SECONDA PARTE
Negli anni venti in Unione Sovietica vennero realizzate oltre 800 pellicole a soggetto. Non tutte erano, ovviamente, firmate da Kulešov, Ėjzenštejn, Pudovkin o Dovženko, la produzione, infatti, includeva anche numerosi film di intrattenimento, comunque privi di dannose deviazioni ideologiche. Film di successo. Il più noto, Medvezhya svadba (Nozze di orsi o Il matrimonio dell’orso, 1925) diretto da Vladimir Gardin e Konstantin Eggert, venne visto più del doppio rispetto alla Bronenosec Potëmkin. Di quella ricca produzione rimane poco, probabilmente la parte migliore come i film di Protazanov o il comico Poceluj Meri Pikford (Il bacio di Mary Pickford, 1926) con la “fidanzata d’America” (in viaggio in URSS col marito Douglas Fairbanks) protagonista insieme all’attore più russo più famoso dell’epoca, Igor Vladimirovič Il’inskij, diretti da Sergei Komarov.
Tra film di “agitazione”, di propaganda, di intrattenimento, la “settima arte” in Unione Sovietica era in grande espansione. Un dato? A fine del 1928 nell’URSS i cinema erano 7331 (2389 nelle campagne) con 200 milioni di spettatori annui, prima della Rivoluzione d’Ottobre erano, invece, 1412 di cui solo 133 nelle campagne (dato del 1914). Un elemento talmente importante da essere inserito nel Primo piano quinquennale voluto da Stalin. Anche il cinema, infatti, doveva cessare ogni dipendenza dai paesi capitalisti, fino ad allora la pellicola era della tedesca Agfa, le macchine da presa della francese Debrié, e soprattutto doveva essere sviluppato il sonoro. Nel 1928 il “Manifesto sull’asincronismo”, firmato da Ėjzenštejn, Aleksandrov e Pudovkin, aveva già messo al centro il nuovo progresso tecnico sottolineando il fatto che non fosse adeguatamente sfruttato, introducendo concetti di contrappunto e di montaggio sonoro. Secondo la teoria dei tre cineasti sovietici “il suono dovrà essere utilizzato in senso contrappuntistico, vale a dire non in sincrono con le immagini, in quanto il sincronismo produce una pericolosa illusione di verità, riducendo così il cinema a un cinema-attrazione, a una semplice riproduzione naturalistica del reale”. Ėjzenštejn, Aleksandrov e Tissė andarono all’estero per questo, l’obbiettivo dichiarato era quello di studiare la tecnica del cinema sonoro.
I tre soggiornarono inizialmente a Berlino dove lavorarono alla versione tedesca de Il Vecchio e il nuovo, per poi trasferirsi, insieme ai registi d’avanguardia Hans Richter (Rhythmus 21, Rhythmus 23) e Walter Ruttmann (Berlino, sinfonia di una grande città), in Svizzera presso il castello di La Sarraz, vicino a Losanna, dove dal 2 al 6 settembre del 1929 si svolse il Congress International du Cinéma Indipéndant. All’evento, ospitato dalla proprietaria Hélène de Mandrot, parteciparono artisti da ogni parte del mondo: gli italiani Enrico Prampolini, Alberto Sartoris, il giapponese Hiroshi Hijo, gli inglesi Ivor Montagu, Jack Icaacs, i francesi Alberto Cavalcanti, Jean-Georges Auriol, Léon Moussinac.
Vennero proiettati Staroe i novoe dello stesso Ėjzenštejn, Un chien andalou di Luis Buñuel, La passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco) di Carl Theodor Dreyer, le pellicole astratte di Cavalcanti e Man Ray, le sperimentazioni di Richter, Ruttmann, nonché Branding l’ultimo film di Joris Ivens. Ma gli scopi del Primo Congresso del Cinema Indipendente non erano affatto chiari. I registi sovietici spiegarono che “in un sistema di stati capitalisti il cinema indipendente è una finzione come la stampa indipendente”, cosa che non piacque alla delegazione italiana guidata dal pittore e scenografo Enrico Prampolini (Modena, 20 aprile 1894 – Roma, 17 giugno 1956) futurista legato al Fascismo (autore nel 1917 della scenografia di Thaïs, diretto Anton Giulio Bragaglia), uomo che Ėjzenštejn ricordò come “figuretta minuscola e sgradevole”. Al momento di redigere la risoluzione finale del “Congresso” gli animi si scaldarono. Venne comunque partorito un documento, introvabile anche nelle riviste dell’epoca, che affermava: “l’arte impolitica non esiste”.
Durante quelle giornate Ėjzenštejn, Montagu e Moussinac girarono anche un cortometraggio intitolato The Storming of La Sarraz (L’assalto di La Sarraz) che aveva per soggetto la liberazione del cinema dalle sue catene commerciali, grazie all’azione dei cineasti indipendenti. La pellicola, purtroppo perduta in un non precisato archivio cinematografico di Berlino, venne scritta da Richter. Il regista sovietico, oltre a dirigere l’azione, interpretò Don Chisciotte.
Dopo il “Congresso” a Losanna i cineasti sovietici ripartirono alla volta di Zurigo, dove un produttore chiamato Wecler propose a Ėjzenštejn un film sul controllo delle nascite. La risposta dell’autore de La corazzata Potëmkin fu ironicamente lapidaria: “Senta, se lei mi lascia far abortire tutta Zurigo la cosa può incominciare ad interessarmi. Ma la storia di una donna, no”. Alla fine il film venne realizzato da Tissė ed uscì col titolo Gore i radost’ zhenshchiny (Guai e dolori di una donna).
Poi nuovamente a Berlino dove Ėjzenštejn ebbe occasione di confrontarsi di politica, di cinema, di teatro con Ernst Toller, Erwin Piscator, George Wilhelm Pabst, Albert Einstein, Emil Jannings (che gli propose di realizzare una seconda Potëmkin con lui come protagonista), Bertold Brecht e Luigi Pirandello.
Il drammaturgo e il regista si incontrarono in un piccolo ristorante italiano nel quartiere di Charlottenburg, gustando dell’ottimo “sabaglione”, come ricordato nelle sue “Memorie”. Lo scrittore siciliano ammirava Ėjzenštejn e nel 1929 aveva confidato all’amica Marta Abba che gli sarebbe piaciuto invitarlo in Italia per realizzare un film tratto dal suo “Gioca Pietro!”. Ma sotto Mussolini un comunista sovietico non poteva mettere piede nel nostro Paese e quello scritto, nato per il cinema, divenne anni dopo Acciaio, l’unica pellicola a soggetto del regista tedesco Walter Ruttmann. Il poeta sognò di vedere sul grande schermo anche “Sei personaggi in cerca di attore”. Scrisse per questo a Carl Laemmle della Universal e ne parlò con Ėjzenštejn. I due geni disquisirono di musica, di cinema, di teatro, di arte, ma alla fine non realizzarono il film. La major, inizialmente interessata al progetto, abbandonò l’idea.
