
Pietrogrado, febbraio del 1917. Il regime zarista di Nicola II è caduto, sotto il peso della Rivoluzione, ma la rivolta porta al potere l’ambizioso e incapace Kerenskij (Nikolaj Popov) che esclude il popolo dal governo, perpetuando un sistema oppressivo. Solo ad aprile i bolscevichi, capeggiati da Lenin (Vasilij Nikandrov), riescono ad organizzarsi. I proletari impediscono il colpo di stato del generale Kornilov, prevalgono sui menscevichi nel Congresso dei Soviet e organizzano l’insurrezione d’Ottobre. La corazzata Aurora apre il fuoco sul Palazzo d’Inverno che viene finalmente conquistato.
Un film appassionato e possente, che una volta di più vide la massa protagonista. Gli operai, i soldati, le donne (troppo spesso dimenticate), in cittadini di Pietrogrado, divenuta Leningrado, spesso chiamati a rivivere e le azioni che molti di loro avevano vissuto in prima persona, come Nikolaj Il’ič Podvojskij. Le figure dei capi rivoluzionari non predominano mai. Lo stesso Lenin venne interpretato da un operaio russo di nome Vasilij Nikandrov, un po’ come Caravaggio che per ritrarre la Madonna faceva posare delle prostitute.
La scelta che non convinse l’amico Majakóvskij che scrisse: “Colgo l’occasione per protestare ancora una volta, e con tutte le forze, contro le contraffazioni cinematografiche di Lenin del genere di quella di Nikandrov. Quando un uomo somiglia a Lenin e rafforza la somiglianza assumendo pose di Lenin e compiendo gesti alla Lenin, in tutte queste esteriorità si sente il vuoto completo, la totale assenza di pensiero, e vederle è disgustoso”.
La forza del film si ebbe una volta di più dal montaggio, basti pensare all’ascesa di Kerenskij che salendo le scale del Palazzo d’Inverno, sale di grado, come recitato dalle didascalie (come sempre in Ėjzenštejn parte integrante del film), o lo stesso Kerenskij montato alternativamente a immagini di divinità, di un pavone, di Napoleone. O ancora, tra simbolismi e sperimentazioni, i dettagli degli oggetti del lusso zarista, simbolo del vecchio mondo, la cui distruzione simboleggia la vittoria del proletariato: da una parte gli oggetti, dall’altra l’uomo.
Proprio per le sperimentazioni Ottobre non fu subito capito dal pubblico e, dei quattro film celebrativi del decennale, fu il bersaglio preferito della critica stalinista. Le accuse erano sostanzialmente due: quella di non aver rispettato la realtà dei fatti e quella di aver approfittato del film per le sue sperimentazioni e per i suoi estetismi che avevano “forzato” la realtà, generando confusione nello spettatore. “Centinaia di metri di pellicola furono spesi per rappresentare oggetti degli ex appartamenti imperiali: lampadari, quadri, vasellame, serrature, mobili delle camere da letto, dei salotti, delle sale da ricevimento, cose, cose, cose…” scrisse Lebedev ignorando che Oktjabr ci stava consegnando una testimonianza, unica e diretta, dello sfarzo zarista.
Ottobre non fu, in sintesi, un semplice film sulla Rivoluzione, ma una pellicola sulla necessità di una rivoluzione permanente. Il Governo sovietico chiese una celebrazione del passato, Ėjzenštejn realizzò un’opera rivolta al futuro.
Dopo il parziale insuccesso di Oktjabr, il regista nella primavera del 1928 riprese la lavorazione di La linea generale (… ovviamente quella del PCUS), quasi due anni dopo l’inizio del lavoro. Il tema non sembrava discostarsi da quello originariamente scritto col solito Aleksandrov, vennero però semplificati, secondo i ricordi di Tissė, gli espedienti di riprese che divennero più semplici e diretti. Una semplicità solo sulla carta visto che per filmare alcune scene vennero usate anche cinque macchine contemporaneamente, al fine di avere inquadrature diverse da valorizzare col montaggio.
Nella primavera del 1929 la pellicola fu esaminata in diverse proiezioni private. La politica culturale dell’URSS stava cambiando e dopo Ottobre il PCUS non voleva più correre “rischi”. Mentre Ėjzenštejn, Aleksandrov e Tissė erano in procinto di recarsi all’estero per studiare il cinema sonoro, Stalin in persona li convocò al Cremlino. Il padrone incontrastato dell’URSS spiegò loro cos’era il cinema (sembra incredibile…), cos’era il marxismo e cos’era la vita in genere. Non pago gli organizzò un viaggio didattico nelle campagne russe, cambiò il titolo del film in Staroye i novoye (Il Vecchio e il nuovo) e “suggerì” un finale più corretto. Con queste importanti modifiche la pellicola venne proiettata per la prima volta al Teatro Bol’šoj il 25 settembre del 1929.
