Queste considerazioni sono dedicate a Mimmo Lucano, sindaco di Riace.
Antonio Gramsci è, tra i comunisti, quello che probabilmente ha pagato il prezzo più alto per la sua dedizione all’idea e alla causa che voleva e vuole trasformare la società nel suo esatto opposto. Eppure, nei suoi scritti, nonostante la deprivazione della libertà messa in essere dal fascismo sin dagli inizi della scalata al potere, Gramsci si dice convinto che non sia utile, necessario e possibile rinunciare a quei brandelli di agibilità dell’azione singola che comunque rimangono tra le pieghe di un regime che soffoca ogni atto che sia di critica, di opposizione, di polemica e scontro con il sistema politico instaurato grazie al favore della borghesia italiana per arginare il “pericolo rosso”.
Non è un concetto trascurabile, perché significa non abbandonare mai qualunque possibilità rimanga di intervenire, di dire la propria, anche soltanto di muoversi in uno spazio sempre più angusto ma, per l’appunto, muoversi.
Anche nell’immobilità ci può essere “agitazione” e “pensiero” e, quindi, ci può essere azione.
Dal carcere Gramsci lo ha dimostrato compilando quei “Quaderni” che sono un capolavoro di analisi politica, sociale, filosofica e, genericamente, culturale.
Gramsci non è Ghandi, ma vi somiglia molto in questi aspetti di vita reclusa, di imprigionamento, di accuse false costruite per “impedire per almeno vent’anni a quel cervello” di ragionare.
La paura più grande dei regimi risiede nella critica che può essere esercitata nei confronti della palese (o almeno dovrebbe essere tale) inumanità che esprimono perché limitano la libertà generale nel comprimere quella di ciascuno di noi.
Così avviene oggi in questa Italia dove, giorno per giorno, la costituzionale posizione di un cittadino è alla mercè di un governo che parla di “popolo”, di “avvocato del popolo”, di “manovra economica del popolo” e che lavora per portare avanti politiche che limitano i diritti sociali e civili.
Tutto si basa sulla “percezione”, quindi sulla falsa attribuzione ad un fenomeno di un portamento di effetti dettati da cause pressoché inesistenti: venti migranti seduti tra i giardini a bere birre diventano il fenomeno (in quanto evento visibilmente constatabile) di una paura generalizzata, creata attraverso lo spauracchio dell'”invasione” salvo poi plaudersi addosso per la riduzione degli sbarchi con una politica repressiva e inumana che relega i fuggitivi in mare aperto per giorni oppure addirittura nei porti italiani stessi.
Ed anche per la situazione lavorativa ci si basa sulla “percezione”: i dati dell’ISTAT dimostrano che l’occupazione non è in ripresa, che la precarietà rimane ancora la cifra costante di una stabilizzazione del mercato in tal senso, eppure il governo vorrebbe farci credere che con la “manovra del popolo” sarà “abolita la povertà”.
Questa affermazione è così incredibile da risultare risibile se non fosse drammatico averla udita pronunciare da un esponente dell’esecutivo: non si può nel capitalismo abolire la povertà perché essa è strutturale, è una conseguenza logica (in quanto matematicamente certa, economicamente sicura) dell’arricchimento degli sfruttatori di mano d’opera e di intelletto tramite l’occupazione lavorativa.
Nel capitalismo dire di aver abolito la povertà non è solo una menzogna, ma forse di più è una voluta ignoranza del funzionamento del sistema. Utile propagandisticamente, ma è davvero altisonante, rindondante, sbruffonesco per risultare credibile anche al più sprovveduto dei proletari moderni.
Scrive Gramsci: “Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico e quello ideologico. La lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il controllo operaio sulla produzione; di lotta per l’eliminazione del capitalismo attraverso la socializzazione.“.
Di pari passo va la lotta politica, in tre fasi anche essa. Gramsci sembra parlare al nostro oggi, al quotidiano che viviamo quando scrive: “Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell’umanità: ma ciò deve essere domandato ai membri del Partito.“.
Dunque, se anche oggi i lavoratori e gli sfruttati non hanno coscienza del loro stato di sfruttati e del livello, quindi, di sfruttamento che subiscono, dobbiamo essere noi comunisti (che in quanto tali dovremmo avere coscienza del processo di sviluppo classista nel cammino umano) ad essere i primi in questa fase di resistenza sociale, politica e civile a rappresentare l’alternativa di cui ci può accorgere, rimanere pertanto un punto di riferimento stabile, imperturbabile nonostante tutti i tentativi di ridurci – come molto bene è stato fatto in questi anni – a parte omologata di un sistema dal quale ci siamo sempre separati con grande orgoglio, affermando che noi eravamo “diversi” da tutti gli altri partiti borghesi, tanto di centro quanto di sinistra.