Il viaggio di Ėjzenštejn, Aleksandrov e Tissė proseguì a Parigi con colloqui con Filippo Marinetti, Jean Cocteau, Blaise Cendrars, Man Ray, Abel Gance, Robert Desnos (poeta internato come Kurt Gerron nel campo di Theresienstadt), Fernand Léger e James Joyce per il quale il regista nutriva una smisurata ammirazione al punto di voler portare sul grande schermo il suo “Ulysses” (“Ulisse”). Pellicola che rimarrà solo un’idea visto che Joyce, come Freud, era tabù in Unione Sovietica.
Successivamente i tre cineasti si recarono a Londra, dove Ėjzenštejn recitò per l’amico Hans Richter la parte di un poliziotto nel film Everyday (1929) e tenne una conferenza alla London Film Society. Quindi in Belgio dove incontrò il pittore James Ensor e i minatori di Liegi. Poi in Olanda per studiare i quadri di Van Gogh (a l’Aja il suo taxi rischiò di investire la Regina Guglielmina che passeggiava tranquillamente) e incontrare il giovane documentarista Joris Ivens. Poi ancora in giro per la Francia, guidato da Jean Mitry e Léon Moussinac, in seguito di nuovo Berlino e Londra.
I tre sovietici erano partiti nell’agosto del 1929 con soli 25 dollari ciascuno, ma grazie alla loro fama non ebbero difficoltà a mantenersi. Mentre Ėjzenštejn si trovava ancora a Londra, ad esempio, un gioielliere parigino ingaggiò Aleksandrov e Tissė per realizzare un film dedicato alla moglie Mara Griy, una cantante lettone emigrata. Unica condizione: la pellicola doveva essere firmata da “Sua Maestà”. Ėjzenštejn si limitò ad una blanda consulenza, ma risultò coregista della pellicola intitolata Romance Sentimentale. Nel corto sperimentale (20 minuti circa), il montaggio alterna prima immagini “violente”, poi più tranquille, ma la protagonista è la musica composta da Alexis Arkhangelsky e cantata dalla stessa Griy.
Sempre a Parigi il 17 febbraio del 1930 era in programma alla Sorbona la prima francese dell’ultimo lungometraggio del regista, Il Vecchio e il nuovo. Tutto era pronto. Ėjzenštejn doveva solo tenere un breve discorso di presentazione. Ma il clima verso l’Unione Sovietica era molto pesante, al punto che anche un documentario su un’esibizione di ginnastica venne bollato come “Propaganda Sovietica” e proibito perché mostrava degli atleti sorridenti. Insomma, non si poteva far vedere che in URSS c’era anche la felicità. In questo clima Staroye i novoye non aveva ancora ottenuto il visto dalla censura, ma l’Università, quell’Università, godeva di una sorta di extraterritorialità e la proiezione, se privata, non necessitava di alcuna autorizzazione. Vennero, tuttavia, preparati migliaia di inviti che invasero la città. Uno di questi biglietti, stampati su carta blu, finì sulla scrivania di Jean Chiappe, famigerato prefetto della polizia di Parigi dal 1927 che, come primo provvedimento, aveva soppresso ogni manifestazione comunista. La proiezione divenne così pubblica.
La serata, attesa con impazienza, era in programma nella sala Richelieu della Sorbona. Un’elegante stanza, con tanto di statua del cardinale, capace di ospitare un migliaio di persone. Se ne presentarono oltre tremila. Puntuale però giunse il divieto delle autorità. Chiappe si sedette vicino al proiettore posizionato ai piedi della statua. Attorno a lui alcuni poliziotti. Altri stanziarono nel cortile e intorno alla sala. Temendo disordini e scontri, erano presenti molti comunisti che la polizia non vedeva l’ora di arrestare, gli organizzatori, il solito Léon Moussinac e lo psicanalista e docente della Sorbona René Allendy, cancellarono la proiezione, e invitarono il regista ad allungare il suo intervento che divenne una vera e propria conferenza. Ėjzenštejn non era un grande oratore, ma parlò per tre ore. Illustrò le sue teorie su montaggio e “cinema intellettuale” e irrise Chiappe, che dovette subire lo sberleffo senza poter intervenire. Una ironia che colpì la stampa. Io giorno seguente il quotidiano borghese “Le Matin” scrisse: “Non dovete temere i bolscevichi che hanno il pugnale fra i denti, ma quelli che hanno il sorriso sulle labbra!”.
Ma l’evento alla Sorbona fu importante anche per un altro aspetto. Durante la conferenza Ėjzenštejn affermò, per la prima e unica volta in pubblico, di voler realizzare un film tratto da un libro particolarmente importante per i comunisti: “Il Capitale” di Karl Marx.
L’idea ad Ėjzenštejn venne dopo la lavorazione di Ottobre. In un foglietto incollato su un quaderno datato 12 ottobre 1927 (ritrovato nel 1976) il regista annotò: “Deciso di filmare Il Capitale su sceneggiatura di Karl Marx”. Nessuno era a conoscenza del suo più ambizioso progetto, non i suoi collaboratori, non Stalin o i burocrati che lo avevano spesso ostacolato e censurato. Il progetto si fece più concreto dopo l’incontro parigino con James Joyce. Il ragionamento del regista era affascinante: “Se partendo da una scodella di minestra Joyce arriva all’intera flotta britannica, perché un cinema davvero marxista non potrebbe, facendo leva sul dettaglio di una calza di seta, inglobare un intero tessuto sociale?”. Dal concreto all’astratto, dall’oggetto comune alla generalizzazione concettuale. Un’impresa quasi impossibile, ma Ėjzenštejn aveva il cinema per riuscirci, basti pensare al montaggio de La corazzata Potëmkin o a quello dello stesso Ottobre. Ėjzenštejn ne parlò alla Sorbona, ma il progetto, per quanto affascinante, rimase nel cassetto.
Ėjzenštejn aveva avviato anche delle trattative con Hollywood, ma la chiamata americana tardava ad arrivare. Nel frattempo, col rischio di essere espulso da Parigi per propaganda comunista, continuava a studiare possibili soggetti per i produttori occidentali in generale e per quelli degli Stati Uniti in particolare. Lavorò, insieme ad Ivor Montagu, alla trasposizione cinematografica di “Le Chemin de Buenos Aires” (“La via verso Buenos Aires”) un reportage di Albert Londres su colonialismo e schiavitù (le avventure di Londres ispirarono il fumettista belga Hergé per la realizzazione del celebre Tintin), ma il progetto finì nel nulla dopo un iniziale interessamento di una casa di produzione francese. Quindi il regista si interessò ad una biografia di Sir Basil Zaharoff, commerciante di armi, tra gli uomini più ricchi del suo tempo, proponendo l’idea sia a produttori francesi e inglesi, sia a produttori americani, ma anche in questo caso non se ne fece nulla. Sempre per gli statunitensi Ėjzenštejn pensò alla riduzione di una commedia di George Bernard Shaw, proposta dallo stesso autore, intitolata “Arms and the man” (“Le mani e l’uomo”), ma non riuscì a suscitare alcun interesse.