In un villaggio russo qualsiasi, dominato da ignoranza, superstizione e miseria, la vedova Marfa (Marfa Lapkina) sopravvive a stento, costretta ad arare il campo con una vecchia mucca poiché i kulaki (proprietari terrieri che la politica del Partito voleva cancellare) gli negano ogni tipo di aiuto. Altri contadini stanno ancora peggio e sono obbligati a tirare da soli l’aratro. La donna propone così di creare una cooperativa, ma la maggior parte dei compaesani preferisce seguire il “pope” (sacerdote ortodosso) che fa processioni per invocare l’acqua. Nonostante la diffidenza generale Marfa, con l’aiuto di un agronomo, riesce comunque a creare una piccola collettività che diventa un importante centro economico e sociale del villaggio. Prima viene acquistata una piccola scrematrice (inaugurata in una scena indimenticabile), poi, dopo l’unione di altri contadini, anche un toro di razza che, dopo un matrimonio farsesco con una vacca, viene ucciso dai kulaki. Ma la cooperativa è più forte e riesce ad avere un trattore. Il mezzo, tuttavia, si guasta prima di arrivare al villaggio. Marfa e il conducente (Kinstantin Vasilyev) riescono ad ripararlo, permettendo l’inizio del raccolto.
Il finale inizialmente girato da Ėjzenštejn, un omaggio a La donna di Parigi di Charlie Chaplin, mostrava l’incontro casuale di Marfa, ora trattorista, col trattorista divenuto contadino. Quello imposto da Stalin una banale unione tra contadini e operai sulla via del socialismo.
Ma nonostante le modifiche e le censure, Il Vecchio e il nuovo segnò una tappa importante della filmografia del regista, sia per i movimenti di macchina e la profondità di campo, sia per la scelta di rendere protagonista non più solo le masse, ma anche una donna il cui destino individuale la porta a schierarsi con la Rivoluzione. Per rendere tutto più credibile Ėjzenštejn scelse direttamente dei contadini a partire dall’analfabeta quarantatreenne Marfa Lapkina che nel film interpretò praticamente se stessa.
Come era stato per La corazzata Potëmkin, forte fu anche la componente erotica: dalla scena della monta del toro, al possesso gioioso degli strumenti meccanici, dalla celebre sequenza della scrematrice, figurazione esplicita di un orgasmo maschile, alla riparazione del trattore resa possibile solo grazie allo strappo delle vesti di Marfa. Per il Ėjzenštejn la Rivoluzione era un gigantesco orgasmo.
Un tema che oggi definiremmo “scottante”, quello della collettivizzazione delle terre, che portò all’insuccesso de Il Vecchio e il nuovo, criticato dentro e fuori il Partito, sorte che colpì l’anno successivo anche La terra, il capolavoro di Aleksandr Petrovic Dovženko.
Ėjzenštejn decise così di insegnare all’Istituto statale di cinema di Mosca, per poi riprendere il viaggio interrotto dalla chiamata di Stalin. Nell’agosto del 1929, prima ancora della proiezione de Il Vecchio e il nuovo, il regista lasciò così l’URSS, insieme agli inseparabili Aleksandrov e Tissė, per un soggiorno all’estero a tempo indeterminato. In Unione Sovietica furono in molti a tirare un sospiro di sollievo.
Nonostante ostracismo e censure la capacità di Ėjzenštejn era evidente. Poco tempo dopo a Parigi, in una conferenza alla Sorbona, gli fu dato un nome capace di definirne appieno la grandezza. Le sue iniziali, S e M, cambiaronoe significato e divennero “Sa Majesté” ovvero “Sua Maestà” Ėjzenštejn.
redazionale
Bibliografia
“Il cinema russo e sovietico” di Giovanni Buttafava – Biblioteca di B&N
“Storie dell’altro cinema” di Ugo Casiraghi – Lindau
“Sergej M. Ėjzenštejn” di Aldo Grasso – Castoro
“Memorie” di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn – SE
“Sergej M. Ėjzenštejn. La corazzata Potëmkin” di Maurizio Del Ministro – Lindau
“La corazzata Potëmkin” – Cineteca di Bologna
“Dizionario del comunismo del XX secolo” a cura di Silvio Pons e Robert Service – Einaudi
“Guida al film” a cura di Guido Aristarco – Frabbri Editori
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza, foto 4, 5 Screenshot del film Dillinger è morto, foto 1 da it.wikipedia.com, foto 2 Screenshot del film Una storia moderna – L’ape regina, foto 3 da gettyimages.com.