Filippo e Giulia. Le cronache a tinte sempre più nere, che parlano della storia dei due ex fidanzati allontanatisi dai dintorni di Padova e resisi irreperibili da una settimana, lasciano presagire che il finale di questa vicenda non sarà lieto. Lungi dal voler fare le civette del malaugurio (con tante scuse al povero uccello notturno a cui viene sempre associata la cattiva sorte, mentre ci si scorda che è anche simbolo di saggezza…), i presupposti per parlare di un ennesimo episodio di femminicidio, salvo clamorose svolte positive dell’ultim’ora che tutti ci auguriamo, ci sono tutti.
Ciò che nella storia dei due ragazzi colpisce in particolare è un tipo di relazione che si fondava certamente su sentimenti reciproci, condivisi, ma pure su un legame possessivo, intriso di gelosia e dominazione da parte dell’uomo nei confronti della donna.
Prescindendo per un attimo dalla storia in questione, quello che qui interessa analizzare è esattamente questo aspetto: accanto alla felicità può trovarsi anche l’inquietudine per una relazione in cui c’è chi subisce e chi fa subire, chi detta le sue condizioni e chi le deve recepire senza obiettare.
Pena, il far saltare quel rapporto che la ragazza intendeva in qualche modo preservare, assolutamente in buona fede con una minimizzazione di comportamenti anomali o addirittura già predestinati ad essere l’anticamera dell’esercizio di una potestas che rende irriconoscibile chi si era amato pienamente fino a due secondi prima.
Ci si vuole proteggere un poco da sé stessi anche psicologicamente, non solo fisicamente. Ci si vuole dire che non era tutto un inganno, che in quella persona che si amava, in fondo, qualche qualità, qualcosa di buono la si era intravista ed era proprio quello che, magari inizialmente, aveva fatto nascere una simpatia poi divenuta amore.
Se si vuole davvero bene ad una persona e la si vive come complemento di sé stessi, si fa poi fatica a vedere nell’altro qualcuno di così differente, completamente opposto a colui di cui si era stati presi anima e corpo, mente e cuore; a colui al quale si pensava ogni momento della giornata, a cui era rivolta la prospettiva di un futuro insieme, di una condivisione a tutto tondo dell’esistenza.
Viene quasi spontaneo da accettare determinate storture; ci si illude di poter far proseguire nel nome della superiorità dei buoni sui cattivi sentimenti e si tende ad una reductio del problema, lo si nega certe volte, perché tutti gli schemi altrimenti salterebbero e si finirebbe con il non potersi più fidare di nessuno e di niente al mondo.
Il meccanismo di autodifesa che inneschiamo è una salvaguardia necessaria per non veder crollare tutte le piccole e grandi certezze che la vita ci aveva messo davanti, facendoci credere in una imperturbabilità tanto delle circostanze quanto dei sentimenti. Può anche essere vero che, soprattutto quando si è molto giovani, si ha meno esperienza e ci si affida ad una istintività che tradisce le aspettative e delude nella maggior parte dei casi.
Ma, se anche così fosse, non si dovrebbe mai incorrere in una delusione tanto grande e ci si dovrebbe poter fermare un attimo prima del capovolgimento di sé stessi da amorevole fidanzato a persecutore ossessivo, da altrettanto felice fidanzata a vittima di una violenza dettata dalla fobica paura della perdita di una “proprietà” del tutto personale.
Il problema è tutto quanto qui: nel pretendere che chi amiamo sia nostro e non abbia più alcun margine di autonomia nei confronti anzitutto di sé stesso, poi degli altri e, non ultimo, verso qualunque altro rapporto e relazione con il mondo esterno alla relazione che diventa davvero tossica.
Giulia, ma potrebbe chiamarsi in qualunque altro modo, soprattutto in questo frangente in cui viene a rappresentare tutte le vittime di violenza degli uomini nei confronti delle donne, del maschile nei confronti del femminile, è quindi vittima di una concezione alterante un equilibrio di sentimenti e di relazioni reciproche che non include e non comprende (in ogni senso) la coesistenza di molteplici fattori nella costruzione, giorno dopo giorno, di una vita di coppia non ancora giunta al suo apice, se così vogliamo intendere l’unione matrimoniale, la convivenza.
Siamo portati a pensare da millenni di tradizionalismo maschilista, dal pater familias romano al patriarcalismo borghese otto-novecentesco, che sia naturale intendere il rapporto tra uomo e donna in linea verticale e non, invece, attraverso l’orizzontalità di una equipollenza da cui partire per dirci reciprocamente che i sentimenti dell’una/o non hanno diritti su quelli dell’altra/o; e che, di più ancora, in nessun modo le decisioni che riguardano la vita di ognuno possono essere subordinate al volere della propria compagna o del proprio compagno.