Nei primi primi mesi del 1930 arrivò per telegramma l’atteso invito per Hollywood, cui fece seguito la visita a Parigi Jesse Louis Lasky (San Francisco, 13 settembre 1880 – Beverly Hills, 13 gennaio 1958), tra i pionieri del cinema americano, fondatore insieme ad Adolph Zukor della Paramount Pictures. Ėjzenštejn firmò un contratto della durata di sei mesi a 900 dollari a settimana, nonché l’ingaggio dei compagni Aleksandrov e Tissė.
Del lungo periodo francese il regista ricordò con infinito affetto e ammirazione il “compagno Léon”, Léon Moussinac (Migennes, 19 gennaio 1890 – Parigi, 10 marzo 1964) critico cinematografico, membro attivissimo del Partito Comunista Francese dal 1924. Nel 1927 aveva soggiornato in URSS e, dopo aver conosciuto l’autore de La corazzata Potëmkin, importò in Francia il cinema rivoluzionario e pubblicò i volumi “Le cinéma soviétique” e il saggio “Sergej Michajlovič Ėjzenštejn”. La sua militanza comunista lo portò, nell’aprile del 1940, all’arresto. Venne internato nel campo di Gurs, poi spostato nella prigione militare di Nontron, ma, come ricordò l’amico regista: “le indicibili sofferenze non hanno fiaccato la sua fibra di rivoluzionario, di comunista, di patriota…”. Sopravvisse. I suoi scritti sono conservati presso il Dipartimento di arti dello spettacolo della Biblioteca nazionale di Francia.
Tornando all’ingaggio americano, i tre sovietici attraversarono l’oceano a bordo del transatlantico Europa e giunsero negli Stati Uniti d’America il 12 maggio del 1930. Il viaggio dei cineasti venne criticato sia in URSS sia negli ambienti conservatori di Hollywood che non si capacitavano di un simile ingaggio per dei comunisti.
Come in Europa l’agenda era fitta tra viaggi, incontri, conferenze. Ėjzenštejn parlò alla Columbia University a New York, ad Harvard in quel di Boston, a Yale nel New Haven, nonché nelle università di Chicago e della California (i tre furono i primi sovietici in quello Stato), davanti agli afroamericani di New Orleans, ad un convegno dei noleggiatori della Paramount ad Atlantic City e nella stessa Hollywood.
Fitta anche la serie di incontri. Ėjzenštejn cenò in un ristorante di New York con Douglas Fairbanks e Mary Pickford; negli studi Paramount lavorò con Jackie Coogan ormai adolescente; si confrontò con Josef von Sternberg e Marlene Dietrich sul set di Morocco; conobbe Greta Garbo da poco giunta a Hollywood dopo il sodalizio con Mauritz Stiller; con Luis Buñuel parlò del prefetto Chiappe che, sollecitato dalla destra e da associazioni patriottiche e religiose, aveva bloccato anche la distribuzione de L’âge d’or. E ancora King Vidor, Berthold e Salka Viertel. A Boston gli venne perfino presentato Rin Tin Tin.
Ma il regista legò in particolare con due altri geniali cineasti: Walt Disney e Charlie Chaplin. Per il primo nutriva una grande ammirazione, anche perché riconosceva al primo Mickey Mouse (da noi Topolino) una critica ironica alla società standardizzata. Ne divenne grande amico. Col secondo, tra una sfida e l’altra a tennis, parlò a più riprese di cinema, ma soprattutto di comunismo e Unione Sovietica. Il regista inglese ricordò nella sua autobiografia: “Un giorno, discutendo con lui sul comunismo, gli chiesi se pensava che il proletariato istruito fosse pari, mentalmente, all’aristocratico forte della tradizione culturale delle generazioni che lo avevano preceduto. Mi parve stupito della mia ignoranza. Ėjzenštejn, che proveniva da una famiglia della borghesia russa, disse ‘Date loro la possibilità di istruirsi e la fertilità celebrale delle masse sarà come un nuovo, ricchissimo humus'”. Ai due amici il cineasta sovietico dedicò due libri intitolati semplicemente “Walt Disney” e “Charlie Chaplin”.
Parallelamente si sviluppavano anche le idee per nuovi soggetti. A Parigi Ėjzenštejn e Lasky avevano già discusso, senza esito, di alcune opere di Zola e di “Menschen im Hotel” (“Grand Hotel”) dell’austriaca Vicki Baum (poi portato sul grande schermo nel 1932 con Greta Garbo come protagonista), mentre negli USA il primo progetto proposto al regista fu la trasposizione del romanzo “The War of the Words” (“La guerra dei mondi”) di H. C. Welles, ma l’idea, che fece anni dopo la fortuna di Orson Welles, fu presto abbandonata per mancanza di fondi.
Da contratto anche Ėjzenštejn poteva presentare idee per nuovi film. Ipotizzò così la pellicola Glass House (La casa di vetro) ispirata dal romanzo dispotico “My” (“Noi”) di Evgenij Ivanovič Zamjatin, ma l’assenza di una storia capace di esprimere quell’idea fece tramontare il progetto. Quindi tratteggiò con Aleksandrov e Montagu un soggetto tratto da “L’or” (“L’oro”) di Blaise Cendrars intitolato Sutter’s Gold (L’oro di Sutter) una grande demistificazione del capitalismo americano. Ma i produttori si domandarono “Possiamo permettere che dei bolscevichi affrontino il tema dell’oro?” e la risposta fu negativa. Di quell’opera mancata il Museum of Modern Art di New York conserva gelosamente il dettagliato piano di lavoro.
Un altro libro catturò, tuttavia, l’attenzione del regista, si trattava di “An American tragedy” (“Una tragedia americana”) dello statunitense Theodore Dreiser. Edito nel 1925, tratteggiava un affresco della società americana di inizio Novecento. Diverse stesure della sceneggiatura, approvate dallo stesso autore, vennero presentate alla Paramount, ma quella critica alla società statunitense venne bocciata dalla major che affidò lo stesso film, riscritto e senza la condivisione di Dreiser, a Josef von Sternberg.
Il 23 ottobre del 1930 la Paramount annunciò la rescissione, per reciproco accordo, del contratto con Ėjzenštejn. Il regista sottolineò: “L’opposizione (al suo lavoro, nda) era costituita dai banchieri che rappresentavano gli interessi delle banche […] e puntavano solamente sul sicuro, senza eccessi o complicazioni, e preferivano quasi sempre produrre i tipi di film che avevano già avuto successo”. A questo si aggiunse l’impreparazione di Ėjzenštejn, Aleksandrov e Tissė rispetto alle nuove tecniche, si erano recati all’estero proprio per studiarle, e la nascente campagna anticomunista guidata dal maggiore Frank Pease e da organizzazioni fasciste.
Al regista e ai suoi collaboratori non rimaneva che il rientro in URSS. Ėjzenštejn ebbe comunque il tempo per ottenere, da Sam H. Harris, i diritti della commedia teatrale “Once in a Lifetime” (“Una volta nella vita”) di Moss Hart e George S. Kaufman, con l’idea di metterla in scena a Mosca. Tutto era pronto. Il viaggio di ritorno avrebbe fatto tappa in Giappone per la realizzazione di un film sul Paese del Sol levante.