Per questo la ricostruzione della sinistra di alternativa non può che avvenire su fondamenta di distinzione, su elementi caratterizzanti per una netta separazione dal resto delle forze politiche che manifestano a Roma affermando d’essere di sinistra e che invece sono comprimarie tanto quanto altre destre nell’aver proceduto alla scomparsa della vera sinistra rivoluzionaria e di alternativa.
Le parole spaventano quando la realtà non la si comprende se non attraverso gli occhi e le orecchie delle compromissioni politiche: per questo magari leggere qui termini come “proletariato”, “borghesia” e “rivoluzione” (accipicchia!) sarà giudicato quanto meno anacronistico e nel peggiore dei casi “infantilismo politico”. Sia pure. Non importa.
Ciò che conta non sono i giudizi di chi ha abbandonato il progressismo della sinistra italiana per dedicarsi al governismo a tutto tondo come soluzione dei problemi del Paese e, nello specifico, di quelli dei lavoratori e degli sfruttati.
Perché si potranno anche risolvere singole problematiche attraverso la presenza in Parlamento, che è necessaria e fondante per la ricostituzione di una forza comunista in Italia, ma tutto ciò rimarrà un atto interno al sistema se non si punta a superare il sistema stesso, se ci si è ancora una volta piegati all’ideologia della permanenza del mercato come società imperitura, incontrovertibile, solo leggermente accomodabile per i proletari moderni.
Il consenso enorme che oggi ha questo governo non lo si scalfirà con patti e chiamate alla formazione di un “fronte democratico” di salvezza nazionale dove sarà egemonica l’ideologia liberista temperata da qualche cenno di politica sociale.
Il consenso enorme che oggi ha questo governo muterà se cambieranno i rapporti di forza sociali interni alla nazione e al convincimento di essere nel pieno della propria espressione di “vita” grazie alla repressione contro il “diverso” si sostituirà la coscienza di appartenere ad una medesima classe sociale.
La mutazione sociale dell’Italia di oggi è frutto di tante percezioni, quindi di tanti errori di valutazione: ritenere che forze politiche di destra fossero di sinistra; pensare che la rivoluzione contro le caste governative (non contro le classi dominanti) passasse attraverso la fiducia ad un movimento interclassista; affidarsi alla facile propaganda di chi risolve i problemi eliminando non le cause ma gli effetti.
A monte di ciò sta una profonda disaffezione per la partecipazione alla vita sociale del Paese: dalla vita culturale a quella sindacale, da quella partitica e politica a quella lavorativa che diventa sempre più parcellizzata e quindi impedisce agli sfruttati di legarsi attraverso rapporti di scambio delle differenti esperienze.
La divisione regna sovrana, in ogni settore. Siamo individualisticamente separati e quindi la parola “unità” può valere per ogni contesto, può essere usata, abusata e interpretata fuori dai suoi significati più nobili e giusti.
Viviamo nel dilemma: “Ricostruire prima il Partito o prima la base sociale e politica del Partito?”. Disgraziatamente sono elementi necessari l’uno all’altro: è però del tutto evidente che senza un principio coscienzioso, senza i comunisti non può esserci nessuna riorganizzazione delle coscienze sociali e individuali al contempo.
Per questo dobbiamo ricostruire Rifondazione Comunista e farne un campo vasto di elaborazione culturale per mettere le basi che ci consentano di avere le condizioni di analisi profonda, di studio e di critica di un sistema che viene difeso con la banalità del male: per battere le argomentazioni delle destre, del governo e delle opposizioni di destra al governo, dobbiamo essere in grado di replicare sapendo cosa vogliamo, a cosa aspiriamo e quindi dobbiamo avere una conoscenza non superficiale di ogni argomento che intendiamo trattare.
La funzione pedagogico-sociale che i comunisti devono ridarsi – in cui personalmente credo – deve essere un fondamento della “rifondazione comunista” come proposta moderna di una alternativa di società che si sviluppi guardando il mondo con occhi differenti rispetto a quelli dell’edonismo borghese per la bella vita, per il rampantismo a scapito di chi rimane indietro, per il successo come chiave risolutrice dell’esistenza.
Il successo o è sociale o, altrimenti, è solo espressione del privilegio di classe.
Rifugiarsi nel mutualismo per riconsegnare al comunismo il ruolo di movimento reale che deve avere è fare mera assistenza sociale, non è costruire coscienza.
Unire il mutualismo ad una organizzazione politica strutturabile, centralizzata e non caratterizzata dall’improvvisazione permanente, può essere una chiave di volta che apra nuovi percorsi.
L’Italia dell’ottobre 2018 scivola su pericolose inclinazioni autoritarie. Possono ancora essere arginate. Ma dobbiamo essere all’altezza del compito: combattere il vuoto della banalità populista, razzista e xenofoba con il pieno cosciente di cosa siamo, di quanto ci sfruttano, di come ci combattono.
MARCO SFERINI
3 ottobre 2018
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