Lo squilibrio che si determina nei rapporti di coppia è molto spesso assimilabile ad una controversa interpretazione sociale in cui tutto è più facile per gli uomini e tutto è più difficile per le donne, considerate ancora non molto tempo fa anche fisicamente, strutturalmente più deboli rispetto alla forza che sarebbe sinonimo di mascolinità e viceversa.
Non c’è giustificazione alcuna per la violenza che un uomo può portare contro una donna. Nessuna affatto. Non c’è analisi sociologica, antropologica, storica o attuale che possa consentirci di attribuire una sorta di lenitiva attenuante nei confronti di chi non sa fermarsi un secondo prima di alzare un mano contro la persona che sostiene di amare.
Al primo insulto gratuito, al primo schiaffo esplicito, le donne devono denunciare, per quanto male faccia ritenere di essere incappate in un grossolano errore nella valutazione di una serie di sentimenti in cui si credeva e ci si sentiva a proprio agio pochi istanti prima.
Probabilmente dovremmo cambiare la prospettiva di valutazione del tempo stesso in cui facciamo cadere dolcemente le nostre passioni, i nostri desideri: dovremmo abbandonare il concetto di “eternità” dell’amore e renderci consapevoli che nulla è eterno, che nulla nemmeno dura tutto il brevissimo spazio di una singola esistenza.
I mutamenti sono quotidiani, sono intraquotidiani, ci stanno sotto gli occhi ora dopo ora, minuto dopo minuto. Il divenire della realtà è la vera natura delle cose e anche, quindi, del nostro disporci emotivamente ad ogni rapporto con altri individui simili a noi, con altri esseri viventi, con tutto ciò che ci circonda.
La nostra finitudine, però, contrasta col desiderio di ritenere in qualche modo possibile oltrepassare i confini del relativo, del determinato, del minimo rispetto al massimo, del non potere rispetto al potere sempre e comunque. Siamo ai confini davvero della realtà, siamo vicini a quel divino che abbiamo creato, senza poter sapere se davvero un principio, uno spirito, un dio, un qualcosa che regola l’intero universo esista o meno.
Ma questo trascendentalismo non ci giustifica per aver fatto del sogno la realtà e aver fatto della proprietà privata una eccellenza da perseguire quando si vuole mettere al sicuro le proprie certezze. E quando queste sono rappresentate da sentimenti che ci gratificano e che non vogliamo perdere, scatta la molla di un’autoconservazione che prescinde dalla libertà altrui e che soverchia ogni diritto comune.
A quel punto ciò che ha esplicito ed implicito valore è soltanto la nostra volontà di non perdere ciò che si è conquistato, ciò che ci appartiene perché lo sentiamo indubbiamente nostro e non vogliamo che sia di altri. Se così fosse, un pezzetto della nostra esistenza ci abbandonerebbe insieme alla persona presuntivamente amata. L’amore involve e diventa altro da sé stesso in questi istanti di megalomania dei sentimenti.
Il desiderio scema nel baratro della possessione e il rispetto che l’accompagnava, che era una delle pietre angolari della sincerità del sentimento, si esaurisce e si consuma nell’odio umanoide, nella tirannia del predominio che subentra nel momento in cui non c’è più speranza e già muore una parte di chi sarà poi, nella coppia, il persecutore, il probabile omicida.
La morte è preferibile all’assenza in vita. La morte è la via di fuga da una sofferenza altrimenti ritenuta, seppure inconsciamente, insopportabile. Quante volte ascoltiamo le frasi tipiche di questo paradigma che si sostanziano in affermazioni capricciosamente lacrimevoli come: «Non posso vivere senza di te!», «La mia vita non ha senso senza di te».
Se dette accanto al capezzale di un parente che ci è particolarmente caro, sono più che comprensibili. Sono un anestetizzante momentaneo di un dolore veramente indicibile, e per cui il silenzio spesso è il migliore abbraccio per chi resta e la più tenera consolazione.
Ma se a dirle, invece, in tono quasi minaccioso, puerilmente declinate dall’attaccamento compulsivo nei confronti di qualcosa o di qualcuno, allora sono il primo campanello di allarme di una immaturità dei sentimenti, di una incapacità di razionalizzare che le storie d’amore iniziano e possono finire.
Che, spesso e volentieri, finiscono perché l’idealizzazione dell’amore è romanticamente necessaria ma non è un dogma imperituro, non è una legge sacra. E’ un altro modo che gli esseri umani hanno impiegato per dirsi che, tutto sommato, ciò che è veramente per noi importate e ci lega a questo mondo, non dovrebbe avere una fine. Mentre sappiamo che tutto ha un inizio e avrà di conseguenza una fine.