La cultura orientale aveva sempre avuto una grande influenza sul cineasta. Tutti i bozzetti, i disegni, i lavori grafici, i saggi, le sceneggiature mostravano un tratto capace di riecheggiare gli ideogrammi. Anche alcune sue teorie sul montaggio, come noto, nascevano dalla scrittura cinese e giapponese. E poi c’era la passione per il Kabuki, la forma teatrale nata a Kyoto nel 1603, il cui nome è composto da tre ideogrammi “ka” (canto), “bu” (danza) e “ki” (abilità) e deriva dal verbo “kabuku” ovvero “essere fuori dall’ordinario”. Ėjzenštejn, che fuori dall’ordinario lo era sul serio, ammirava la “forma d’insieme” di quelle rappresentazioni che vide dal vivo nel 1928 in occasione di un viaggio a Mosca e Leningrado del celebre attore kabuki Ichikawa Sadanji II.
Ma Ėjzenštejn non realizzò alcun film su Giappone, cambiò itinerario e si trasferì in Messico. Il 24 novembre del 1930 Ėjzenštejn, infatti, firmò con la signora Mary Craig Sinclair, moglie dello scrittore progressista Upton Sinclair, un contratto che gli assicurava 25 mila dollari “per la realizzazione di un film chiamato per ora genericamente film messicano”.
La prima notte messicana Ėjzenštejn, Aleksandrov e Tissė la passarono, tuttavia, in prigione. L’anticomunismo made in USA li aveva praticamente presentati come “terroristi” e questo non era un buon biglietto da visita nemmeno per il socialdemocratico Messico. Albert Einstein e Charlie Chaplin, seguiti da altri, si mobilitarono con telegrammi e appelli per la scarcerazione. Il regista sovietico poté così iniziare, anche in centroamerica, la sua attività tra mondanità, politica e cinema.
Conobbe Diego Rivera, Frida Kahlo, Tina Modotti, David Alfaro Siqueiros, José Clemente Orozco. Si avvicinò alla cultura messicana leggendo “The Golden Bough: A Study in Comparative Religion” (“Il ramo d’oro”) dell’antropologo James Frazer e “Idols behind altaros” (“Idoli dietro gli altari”) della giornalista Anita Brenner, volume arricchito dalle foto di Tina Modotti. Si appassionò ai disegni erotici del luogo che iniziò a ricopiare.
Nei sui viaggi messicani Ėjzenštejn fu guidato prima da Austin Aragon-Leiva, un etnologo e studioso di arte messicana, poi da Jorge Palomino Cañedo, un giovane storico felicemente sposato, che il regista aveva conosciuto a Città del Messico quando gli venne presentato da Diego Rivera e Frida Kahlo. Palomino fece da guida al regista nel suo soggiorno a Guanajuato, mentre il sovietico era alla ricerca delle location in cui girare il “film messicano”. Tra i due nacque un’intensa amicizia, come testimoniato sia da una lettera che il sovietico inviò all’amica e confidente Pera Attacheva, sia da uno scambio epistolare tra i due uomini, inclusi dei disegni a sfondo omoerotico. Questo elemento alimentò le voci sull’omosessualità di Ėjzenštejn, mai ammessa pubblicamente e forse neppure mai consumata.
Sul tema comunque si sviluppò, e si sviluppa tuttora, una vasta letteratura: dalle voci che lo vedevano legato all’amico Grigorij Vasil’evič Aleksandrov, misteriosamente malato in parte del viaggio messicano, alle molte immagini sensuali dei suoi film (dai marinari della Potëmkin, alla scrematrice ne Il Vecchio e il nuovo), fino ad arrivare al saggio “Ejzenštejn” di Dominique Fernandez. Anche il cinema ha affrontato il tema. Secondo il regista gallese Peter Greenaway, Ėjzenštejn scoprì di essere gay in Messico e, partendo da questa convinzione, col suo stile provocatorio e sensuale, Greenaway nel 2015 ha realizzato il film Eisenstein in Guanajuato (Eisenstein in Messico), prima parte di una trilogia, con Elmer Bäck nella parte del regista e Luis Alberti in quella di Palomino Cañedo. Interessante anche il cortometraggio Sergei/sir Gay (2017) diretto da Mark Rappaport.
Quel che è certo è che l’omosessualità, presunta o reale, non era gradita in URSS e Ėjzenštejn, forse per mettere a tacere le voci, rientrato in Patria, nel 1934 sposò la dolce e intelligente Pera Attacheva (1900 – Mosca, 24 settembre 1965). Voci e poche certezze, al punto che secondo Marie Seton, la biografa ufficiale di Ėjzenštejn, l’uomo morì vergine al pari di un altro grande, Giacomo Leopardi.
Tornando al cinema Ėjzenštejn si innamorò, forse non casualmente, del Paese centroamericano e, in quel clima culturale, pensò ad una “sintesi strepitosa della storia del Messico lungo l’asse di un tema progressista e libertario, attraversata violentemente da una dominante erotica-religiosa” (Grasso). Nacque il progetto ¡Que viva México! (traducibile con Lunga vita al Messico!).
La pellicola, della durata prevista di due ore, doveva comprendere un prologo, quattro episodi titolati Sandunga, Maguey, Fiesta, Soldatera e un epilogo. Tutti recitati da attori non professionisti. Nel prologo, ambientato nello Yucatan, le immagini di antiche cerimonie mortuarie fanno da contrasto a quelle di vitale erotismo di una coppia di amanti che si dondola sensualmente sull’amaca. In Sandunga, la regione di Tehuantepec è contaminata in modo massiccio dal colonialismo spagnolo e il recupero dell’antica tradizione folkloristica diviene un’espressione della lotta di classe. In Maguey viene raccontato il tema del lavoro, l’estrazione del succo dalla pianta maguey, come fulcro della rivolta dei peones contro gli haciendados (i proprietari terrieri). I ribelli vengono vinti e sepolti vivi. Solo la testa rimane fuori prima di essere calpestata da una mandria di cavalli. Un uomo viene ucciso sotto gli occhi impotenti dell’amata, vittima di violenza carnale da parte di un ricco proprietario terriero. In Fiesta una processione di monaci penitenti tra grandi teschi e la crocifissione di Cristo tra i ladroni sul Calvario, evocano il sacrificio del popolo messicano oppresso da un potere tirannico. Nell’epilogo, che segna la fine della classe dominante, i popolani si tolgono le maschere mortuarie e mostrano i loro volti sorridenti.
Ėjzenštejn, con Tissė, girò 160 bobine, oltre 70000 metri di pellicola per un totale di 40 ore di proiezione. Un affascinante percorso di lotte e di resistenze nella storia del Messico, dal dominio spagnolo alla Rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, ma quel film non vide mai la luce. Il regista non riuscì a girare l’episodio Soldatera, che avrebbe raccontato le gesta di un personaggio femminile durante la guerra civile messicana, e soprattutto non poté montare ¡Que viva México!.
