Senso e significato, sfida millenaria tra due nemici-amici

Se ciò che esiste è fondamentalmente inconoscibile, dovremmo desumerne che qualunque arrovellamento sul significato dell’esistenza, della vita, della presenza della materia e del tutto che ci circonda sia pressoché...

Se ciò che esiste è fondamentalmente inconoscibile, dovremmo desumerne che qualunque arrovellamento sul significato dell’esistenza, della vita, della presenza della materia e del tutto che ci circonda sia pressoché un esercizio quasi retorico di mera dialettica fine a sé stessa.

In realtà o, per meglio dire, utilizzando proprio questa presunta inefficienza del ragionamento e dello sviluppo di ipotesi e tesi su noi e sul resto dell’esistente, sappiamo che possiamo conoscere fino ad un certo punto.

Per essere – forse – ancora più precisi: possiamo capire e cercare di sapere fino dove le categorie mentali umane consentono di arrivare e, quindi, di concepire, di stabilire una relazione tra pensato e pensante, tra significato e significante. E, ovviamente, di tutto questo in relazione con una interpretazione dell’esistente che segua una nostra particolare logica che ci ostiniamo a descrivere come “oggettiva“.

L’oggettività è, soprattutto con l’evoluzione del metodo scientifico, divenuta il banco di prova, di verifica mediante la sperimentazione e la replica dei fenomeni naturali, l’esigenza prima a cui affidiamo la garanzia di consegnarci qualche punto fermo nella miriade di sensazioni che ci abitano e che ci visitano senza un ordine preciso, senza una logica, senza quella razionalità che, non senza farle torto, mettiamo in contrapposizione proprio alle emozioni, rappresentate iconicamente dal cuore.

Senso dell’esistenza e significato della stessa possono sembrare apparentemente sinonimi, quasi pleonasticamente ripetitivi nella stessa frase; invece sono distinti e doverosamente distinguibili tanto nel parlato quanto nello scritto, tanto nel pensato quanto nel concretizzato. Il senso è l’interpretazione soggettiva che si può esprimere verso altri di ciò che si avverte guardando ciò che ci sta intorno e che, dovrebbe avere una connotazione di oggettività quasi aprioristica.

Invece siamo proprio noi stessi a mistificare, seppure involontariamente, la realtà, pensandola anzitutto, esprimendola di conseguenza con il mezzo linguistico, con la comunicazione verbale e con la trasposizione scritta dello stesso.

Ecco che senso e significato divergono, pur essendo, necessari l’uno all’altro, perché il primo è propedeutico al secondo: filosoficamente, il senso è un “rapporto” che si stabilisce tra chi pensa e chi o cosa è pensato. Il significato, invece, è – rifacendoci alla sua etimologia latina (“significatus“, propriamente “senso“, “indizio“) – il contenuto del pensiero, qualcosa che dovrebbe divenire di comune elaborazione.

Si intravede qui un passaggio tra soggettivo e oggettivo che è stato molto dibattuto nel corso della storia del pensiero occidentale (e non solamente di questo). Perché, per prima cosa, al centro delle dispute stava la relazione tra idea e realtà, tra l’immaterialità del pensiero e la materialità del pensato.

Platone aveva fatto delle idee delle realtà sussistenti di per sé, quindi le aveva in pratica “realizzate“, rese concrete pur nella loro inafferrabilità nell’Iperuranio. Qualcosa di molto vicino al divino, là dove non c’è bisogno delle diatribe tra “senso” e “nonsenso“, tra “significato” e “significane“.

Eppure, nonostante il tentativo platonico di trascendenza delle idee, come perfezione ultraterrena cui corrisponde l’imperfezione materiale che ci è – come abbiamo visto – peraltro sostanzialmente inconoscibile nella sua unità molteplice dell’esistente, il problema che ha riguardato e riguarda la corresponsione tra astratto e concreto non è mai stato risolto, perché – molto banalmente – è di per sé irrisolvibile.

Non tanto perché si tratta di due concetti antitetici, al pari del bianco e del nero, del chiaro e dello scuro, che, ugualmente a “senso” e “significato” si abbisognano reciprocamente per poter essere definiti (e tendenzialmente definibili…).

Quanto, semmai, perché calati nella realtà che classifichiamo come “oggettiva” (umanamente interpretata come tale), l’astrazione e la concretezza sono dicotomici, anche se non nemici: la prima è sinonimo di “oltre“, dell’al di là del principio stesso legato ad una realtà fattuale; la seconda è fortemente materialistica, legata ad una essenza tangibile di cose, persone e fatti. Tutto ci riporta, inevitabilmente, al problema della conoscibilità dell’essere.

Quindi all’eterno ritorno un po’ nietzschiano, ad una ciclicità dei fenomeni naturali che è, in sostanza, la vita vissuta e rivissuta entro canoni molto simili da epoca ad epoca e, quindi anche la conoscibilità dell’esistente finirebbe con l’essere “oggettivamente” limitata entro questo “loop” molto simile alla ruota in cui viene fatto girare meschinamente il povero criceto. L’unica soddisfazione possibile sarebbe quella, del tutto ipotetica, di trovare qualche appagamento ludico in tutto questo.

Un po’ come lo si pensa del criceto che, stando a quanto si dice, si divertirebbe un mondo a far girare la ruota e, con essa, sé stesso. Non abbiamo prove della contentezza che noi attribuiamo al piccolo roditore. Sappiamo che è caratterialmente irrequieto; un istinto che, con tutta probabilità, gli deriva dai suoi antenati, divenuti velocissimi per adattamento naturale, per sfuggire agli ancora più veloci predatori che li inseguivano per divorarli.