Non esiste nulla di eterno. Nemmeno l’Universo, almeno per quanto ne sappiamo fino ad oggi relativamente al suo cominciamento prima del Big Bang, quando esisteva qualcosa di inconcepibile per la nostra mente, qualcosa che non stava nello “spazio-tempo”, una indescrivibile fluttuazione di materia che non era ancora materia… delle onde, dei movimenti di energia che avrebbero poi dato seguito alla grande esplosione circa tredici, quattordici miliardi di anni fa.
Ma, tornando alla storia di Filippo e di Giulia, ci piacerebbe pensare che quello che gli inquirenti hanno visto nel video in cui le violenze paiono proprio un tentativo di omicidio (presunto reato per cui il giovane ventiduenne è attualmente indagato) fosse una esagerazione suggerita da condizionamenti soggettivi, dal timore che la scomparsa dei due ex fidanzati ci abbia indotto a pensare il peggio.
Purtroppo tocca affrontare la realtà. Non le si può sfuggire, perché è viatico obbligatorio da cui passare per andare avanti, per andare oltre. Ma non per tralasciare i presupposti che ogni giorno fanno sì che gli uomini continuino a sentirsi padroni dell’esistenza delle donne. Delle “loro” donne. Della loro vita, dei figli come dei nipoti.
Non serve maledire solamente la proprietà privata dei sentimenti, dei desideri, delle esistenze, dei corpi. Occorre modificare radicalmente i rapporti sociali: dalla più grande comunità nazionale a quella del più piccolo comune della Repubblica.
Noi non siamo soltanto qualcosa di singolare. Siamo esseri sociali e siamo animali politici, come scriveva Marx. E lo siamo sempre, anche se asseriamo di non interessarci di ciò che accade tanto in Parlamento quanto nelle vie e nelle piazze d’Italia, dell’Europa e del resto del pianeta.
Noi siamo interconnessi oggi più di ieri e subiamo il fascino e la malversazione di tutti questi messaggi che ci arrivano da ogni parte. Non teniamo in considerazione quell’elogio della lentezza che sta nel corteggiamento tanto dei sentimenti altrui, quanto dei nostri e trascuriamo così la tenerezza vera, la dolcezza e la capacità empatica di stare nei panni degli altri.
A cominciare dalla Natura e dagli animali non umani che ci stanno intorno. Siamo i padroni di tutto e di niente.
L’agenda politica del governo Meloni in materia di rispetto delle tante differenze, dei tanti cosiddetti “comportamenti anomali” e dei reati che ne nascono a causa della miseria, della sofferenza materiale, psicologica, morale e fisica, è una sequela di proibizionismi, di peggiorativi delle pene, di aumento delle stesse: ad iniziare dal carcere per le donne incinta.
Non c’è un briciolo di empatia da parte del decisore e del legislatore in questo senso. E l’esempio che ne viene fuori è quello di una correttezza del metodo repressivo, della presa in considerazione dei disagi come estraneità al tutto, come qualcosa da allontanare dal contesto civile e sociale.
Se ne facciano carico le mura spesse delle prigioni, non la coscienza di ciascuno e di tutti. Così non si porta la società ad evolvere verso la ricerca della comprensione delle cause di ciò che ci succede.
Così si esasperano le tensioni generate da un egoismo preponderante e si restringono i margini di agibilità delle libertà reciproche, di una vicendevolità che è fondamento del rispetto civile e sociale, fenomeno evidente di un’etica laica volta alla valorizzazione delle particolarità entro un contesto egualitario.
Un popolo che, oltre alle differenze di classe, accetta come normalità quelle di genere, quelle etniche e quelle cultural-religiose in senso piramidale, concedendo alla maggioranza il diritto di considerarsi prevalente e giusta, rispetto alle minoranze, è la quintessenza del fallimento di una entità nazionale. Di uno Stato e di un governo che pretendano di esserne la rappresentazione plastica.
Il culto proprietario, come suprema lex di una patria intangibile e al limite dell’ossessione sacramentale dei propri riti e delle proprie primitive e sincretiche origini (tanto richiamate e tanto false sul piano storico) e non è incolpevole nell’alimentazione di una parte di inconscio collettivo da cui prendono forma e sostanza buona parte delle pulsioni negative come reazione ad una complessità esistenziale che, somma dopo somma, non si può tollerare se non annullando chi ci procura sofferenze. E, per ultimi, proprio noi stessi…
MARCO SFERINI
18 novembre 2023
foto: screenshot tv