Motivo? Più di uno. Innanzitutto i dissidi con i Sinclair e con H. Kimbrough, cognato dello scrittore e Direttore di produzione, che non gradiva la sua presunta omosessualità. La coppia “progressista” non sapeva nulla dei costi del cinema (in poco tempo le spese erano salite a 53 mila dollari, più del doppio rispetto all’accordo iniziale) ed Ėjzenštejn, con una troupe ridotta, aveva sopravvalutato l’organizzazione messicana (a Città del Messico non esisteva alcun laboratorio di sviluppo per controllare i metri di pellicola girati giornalmente) e tutto il girato veniva spedito a Los Angeles.
Ma una volta di più fu la politica a tormentare Ėjzenštejn e ad impedirgli di terminare ¡Que viva México!. Tre gli attacchi subiti dal cineasta sovietico. Il primo da Upton Sinclair che, benché fosse considerato un progressista negli Stati Uniti, chiese espressamente una pellicola “apolitica” non condividendo la lotta radicale che il progetto del film esprimeva. Il secondo attacco venne dalla censura messicana che, riferita all’episodio Maguey, sentenziò “non è il caso di insistere sull’antagonismo tra due strati della medesima collettività nazionale”. Il terzo attacco, il più violento, venne dall’URSS. Le libertà dell’artista non erano più tollerate, venne pertanto negato un finanziamento capace di terminare il film. Ma ci fu di più. Stalin in persona il 21 novembre del 1931 mandò un telegramma a Sinclair per screditare il regista: “Ėjzenštejn perse la fiducia dei suoi compagni nell’Unione Sovietica. STOP. È considerato un disertore che ha rotto con il suo Paese. STOP. Temo che le persone qui perderanno presto interesse per lui. STOP. Mi dispiace molto, ma tutte queste affermazioni sono realtà. STOP. Vi auguro benessere e la realizzazione del vostro piano per farci visita. STOP. Saluti”.
Tra l’autunno e l’inverno del 1931 i rapporti tra Ėjzenštejn e Sinclair diventarono impossibili e a metà gennaio del 1932, poco prima delle riprese di Soldatera, la lavorazione venne interrotta.
Il regista, nonostante tutto, sperava di poter montare il girato in URSS, ma Sinclair, che inizialmente aveva promesso al cineasta di inviargli le bobine, in virtù del contratto che privava il regista di ogni diritto sull’opera, non mantenne la promessa. Come se non bastasse, per finanziare la propria campagna nelle Primarie del Partito Democratico per la carica di Governatore della California, vendette gran parte della pellicola a Sol Lesser, modesto regista specializzato in film d’avventura e nella serie di Tarzan. Da quel materiale uscirono Thunder Over Mexico (Lampi sul Messico, 1933) con immagini tratte prevalentemente dall’episodio Maguey, dal prologo e dall’epilogo, e due cortometraggi dal titolo Ejzenštejn in Mexico. Nel 1939 la già citata Marie Seton riuscì a reperire 5000 metri di negativo e, unendo pezzi dei film già in circolazione, realizzò un nuovo film di circa un’ora intitolato Time in the Sun (Tempo nel sole), fatto con sicuro affetto nei confronti del regista, ma con un montaggio meramente narrativo. Lo strazi continuò. La società Bell & Howell comprò del materiale da Sinclair per trarne cinque documentari didattici, a volte riuniti nel titolo Mexican Sumphony. Ėjzenštejn commentò: “Quel che hanno fatto, come montaggio, è straziante”. Ma l’odissea di ¡Que viva México! continuò. Nel 1955 Jay Leyda, critico americano appassionato di cinema sovietico, scoprì altri negativi depositati alla cineteca del Museum of Modern Art di New York e, correttamente, scelse di non fare interventi personali, ma si limitò a collegare ottomila metri di pellicola sotto il titolo Ejzenštejn’s Mexican Film, Episodes for Study mettendo in luce il metodo di lavoro del regista. In difesa di Ėjzenštejn e del suo film messicano, nacque anche un comitato internazionale, ma il materiale girato giunse in URSS solo nel 1970, dopo essere stato per anni “custodito” nel Museum of Modern Art di New York. Da quel girato l’amico Aleksandrov, che aveva partecipato al progetto originario, realizzò Que Viva Mexico! – Da Zdravstvuyet Meksika! (1976) in cui egli stesso spiega le vicissitudini del film. La versione più conosciuta e forse più fedele dell’opera, ma non il ¡Que viva México! pensato e girato da Ėjzenštejn. Ultima annotazione: dal 2007 è in corso a Londra la digitalizzazione di tutto il materiale con possibile riedizione ad opera del regista tedesco Lutz Becker. Speriamo bene.
Ėjzenštejn, che non poté mai mettere le mani sul suo ¡Que viva México!, per molti il suo film migliore, e fu costretto a rientrare in URSS. Dopo una sosta forzata di sei settimane nella sperduta cittadina di confine messicana Nuevo Laredo (cittadina in cui decenni dopo Ed Wood ambientò il suo primo film) il 14 marzo del 1932 rientrò negli Stati Uniti. Un mese dopo si imbarcò da solo sul transatlantico Europa alla volta di Brema per poi raggiungere via terra l’Unione Sovietica. Il soggiorno all’estero, ricco di speranze e delusioni, durò due anni e nove mesi.
Durante il viaggio di ritorno Ėjzenštejn, mai pago, ci concentrò su altri soggetti. Pensò ad un film reportage sulla Russia che voleva girare durante il suo rientro a Mosca; provò a sviluppare un soggetto studiato in Germania, A Modern “Götterdämmerung” (Un moderno crepuscolo degli dei) incentrato sulla storia di due miliardari l’industriale Ivar Kreuger e il finanziere Alfred Loewenstein; scrisse la sceneggiatura di una commedia intitolata MMM per la quale contattò gli attori Maksim Štrauch e la moglie Yudif Glizer, già attivi con il regista sia teatro sia nel primo lungometraggio Sciopero!; rifletté ancora su L’Ulisse di Joyce e ipotizzò una riduzione cinematografica del romanzo “La condition humaine” (“La condizione umana”) di André Malraux.
Inoltre la già citata fascinazione di Ėjzenštejn nei confronti della cultura orientale, lo portò a maturare l’idea di un ciclo di film sulle cinque forze dello Yang e dello Ying: terra, acqua, metallo, fuoco e legno. La terra era già stata illustrata ne Il Vecchio e il nuovo; per l’acqua pensò ad un film sul condottiero uzbeko Tamerlano che tolse l’acqua al suo regno e morì in un’alluvione; per il metallo cercò di riprendere il progetto de L’oro di Sutter; non sviluppò progetti specifici su legno e fuoco, ma quel che è certo è che tutte e cinque le forze, armonizzate con l’uso del sonoro e del colore, sarebbero dovute confluire nel grandioso affresco Moskva (Mosca) che, nelle intenzioni del cineasta, doveva narrare le vicende della città nelle varie epoche. La realizzazione di questo film sarebbe coincisa anche col ritorno a teatro di Ėjzenštejn per lo spettacolo “Moskva II” (“Mosca II”) curato insieme allo sceneggiatore Nathan Zarchi, già collaboratore di Pudovkin, la cui morte prematura fece naufragare il progetto.