Ma che da un istinto di sopravvivenza possa discendere un comportamento giocoso, tanto più se siamo noi umani a stabilirlo perché ci divertiamo a vedere correre il piccolo animaletto dentro la ruota, è tutto veramente da dimostrare… Dove sta qui il senso? Dove sta il significato del senso stesso?

Eticamente parlando, da nessuna parte. Se invece cerchiamo una ragione del perché determinate cose accadono, allora nella migliore delle ipotesi possiamo scoprirne i motivi grazie a studi zoologici (ed antropologici); nella peggiore c’è il rischio di precipitare in una attitudine meccanicista che somiglia davvero tanto al “loop” innescato dalla domanda primordiale: possiamo conoscere l’esistente?

Una ammissione socratica di beata ignoranza sarebbe opportuna a questo punto. Non fosse altro per sgomberare il campo da tutta una serie di tatticismi filosofici che, nel corso del tempo, sono divenuti schermaglie tra scuole di pensiero che si sono fronteggiate a colpi di illazioni per vincere una gara della verità in cui non c’è, a ben vedere, nessun traguardo da raggiungere.

L’ostetricia mentalistica socratica, l’allevamento successivo del dubbio come foriero di un percorso di vicinanza al vero, ma impossibile da ottenere come lente di ingrandimento del “nonsenso” comune sui comportamenti di cose, persone ed elementi naturali in generale, hanno almeno permesso di considerare la mutevolezza delle opinioni come qualcosa non di negativo, ma come ricerca costante, come vero laboratorio delle idee che, non per forza, devono essere scritte e tramandate.

Per dare ragione a Socrate, circa l’evanescenza e la perturbabilità del linguaggio stesso, basterebbe pensare a come, attraverso i millenni, concetti che si erano solidificati e avevano rappresentato importanti esperienze collettive, tipo le scuole filosofiche del mondo antico, sono stati poi tradotti nella nostra illogica e presunta modernità (tale soltanto perché oltre ancora non c’è nulla, ma sta divenendo di secondo in secondo…), come il “cinismo“, siano passati dall’essere eminenti al definire atteggiamenti stigmatizzabili.

Il cinico di oggi non è, e del resto come potrebbe essere…, il cinico filosofo neosocratico che se ne sta mezzo nudo in una botte a contemplare la vita della città e a considerare inutile praticamente tutto quello che non riconduca, molto asceticamente, ad uno stile di esistenza che renda sempre meno dipendenti dalla materialità delle cose e sempre più afferenti ad una spiritualità dal sapore naturalistico.

Senso e significato del linguaggio sono stati, quindi, giustamente indagati dalla logica sette-ottocentesca come elementi probanti tanto dell’arretratezza quanto dello sviluppo singolo e collettivo, individuale e sociale. E, in questo frangente, dell’evoluzione complessiva di tanto della spiritualità quanto della materialità “oggettiva” della realtà costruita dall’essere umano dentro il perimetro dell’antropocetrismo spinto.

Gottlob Frege, filosofo e logico-matematico tedesco, considerato l’iniziatore della filosofia analitica stessa, a proposito del rapporto tra senso e significato ha introdotto nuovi elementi di considerazione riflettendo sull’uguaglianza come principio di discernimento: che il segno “a” sia uguale ad “a” è oggettivamente vero. Ha senso nel momento in cui la corresponsione è di natura universale, quindi riconoscibile da tutti.

Progredire dal senso al significato è in pratica passare dalla soggettività interpretativa all’oggettività non della “verità” filosofica, ma di quella riscontrabile oggettivamente: quindi ad un “valore” che possiamo dare a ciò che chiamiamo (entro sempre i nostri limiti umani) “verità“.

Ciò non risolve nulla se non l’esigenza nostra di possedere un tassello in più nella dimostrazione che la tendenza alla conoscibilità c’è, che possiamo perseguirla: attraverso la scienza, attraverso ogni sua branca, mediante l’osservazione che, ce ne dobbiamo criticamente ricordare, è parziale.

Perché i sensi ci regalano una presunzione di oggettività, visto che siamo costantemente sottoposti a stimoli che alterano la nostra percezione (che, poi, in quanto tale, è particolare e non universale, visto che noi stessi non possediamo la caratteristica dell’universalismo!) e che portano, coscientemente o meno, a passare dal pensiero al giudizio. Nel momento in cui giudichiamo siamo oltre l’oggettività. Siamo in quella che oggi si potrebbe chiamare la “comfort zone” del nostro sapere.

L’oggettività in quanto verità con la vu maiuscola è qualcosa a cui tendere. Esattamente come la conoscibilità dell’essere, dell’esistente. Potremmo paragonare queste aspirazioni alla perfezione come degli aneliti tipicamente umani, prodotto di una autoconsapevolezza dell’esistenza di noi stessi e di ciò che ci circonda, all’impenetrabilità dell’Universo, all’impossibilità ad addentrarci nell’infinito. Inimmaginabile.

Sarebbe sufficiente renderci conto della finitezza in cui siamo per avere chiaro il fatto che l’infinitudine non fa per noi, nonostante ne si faccia parte. Possiamo sapere qualcosa. Non tutto. Socrate non sarebbe d’accordo nemmeno su questo. Ma ci perdonerà la tentazione umana di aspirare al divino, all’iperuranico mondo idealistico, alla chiara, lucida, lineare e algida percezione della possibilità di farcela.

Una tensione solamente umana alla ricerca di un ossigeno del senso e del significato che, magari per qualche attimo, ci regala l’illusione che, del resto, una ragione a tutto questo ci dovrà pur essere…

MARCO SFERINI

21 gennaio 2024

foto: elaborazione propria; particolare di “Socrate insegna ad un giovane” (di José Aparicio Inglada, 1811), ritratto di Friedrich Ludwig Gottlob Frege

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Il portico delle idee

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