Il tribunale amministrativo di Lipsia ha respinto il ricorso promosso dai Land del Baden-Wurttemberg e del Nord Reno Vestfalia: le città tedesche hanno facoltà di decidere autonomamente il bando dei veicoli diesel dalle proprie strade.
La notizia sta giustamente facendo il giro del mondo: nella «patria» europea dell’auto (Volkswagen, Audi, BMW, Daimler, Porsche), quanto venuto dal foro di Lipsia è un segnale dirompente. Il dovere dei governi cittadini di proteggere la salute della loro popolazione è prevalso, in questa sentenza, su un’obiezione che avrebbe tutelato invece gli interessi dell’industria dell’auto.
Nella Germania che si è sempre strenuamente battuta per quegli interessi, anche e soprattutto nell’UE, è un passaggio epocale.
È difficile valutare o comprendere appieno la decisione dei giudici tedeschi, però, se non si tiene a mente una storia recente, dai più conosciuta come “Dieselgate”: la vicenda della Volkswagen scoperta a truccare i propri veicoli per far registrare, in fase di omologazione, valori di emissioni compatibili con la normativa da tubi di scappamento che invece, su strada, emettono molto, molto di più.
Invero Volkswagen si è poi rivelata la punta dell’iceberg: altri test hanno dimostrato come la maggior parte dei diesel circolanti oggigiorno infranga ampiamente i valori di emissione del biossido di azoto, con alcuni modelli Suzuki e Fiat che emettono fino a 14-15 volte (Transport & Environment) i valori di legge. Incidentalmente il biossido di azoto è un gas classificato come “certamente cancerogeno”: secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente è causa, solo nel nostro Paese, di oltre 17 mila morti premature l’anno.
Ecco: lo scandalo Dieselgate ha definitivamente tolto ogni furbo o pietoso velo da una tecnologia motoristica a lungo promossa come soluzione “ecologica”, per via di emissioni di gas serra inferiori alle auto a benzina (ma molte ricerche recenti dimostrano che il differenziale di emissione è minimo o nullo).
L’industria dell’auto ha investito moltissimo sul gasolio, negli ultimi anni, con la convinzione di riuscire a protrarre l’età del motore a combustione interna, alimentato da fonti fossili, stando dentro i parametri di emissione di CO2 che la normativa europea va restringendo.
L’investimento cui mi riferisco è stato anche e soprattutto di marketing: tanto che il diesel è arrivato a rappresentare oltre il 50% delle vendite di auto in molti dei principali mercati europei. Oggi, a seguito dello scandalo Dieselgate, le vendite delle auto diesel stanno calando in molti Paesi (ma non in Italia); oggi la reputazione del diesel è cambiata e appare chiarissimo che nel percorso di decarbonizzazione del settore trasporti (che mostra trend di emissione di gas serra in netta crescita) quella motorizzazione è la prima da abbandonare. Perché è la più inquinante.
Il governo italiano sostiene da anni una linea di neutralità tecnologica: non avvantaggiare alcuna soluzione (benzina, gasolio, ibrido, gas, elettrico) e lasciar fare al mercato. In realtà è chiarissimo che il cartello ENI-FCA detta una linea mirata a difendere il motore a combustione interna fin quando possibile; e a imporre il gas come combustibile alternativo “sostenibile”. In questo scenario, l’annuncio di Virginia Raggi – dal 2024 fuori le auto diesel dal centro di Roma – è qualcosa di altrettanto dirompente. È lo stesso impegno che già hanno preso altre città in Europa e nel mondo, e che Greenpeace chiedeva da mesi a Roma, Milano, Torino e Palermo. Serve a incidere direttamente sul mercato, a orientarlo: comprereste una macchina che “scade” tra sei anni?
ANDREA BORASCHI
responsabile campagna Trasporti – Greenpeace
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