Ėjzenštejn considerò, infine, a più riprese, fin dal lungo soggiorno parigino, un film sulla rivoluzione haitiana intitolato Black Majesty (Sua Maestà nera) ispirato al romanzo omonimo scritto da John Vandercook, nonché ai testi “The Black Napoleon” (“Il Napoleone nero”) di Percy Waxman, “Čërnyj Konsul” (“Il console nero”) di Anatoliĭ Vinogradov e alla commedia “Der schawarze Napoleon” (“Il Napoleone nero”) di Karl Otten, tutti incentrati sulla figura leggendaria di Toussaint Louverture, l’ex schiavo che a fine Settecento sconfisse le truppe napoleoniche e liberò Haiti, allora Saint-Domingue, divenendone il primo Presidente. Ėjzenštejn pensò di affidare la parte del protagonista a Paul Robeson (Princeton, 9 aprile 1898 – Filadelfia, 23 gennaio 1976), attore e cantante afroamericano (basti pensare alle leggendarie “Missisipi” e “Ol’ Man River”) dalla vive simpatie comuniste. Ma nonostante due viaggi a Mosca di Robeson e moglie, che gli costarono caro negli USA visto che si rifiutò di aiutare gli americani imprigionati in URSS e negò l’esistenza dei Gulag, il progetto non andò in porto.
Quando Ėjzenštejn tornò Patria, in URSS molte cose erano cambiate. Stalin, il cui ritratto tiranneggiò su un’intera pagina della “Pravda” nel 1929, era ormai il padrone indiscusso dell’Unione Sovietica. Anche la cultura ne subì le conseguenze. Fu la stagione del cosiddetto “Realismo sovietico” o “Realismo socialista”, inaugurata dalla risoluzione del Comitato centrale del PCUS il 23 aprile del 1932 chiamata “Sulla ricostruzione delle organizzazioni artistico-letterarie”. Tutto doveva essere piegato alla “dottrina”. Non vi era più spazio per la libertà e la sperimentazione. La prima a farne le spese fu la letteratura. Il Partito si scagliò contro i “borghesi” che avevano reso grande la stagione delle avanguardie. Il 14 aprile del 1930 Majakovskij si suicidò con un colpo di pistola al cuore.
Stessa involuzione toccò al cinema. Nel 1930 a dirigere le nuove strutture cinematografiche sovietiche, Soyuzkino, Ankino ed infine GUKF (la Direzione Statale dell’Industria Cinematografica), fu nominato Boris Sumjackij (Ulan-Udė, 16 novembre 1886 – Mosca, 29 luglio 1938). L’uomo non aveva alcun merito o competenza cinematografica, ma era stato compagno di esilio di Stalin in Siberia. Iniziò con questa nomina l’azione tesa a screditare Ėjzenštejn. In un saggio di Sergej I. Anisimov, datato 1931, il regista veniva accusato di non saper mostrare autenticamente il proprio tempo. L’anno successivo l’Enciclopedia Sovietica lo definì “un rappresentante dell’ideologia dello strato rivoluzionario dell’intelligenza piccolo-borghese, che è pronto a seguire le orme del proletariato”. Per Stalin Ėjzenštejn era “un trotskista se non peggio”.
Aleksandrov, molto opportunisticamente, iniziò a diradare i contatti col regista e per questo fu premiato dallo stesso Sumjackij. Gli venne, infatti, proposta la realizzazione di una commedia intitolata Vesëlye rebjata (Tutto il mondo ride o Ragazzi allegri, 1934) supervisionata dallo stesso Stalin. Il film fu un successo e lanciò in URSS un nuovo genere, la commedia satirica musicale, che si sviluppò rapidamente grazie alla diffusione del sonoro. Aleksandrov divenne il maestro di questo filone cinematografico e realizzò, tra gli altri, Cirk (Il circo, 1936) una condanna del razzismo contrapposto all’amore e alla felicità e Volga Volga (1938) sullo scontro, attraverso due orchestre, tra la vecchia mentalità burocratica e la nuova iniziativa popolare. Entrambe le pellicole vennero interpretate dalla moglie Ljubov’ Orlova. Aleksandrov diresse anche alcuni lungometraggi sulla figura e sull’opera politica di Stalin, ma non lavorò più con Ėjzenštejn.
Non pago Sumjackij, che aveva negato i finanziamenti per terminare ¡Que viva México!, iniziò a bocciare tutte le idee di Ėjzenštejn, incluse quelle in avanzata preparazione, come le già citate MMM e Sua Maestà nera. Le critiche e gli attacchi si moltiplicavano anche sui quotidiani e al regista, rientrato in URSS nel 1932, non rimase che accettare il “declassamento” e tornare ad insegnare regia all’Istituto Statale di Cinematografia (VGIK). In questo periodo “Sua Maestà” scrisse importanti testi teorici, incluso un trattato, mai completato, sulla messa in scena e sulla recitazione dell’attore.
La nuova dottrina del “Realismo socialista”, nata nel Comitato centrale del PCUS e adottata dalla letteratura nel 1934, venne formalizzata nel cinema durante il XV Anniversario del cinema sovietico, evento che si tenne a Mosca dall’8 gennaio del 1935. Stalin mandò un messaggio, a parlare per il Partito fu Dinamov che criticò apertamente Ėjzenštejn per il suo formalismo e per le sue sperimentazioni. Il cneasta rispose parlando dell’evoluzione e dello stato del cinema sovietico, ma gli altri registi presero le distanze. Il grande Dovženko, ancora infatuato di Stalin, sentenziò: “I tuoi film […] sono mille volte più cari delle tue teorie. Vale più un tuo film che tutte le tue idee irrealizzate e le tue dissertazioni sulle donne polinesiane”. Non fu da meno Pudovkin: “È stata un’esposizione piuttosto nebulosa: tutt’altro che chiara”. Il solo Kulesov ebbe il coraggio di ammettere: “Caro Sergej Michajlovič! Non si brucia per troppa cultura quanto si brucia per troppa invidia”. Tre giorni dopo al Teatro Bol’šoj, Stalin assegnò l’Ordine di Lenin, massima onorificenza, ai registi sovietici. Ad Ėjzenštejn andarono solo premi di quart’ordine. Il regista non si scompose, dimostrando un’evidente superiorità, e dichiarò di desiderare più di ogni altra cosa il solo ritorno dietro la macchina da presa.
L’occasione si concretizzò quando Aleksandr Rzeseveskij (Rzheshevsky), regista e sceneggiatore che aveva già lavorato con Pudovkin, propose ad Ėjzenštejn una sua sceneggiatura appena rifiutata da Boris Barnet. Lo scritto era ispirato alla raccolta “Zapiski ohotnika” (“Memorie di un cacciatore”) di Ivan Sergeevič Turgenev, nello specifico al racconto “Bežin lug” (“Il prato di Bežin”), la storia vera di Pavlik Morozov, il ragazzo eroe che si ribellò e denunciò di “kulakismo” il padre.
