Pubblicato sotto il titolo “Destra e Sinistra senza cultura” l’articolo di Roberto Esposito, apparso su Repubblica il 19 giugno, contiene argomentazioni che sicuramente centrano il dato più saliente della drammatica situazione italiana.
L’analisi di Esposito, infatti, riguarda “la simultanea mancanza di una vera cultura di destra e di un’autentica cultura di sinistra”, ed è a questa carenza che va fatta ascrivere – secondo la (condivisibile) opinione dell’autore – il degrado che sta avviluppando il nostro sistema politico e del quale è sicuramente indicativa la dichiarazione del Ministro dell’Interno sulla “anagrafe dei rom”: certo il punto più basso, proprio sul piano culturale, toccato in questi anni.
Pur tuttavia è necessario riprendere un punto dell’analisi sviluppato dal filosofo della Normale per un’opportuna precisazione.
Nell’articolo si legge: “Quanto alla sinistra l’impasse che la condanna all’immobilismo nasce al contrario dalla presenza, nei decenni passati, dal più forte partito comunista europeo, ma impossibilitato a farsi forza di governo in Italia. Oltre che alla diaspora di un partito socialista, travolto nel momento in cui cominciava a guadagnare autonomia, dall’esplosione di Tangentopoli”.
La questione della “presenza comunista” in Italia, prima ancora sul piano culturale che su quello politico, proprio come viene citata nell’occasione, può essere ripresa proprio in questo momento.
Emerge, infatti, la necessità di costruire una coerente prospettiva di ricostituzione di una cultura politica democratica quale presupposto necessario e preliminare per impostare una possibilità di presenza per una coerente opposizione all’ulteriore, pericolosa, svolta a destra in atto.
Non si può però partire dal presupposto indicato da Esposito, nel cercare di sviluppare un’operazione intellettuale rivolta nella direzione indicata analizzando il lascito delle culture politiche che hanno fatto la Costituzione e il sistema politico italiano.
Il presupposto cioè che tutto derivi dall’impossibilità del PCI a farsi forza di governo e quindi dalla sua mancata “socialdemocratizzazione” quale punto d’arrivo dell’incompletezza della democrazia italiana e del suo ulteriore sviluppo, almeno dal 1976 in avanti, nel consociativismo.
La situazione di allora la ricordiamo tutti naturalmente come derivante dalla “conventio ad excludendum” frutto della logica dei blocchi.
Non ci si può però fermare a quel punto, anche sviluppando un’analisi riferita all’attualità.
E’ necessario, invece, tener conto del dato fondamentale: il peso che ha avuto, nel cancellare dall’identità della cultura politica della sinistra italiana, l’aver marginalizzato l’elemento fondamentale che la presenza del PCI rappresentava all’interno del sistema politico italiano a partire dall’operato dell’Assemblea Costituente.
La cancellazione del PCI avvenne in maniera assolutamente frettolosa e senza che si provvedesse (com’era necessario) ad alcuna ricerca sul piano teorico e della cultura politica.
La parte del gruppo dirigente che aveva proposto la liquidazione del partito intendeva, invece, avere semplicemente le mani libere sul piano delle dinamiche politiche correnti (un intendimento in allora riassunto con lo slogan “sblocco del sistema politico” che portò anche all’insensata adesione al sistema elettorale maggioritario).
Prima ancora che il tema governo/non governo (del resto, a un certo punto in precedenza ai fatti appena citati declinato malamente con la teoria del “compromesso storico”) deve essere affrontata la questione di ciò che il PCI ha rappresentato, nella cultura del ‘900.
Si tratta della questione dell’originalità e dell’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della forma-partito assunta dal comunismo nel nostro Paese, come soggetto nazionale rappresentativo del movimento operaio e del suo sistema di alleanze in un quadro di costituzione del “blocco storico”.
Operazione di “autonomia teorica” che fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere”, pubblicazione avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.
Quell’operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difendeva, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste senza provocare “lacerazioni troppo nette”.
Non ritorno nel merito dell’analisi relativa alla natura del PCI che derivò da quelle scelte: analisi che è già stata compiuta in molteplici occasioni.
Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale.
In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali.
Per alcuni motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico (assioma che trovò però difficoltà nella sua applicazione politicamente concreta sia nel ’56 sia nel ’68, causando squilibri nella dinamica dei rapporti interni fino ad arrivare a elementi di vera e propria rottura), primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI ha fornito un contributo decisivo all’insieme dell’originalità delle espressioni di cultura politica nel corso del ‘900 italiano.
Vale allora la pena di capire meglio perchè, a distanza di tanti anni, sia ancora il caso di ragionare sul declino di quella forma politica in una dimensione diversa da quella richiamata nell’occasione da Esposito.
Intendendo quest’analisi come paradigmatica di un declino complessivo di sistema e senza dimenticarne le intime contraddizioni.
Dall’inizio degli anni’80 l’emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell’elaborazione che nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi.
Cominciava, in sostanza, a far breccia fin da allora anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice.
Offensiva neo – conservatrice che proprio in quegli anni’80, favorita del precipitare della crisi del sistema post – rivoluzionario in tutto l’Est europeo come dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l’insegna del reaganian – tachterismo), e nei paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest.
Andò così maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale e ideale.
Lo scioglimento del PCI rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo: i suoi eredi, mutate diverse denominazioni da PDS, a DS e PD e collegandosi con alcuni dei residui del vecchio apparato del partito cattolico, hanno accettato “in toto” i meccanismi fondamentali di quell’eterna “transizione italiana” apertasi proprio con lo scioglimento del partito, dal maggioritario, al personalismo populistico (oggi giunto al massimo dell’accezione possibile dopo che nel PD stesso è stata aperta una breccia di considerevoli dimensioni), all’accettazione delle formule liberiste che sono state e stanno all’origine della grande crisi che stiamo vivendo.
E’ rimasta così soffocato l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato.
Si tratta di un punto di riflessione da sviluppare ancora adesso proprio al fine di poter riprendere un discorso che non risulti, come sta avvenendo alla fine in maniera del tutto riduttiva.
Non ci si può limitare al tema della “conventio ad excludendum”.
Un tema di riflessione quello dello scioglimento del PCI che, nonostante il passare degli anni, il tempo non ingiallisce e che rimane un punto ineludibile da affrontare quando ci si accorge del deficit complessivo che sul piano culturale affligge l’intero sistema politico italiano.
Nella crisi complessiva del rapporto politica/cultura in Italia, e in Occidente, manca la capacità di aggregazione sociale, acculturazione di massa, pedagogia politica che il movimento comunista ha saputo storicamente esprimere: un elemento non certo riducibile al mancato approdo al governo del Paese, che pure ha rappresentato un elemento di non indifferente stortura nella vicenda politica italiana del secondo ‘900.
FRANCO ASTENGO
20 giugno 2018
foto tratta da Pixabay