«Mi è arrivata un’altra richiesta di processo perché ad agosto ho bloccato lo sbarco di clandestini dalla nave di una ong spagnola. Ormai le provano tutte per fermare me e impaurire voi»: il leader della Lega, Matteo Salvini, ieri ha dato la comunicazione via social della nuova inchiesta che lo vede coinvolto, come da copione messo a punto con i comunicatori della sua macchina social, la Bestia. «Rischio un ulteriore processo per aver difeso i confini italiani? L’ho fatto, lo rifarei e lo rifarò, non ho paura di niente e di nessuno» ha tuonato gonfiando i muscoli. Il procedimento riguarda l’Open Arms e, più dei casi Diciotti e Gregoretti, svela la gravità degli atti messi in opera quando era al Viminale: per le giudici infatti non si può vietare l’ingresso a una nave civile che ha compiuto un dovere, il soccorso in mare di naufraghi.
Il tribunale dei ministri di Palermo ha chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere per l’ex ministro Salvini, accusato di sequestro di persona e omissione d’atti d’ufficio in concorso. Reati commessi dal 14 al 20 agosto 2019 per aver privato della libertà personale 164 migranti a bordo della ong catalana. Il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, a novembre aveva condiviso le ipotesi di reato con le quali il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, gli aveva inviato il fascicolo sul caso Open Arms. Il Tribunale dei ministri ha condiviso le loro tesi accusatorie: secondo le tre giudici Caterina Greco, Lucia Fontana e Maria Cirrincione il decreto Sicurezza non può essere applicato a navi che soccorrono persone in difficoltà perché «il soccorso in mare è obbligatorio» così come c’è sempre l’obbligo da parte degli stati «di indicare il pos, cioè un porto sicuro». E ancora: «Non è stato un atto politico ma un atto amministrativo» deciso individualmente da Salvini, quindi non «condiviso» con gli altri esponenti del governo. I naufraghi erano stati salvati al largo della Libia, il primo agosto il Viminale firmò il divieto di ingresso nelle acque territoriali, atto poi siglato anche dai ministri 5S di Infrastrutture e Difesa del tempo, Toninelli e Trenta. L’ong fece ricorso al Tar del Lazio che il 14 agosto dispose l’ingresso nei confini. Il Viminale firmò un secondo divieto ma Toninelli e Trenta, per la prima volta, si rifiutarono di sottoscriverlo. Così per una settimana la nave rimase alla fonda a un miglio da Lampedusa, soffrendo anche il mare in tempesta, perché il ministro dell’Interno continuava a porre il veto allo sbarco.
In totale furono 19 i giorni passati sul ponte dell’Open Arms: i migranti, disperati, provarono persino a buttarsi in mare per raggiungere l’isola. Per sbloccare la situazione Patronaggio arrivò in elicottero a Lampedusa, salì a bordo per un’ispezione con medici e psichiatri, quindi dispose il sequestro facendo sbarcare naufraghi ed equipaggio. Nella sua ordinanza imputò al Viminale un atteggiamento «volutamente omissivo a danno dei migranti». Nel registro degli indagati finì anche il capo di gabinetto di Salvini, Matteo Piantedosi, perché al vertice della catena di comando. Dieci giorni dopo toccò al gip di Agrigento, che scrisse: le persone hanno subito una «illecita e consapevole privazione della libertà personale. Erano presenti a bordo un centinaio di naufraghi con gravi rischi per la loro incolumità, per la loro salute fisica e psichica». Lo stesso gip dissequestrò la nave perché «non sussistono esigenze probatorie e all’equipaggio non viene ascritta alcuna responsabilità».
Secondo il tribunale dei ministri, Salvini ha «scientemente ignorato l’emergenza sanitaria mettendo veti alle autorità locali», non c’era poi alcun indizio che l’approdo potesse rappresentare un pericolo per l’ordine e la sicurezza, condizioni a cui il decreto Sicurezza bis subordina il divieto di sbarco. Inoltre aveva bloccato sulla nave anche i minori «nonostante un provvedimento del Tribunale» e «ignorato il Tar del Lazio con interpretazioni giuridiche» non valide. Il 12 febbraio il Senato deciderà se autorizzare il processo a Salvini sul caso Gregoretti. Per la Diciotti invocò l’aiuto dei colleghi di governo di allora. Questa volta fa il martire: «Chiederò di andare a processo».
ADRIANA POLLICE
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