Il tema della collettivizzazione delle terre era stato affrontato ne Il Vecchio e il nuovo (1929) di Ėjzenštejn, ne La terra (1930) di Dovženko ed era tornato sul grande schermo nel 1935 con Sčast’e (La felicità), film che rese famoso il regista Aleksandr Ivanovič Medvedkin, ma che irritò i vertici del PCUS… era una commedia. Il prato di Bežin venne, invece, visto come un sostegno alla collettivizzazione delle fattorie nonché utile alla costruzione di un eroe giovane. Il progetto venne pertanto approvato dal Komsomol (Unione della Gioventù Comunista Leninista di tutta l’Unione).
Il regista, che si avvalse una volta di più di attori non professionisti, per la parte del giovane protagonista, ribattezzato Stepok, fece il provino a duemila bambini. Alla fine scelse l’undicenne Viktor Kartashov, colpito dall’asimmetrica crescita dei capelli e dalla particolare pigmentazione della pelle. Le riprese iniziarono il 5 maggio del 1935 e si alternarono tra gli studi della Mosfilm di Mosca, l’Ucraina e il Caucaso. Nel settembre dello stesso anno la lavorazione subì uno stop. Il regista, infatti, si ammalò di vaiolo. Non ancora perfettamente guarito, tornò al lavoro a dicembre e si riammalò a febbraio. Il 60 per cento del riprese erano comunque effettuate, ma Sumjackij, nell’agosto del 1936, gli ordinò di riscrivere la sceneggiatura accusandolo, al solito, di formalismo, di intellettualismo e perfino di misticismo. Con la collaborazione dello scrittore Isaak Babel, non gradito agli ambienti culturali “ufficiali”, Ėjzenštejn riscrisse la sceneggiatura e ricominciò le riprese. Nel gennaio del 1937 il regista si ammalò di nuovo a sole due settimane di lavoro dalla fine delle riprese.
La storia raccontata era quella del giovane Stepok (Viktor Kartashov), pioniere di una comune agricola, che denuncia il violento padre Samokhin (Boris Zakhava), sostenitore dei kulaki, quale autore di un incendio provocato per sabotare il raccolto di grano della comunità. Il giovane lotta per le sue idee, ma alla fine viene ucciso proprio dal genitore con una fucilata.
Ma Ėjzenštejn, come già era accaduto per ¡Que viva México!, non riuscì a terminare Bežin lug. Il 17 marzo del 1937, infatti, Sumjackij ordinò la definitiva interruzione della lavorazione del film. L’accusa era quella di non affrontare la lotta di classe, ma di sviluppare una elementare e quasi biblica lotta tra il bene e il male. Due giorni dopo il regista convocò una conferenza di cineasti che, nelle intenzioni dell’interessato, avrebbe dovuto contrastare la decisione di Sumjackij, ma nessuno dei presenti prese le difese di Ėjzenštejn che, il 5 aprile, fu costretto, come d’abitudine nell’epoca staliniana, a fare “autocritica” di fronte dal Direttivo della Mosfilm.
Il materiale girato de Il prato di Bežin, costato oltre due milioni di rubli, superava le cinque ore e, considerate le numerose modifiche, del film esistevano diverse versioni. Non le vedremo mai. Pare, infatti, che un incendio nel 1942 alla Mosfilm, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, bruciò l’unica copia esistente di Bežin lug, anche se non si capisce perché la copia non venne messa al sicuro, insieme ad altre, allo scoppio della guerra. Di quell’enorme materiale, nel 1962 il regista russo Sergei Jutkevic, aiutato da Naum Kleiman, montò alcuni parti della pellicola custodite gelosamente dalla moglie di Ejzenštejn, Pera Attacheva, e diverse foto di scena. Il risultato fu un “foto film” di circa mezz’ora di film (pare esista anche una versione di 70 minuti) in cui si possono vedere, una volta di più, le doti del regista: dalle commoventi immagini del funerale della madre del protagonista, uccisa dal padre, al triste finale che vede il giovane Stepok andare incontro al padre, strappargli il fucile per poi morire tra i compagni.
Una brutta fine fece anche l’uomo che costò al regista il film e numerosi altri progetti, Boris Sumjackij. Tra l’8 e il 9 gennaio del 1938 fu destituito dall’incarico e arrestato con l’accusa di aver sabotato il cinema sovietico. Vittima di una purga staliniana fu condannato a morte il 28 giugno e fucilato il 26 luglio.
Iniziò, al contrario, una parziale riabilitazione di Ėjzenštejn. Se Lazar Moiseevič Kaganovič sentenziò: “Non ci possiamo fidare di Ėjzenštejn. Ha nuovamente buttato al vento milioni di rubli senza darci nulla […] perché è contro il socialismo”, il regista fu difeso da Molotov e Ždanov. Il drammaturgo Vsevolod Višnevskij ammise che in Messico e in URSS “erano stati commessi veri e propri crimini” e ipotizzò col cineasta due pellicole, purtroppo, mai realizzate: una sulla guerra civile spagnola, l’altra sull’organizzazione dell’Armata Rossa nel 1917, tratta da un’opera dello stesso scrittore intitolata “My – ruskij narod” (“Noi, popolo russo”).
Ma fu soprattutto fu Stalin, ben conscio del talento di Ėjzenštejn, a difenderlo e a dargli un’altra possibilità. Al crescere delle tensioni con la Germania nazista e con la volontà promuovere il culto della sua personalità, infatti, il capo dell’URSS nel gennaio del 1938 commissionò ad Ėjzenštejn la realizzazione di un film biografico su un condottiero russo capace nel Tredicesimo secolo di sconfiggere gli invasori teutonici, Aleksandr Nevskij.
Ėjzenštejn iniziò a lavorare sul nuovo progetto con una troupe sostanzialmente nuova, il solo Tissė, che aveva nel frattempo curato la fotografia di Aerograd (1935) diretto Dovženko, era rimasto al suo fianco. Per la prima volta si trovò a dirigere attori professionisti. Stalin, infatti, pretese che il ruolo del protagonista fosse interpretato da Nikolaj Konstantinovič Čerkasov (San Pietroburgo, 27 luglio 1903 – Mosca, 14 settembre 1966). Il motivo? Semplice: l’attore era deputato del Soviet Supremo e poteva quindi “controllare” il regista. Ma Čerkasov era anche un grande interprete, allievo di Stanislavskij era stato ballerino, attore sul palcoscenico e sul grande schermo. Da segnalare Deputat Baltiki (Il deputato del Baltico, 1937) di Aleksandr G. Zarchi e Iosif E. Cheifjc e Pëtr Pervyj (Pietro I, la prima parte uscita nel 1937, la seconda nel 1939), monumentale film di Vladimir M. Petrov. Senza dubbio l’attore più talentuoso della sua epoca in Unione Sovietica.
