«Il bastardo non vale un minuto del mio tempo». Manuel Contreras era stato il capo della Dina, la Gestapo cilena, era stato l’uomo che l’aveva fatto gettare in cella e consegnato ai torturatori. Ed era finalmente morto, a 86 anni, con un’immonda quantità di omicidi e una modica quantità di condanne sulle spalle. Ma c’era il sole, la griglia bollente, la birra gelata, e su tutto incombeva un appetito cileno. «Vaffanculo anche Contreras». Niente pezzo, niente intervista. In sottofondo, rumore di bistecca che cominciava a sfrigolare. Era l’agosto del 2015.
Luis Sepúlveda era questo, un cantastorie da combattimento, e le battaglie erano tante, quelle vecchie, quelle nuove e soprattutto le prossime: perché agitarsi per un vecchio macellaio carico d’anni e di peccati? La Storia gli era già passata sopra, asfaltando la strada di un nuovo Cile solo poco meno esecrabile di quello vecchio. Quel vecchio Cile che aveva assorbito, travolto e infine lanciato nel mondo il nipotino di un anarchico andaluso che per scampare alla garrota si era rifugiato a Valparaiso. Nonno Gerardo è stato l’inizio di una traiettoria convulsa, complicata e bellissima fatta di viaggi, libri e fucilate. Un’avventura di mille protagonisti e di uno solo: Luis Sepúlveda stesso. Il suo personaggio migliore.
L’avventura si è fermata ieri, in Spagna. Il Covid-19 ci ha messo oltre 50 giorni a ucciderlo. Se l’era preso in Portogallo, a un festival letterario. Alla clinica di Guijon perdono due giorni prima di fargli la lastra che spaventa i medici: ambulanza fino a Oviedo, ricovero, isolamento, tampone. Il 29 febbraio Luis entra sulle sue gambe nell’Hospital central universitario de Asturias. Non ne uscirà vivo. Ad aiutare il virus, una polmonite sofferta l’anno prima a Pordenone – altro festival letterario – e poi 70 anni compiuti, molti chilometri percorsi, moltissime sigarette. Ieri mattina, quando ha chiuso gli occhi, il Covid-19 non era più nel suo corpo. Negativo al test. Ma il danno era stato fatto.
Sebbene autore da milioni di copie (oltre 9 milioni solo in Italia), su Luis Sepúlveda non esistono saggi, quindi nemmeno biografie più attendibili dei suoi stessi racconti. La vita del cileno errante era iniziata nel ’49 a Ovalle, nel centro-nord del Cile. Al nonno anarchico si contrapponeva il padre comunista, l’uno inseguito dai franchisti e l’altro dal suocero possidente che per sua figlia voleva di meglio dello squattrinato gagliego che se l’era presa.
Tutto inutile: Luis senior e Irma Calfucura hanno un bambino, Luis Sepúlveda Calfucura, mezzo spagnolo e mezzo indio mapuche, allevato dal nonno e dallo zio – anarchico incallito pure lui – con un’accorta miscela di Salgari, Melville, Cervantes e regolari pisciate notturne sui gradini della chiesa del quartiere. Precoce autore di poesie sul giornalino della scuola e di favolosi racconti erotici venduti ai compagni, a vent’anni vince il premio Casa de Las Americas per il suo primo libro, i racconti Cronicas de Pedro Nadie, e una borsa di studio quinquennale per l’università Lomonosov di Mosca, quello della nomenklatura.
A Mosca viene espulso quasi subito (dissidenza? flirt con la moglie di un docente?), così come dalla dogmatica Gioventù comunista cilena. E così entra nel Partito socialista cileno: con il golpe del ’73, quelli del «Gruppo Amici del Presidente» che non morirono nella Moneda bombardata da Pinochet saranno arrestati e così Luis, che racconterà della cella minuscola e delle unghie strappate, del secondo arresto e dei due anni e mezzo di carcere fino all’esilio ottenuto da Amnesty International. Esce dal Cile su un aereo diretto in Svezia, ma al primo scalo – a Buenos Aires – se la squaglia.
I successivi dieci anni sono quelli di un avventuriero di sinistra, sempre sconfitto ma mai vinto (con un’eccezione: il Nicaragua), che campa con il giornalismo e pratica la letteratura. Dall’Argentina va in Brasile e poi in Paraguay, mentre un paese dopo l’altro l’America latina soffoca nelle spire del Plan Condor e dei colpi di stato di destra. A Quito, in Ecuador, si unisce a una spedizione dell’Unesco presso gli indios suhar, quei mesi nell’Amazzonia ecuadoriana saranno alla base del primo vero grande libro, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore.
Nel 1978 si unisce alle Brigate internazionali Simon Bolivar in Nicaragua: «Iniziammo in mille e pochi mesi dopo eravamo la metà», racconterà. È una vittoria, la sola: i sandinisti entrano a Managua e lui si trasferisce in Europa, a Amburgo, dove conosce Greenpeace e per cinque anni farà parte di un equipaggio. Finché nel 1989 Il vecchio che leggeva romanzi d’amore viene pubblicato (in Italia nel 1993) e fa di lui uno scrittore.
A fine anni 80 potrebbe tornare in Cile ma è un tentativo che fallisce rapidamente. Gira l’Europa in camper e si ferma a Guijon, nelle Asturie: Spagna del nord, modernismo su piccola scala, una Barcellona gracile con un clima atroce diviso tra pioggerellina, pioggia e forte pioggia. Eppure. Il giramondo si ferma a Guijon, si sposa di nuovo con la stessa donna che aveva sposato in Cile, la poetessa Carmen Yanez, e finalmente scrive e basta. Nel 1997 arriva al manifesto. «Voglio essere quello che era Soriano, vi interessa?». Osvaldo Soriano era morto da qualche mese e questo cileno da battaglia voleva raccoglierne il testimone. Aveva pubblicato da poco la Storia della gabbianella, era appena uscito il Diario di un killer sentimentale. Ci interessava eccome.
ROBERTO ZANINI
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