Per Aleksandr Nevskij il regista con la solita meticolosità studiò e ricostruì un’epoca attraverso bozzetti, da egli stesso preparati, che riguardavano i costumi, le armature, gli ornamenti. Ricreò, nel torrido luglio del 1938, la battaglia avvenuta il 4 aprile 1242 sul ghiacciato lago Peipus utilizzando zattere pneumatiche e ghiaccio artificiale. Quella scena, come ricordò Tissė venne girata “alla velocità di otto-dodici fotogrammi al secondo, anziché ventiquattro, per sottolineare il particolare ritmo drammatico della battaglia”.
Con la nuova opera Ėjzenštejn si cimentò per la prima volta il sonoro (il primo film sonoro in URSS fu Putyovka v zhizn, Il cammino verso la felicità, diretto Nicolaj Ekk nel 1931). Ma i dialoghi approvati dal Partito erano falsi e propagandistici, quindi Ėjzenštejn decise di arricchire il film con della musica, perfetta come contrappunto alle immagini. Quelle note furono appositamente e magnificamente scritte da Sergej Sergeevič Prokof’ev (Soncovka, 23 aprile 1891 – Mosca, 5 marzo 1953) straordinario compositore, accusato come il regista, di formalismo. I due geni fecero inevitabilmente amicizia.
Ėjzenštejn in merito alla lavorazione del film dichiarò: “Ero profondamente consapevole di fare un film, che era per prima cosa, e soprattutto, contemporaneo: era sorprendente la somiglianza tra gli avvenimenti descritti nella cronaca e nelle narrazioni epiche e gli avvenimenti dei nostri giorni. Nella sostanza, se non nella forma, gli avvenimenti del Tredicesimo sono emotivamente vicini ai nostri. E, in questo caso particolare, anche nella forma. Non dimenticherò mai il giorno in cui, avendo letto in un giornale della feroce distruzione di Guernica da parte dei fascisti, consultai documenti storici e trovai una descrizione della conquista di Gersik da parte dei crociati”.
Concluso cinque mesi prima del termine fissato, Aleksandr Nevskij venne presentato per la prima volta in pubblico a Mosca il 23 novembre del 1938, a quasi dieci anni dell’ultimo film del regista (Staroye i novoye era uscito nel 1929).
Nel 1242 i cavalieri dell’ordine teutonico invadono da Ovest la Russia sconvolta dalle incursioni e dalle devastazioni mongole. Il Principe Aleksandr Nevskij (Nikolaj Čerkasov) viene chiamato dal popolo a organizzare l’esercito che dovrà sconfiggere i germanici. E mentre due soldati russi Vasilij Buslaj (Nikolaj Ochlopkov) e Gavrilo Oleksich (Andrej L’vovič Abrikosov) si contendono il cuore della bella Olga Danilovna (Vera Ivašova), il condottiero riesce ad unire il popolo di Nogodorov e di altre città ai contadini poveri delle campagne, per sconfiggere in un’epica battaglia il nemico straniero sul Peipus, il lago ghiacciato che crolla sotto il peso delle armature dei teutonici.
Benché Ėjzenštejn lo considerasse il suo film più superficiale e meno personale, o forse proprio per questo, Aleksandr Nevskij fu il più grande successo di pubblico del regista che riuscì a tratteggiare non solo il profilo dell’eroe, ma anche quello di un intero popolo in cui il Principe non è semplicemente il sovrano, ma parte omogenea… e poco importa se la storia non andò proprio così. Impressionante la scena della battaglia sul ghiaccio, ben 37 minuti di film, in cui il confronto tra i due eserciti (bianchi e ordinati i teutonici, neri e disordinati i russi, capovolgendo gli attributi classici di bene e male) diventa un confronto astratto di masse, volumi e linee.
Aleksandr Nevskij fu la pellicola che riabilitò Ėjzenštejn agli occhi di Stalin, evitandone il definitivo isolamento, e, proprio per questo, il regista si aggiudicò nel febbraio del 1939 l’Ordine di Lenin e il Premio Stalin.
Ėjzenštejn ipotizzò quindi nuovi soggetti. Scrisse con Aleksandr Fadeev Perekop che avrebbe ricostruito l’inseguimento condotto da Fruenze nel 1920 per attaccare le “guardie bianche” del Barone Wrangel; riprese il già ipotizzato film sul condottiero uzbeko Tamerlano che perfezionò con lo scrittore Pyotr Pavlenko per farlo diventare un affresco sulla storia dell’Asia centrale chiamato Bol’soj ferganskij kanal (Il grande canale di Fergana). La musica fu nuovamente affidata a Prokof’ev. Vennero fatti sopralluoghi ed effettuate alcune riprese, ma il progetto fu abbandonato definitivamente. Le immagini girate vennero inserite in un documentario proiettato il giorno dell’apertura del canale avvenuta nel settembre del 1939.
Poche settimane prima era stato siglato il famigerato Patto Molotov-Ribbentrop, il trattato di non aggressione fra il Reich e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Anche il cinema ne subì le conseguente: Aleksandr Nevskij venne ritirato e ne fu proibita la proiezione.
Successivamente Ėjzenštejn lavorò ad un film sul poeta Aleksandr Sergeevič Puškin, per il quale pensava, come rilevano alcune annotazioni del marzo del 1940, ad un uso sperimentale del colore che evitasse l’intero spettro per limitarsi ad alcuni colori, scelti in base alle necessità espressive. Quindi abozzò la sceneggiatura Delo Bejlisa (L’affare Bejlis), tratta dall’omonimo testo teatrale di L. R. Šejnin, incentrata sul processo giudiziario a Menahem Mendel Beilis, accusato di omicidio, che scatenò nella Russia imperiale una violenta ondata di antisemitismo.
Il 21 novembre del 1940 Ėjzenštejn tornò a teatro, portando sul palcoscenico “Die Walküre” (“La Valchiria”) la seconda parte di “Der Ring des Nibelungen” (“L’anello del Nibelungo”) di Richard Wagner. Ma un altro tedesco stava per impegnare l’URSS. Hitler, infatti, non mantenne il “Patto” e, nell’estate del 1941, attaccò l’Unione Sovietica. Aleksandr Nevskij, dopo diciotto mesi di oblio, tornò nelle sale con maggiore vigore rispetto a prima, diventando un autentico manifesto antinazista.
redazionale
Bibliografia
“Il cinema russo e sovietico” di Giovanni Buttafava – Biblioteca di B&N
“Storie dell’altro cinema” di Ugo Casiraghi – Lindau
“Sergej M. Ėjzenštejn” di Aldo Grasso – Castoro
“Memorie” di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn – SE
“Sergej M. Ėjzenštejn. La corazzata Potëmkin” di Maurizio Del Ministro – Lindau
“Gli uomini di Stalin” di Simon Sebag Montefiore – Rizzoli
“Dizionario del comunismo del XX secolo” a cura di Silvio Pons e Robert Service – Einaudi
“Guida al film” a cura di Guido Aristarco – Frabbri Editori
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza, foto 4, 5 Screenshot del film Dillinger è morto, foto 1 da it.wikipedia.com, foto 2 Screenshot del film Una storia moderna – L’ape regina, foto 3 da gettyimages.com.