C’è un vizio antico che ritorna ciclicamente, ogni volta che si creano le condizioni per scegliere da che parte precisa e inequivocabile stare della Storia che si forma di attimo in attimo nello srotolarsi del presente. Si tratta della tentazione manicheista di separare con un colpo di accetta tanto i fatti quanto le opinioni e creare due esclusivi campi di scontro (più che di confronto), elidendo ogni sfumatura, ogni argomentazione particolareggiata che, oltre al portato delle proprie argomentazioni, si farebbe latrice di una oggettiva considerazione in merito alla complessità degli eventi.
Provare ad entrare nel profondo delle cause che determinano, ad esempio, gli scenari di guerra attuali è poco popolare, molto poco strumentalizzabile sul piano mediatico e non aiuta certamente a fare ascolti televisivi abituati ad essere realizzati con risse settimanali, ben programmate su fasce orarie così consolidate da fare invidia alle trasmissioni storiche delle maggiori reti nazionali.
Senza dubbio, però, se si potesse un po’ trascendere dalla velocità quotidiana di una vita frenetica e piena di problemi non risolti dalle lungaggini burocratiche e dalle complicazioni strutturali di una economia devastante, forse si avrebbe il tempo per soffermarsi sull’origine degli accadimenti. Non c’è poi nessuna stringente attualità che abbisogni di un riferimento al recente passato come la guerra, perché, pur apparendo scoppiata all’improvviso, frutto di una immediatezza incontrollabile, è l’ultima determinazione di politiche logore, di diplomazie che hanno fallito nel loro compito, di un inspessirsi delle problematiche che hanno rischiato di farla esplodere in ogni momento.
Sulla guerra tra Russia e Ucraina (o per meglio dire tra Russia e il resto del cosiddetto “mondo occidentale“) si è, in proposito, già detto e scritto: dalla crisi verticale del socialismo di facciata del sovietissimo impero dai piedri di argilla del capitalismo di Stato, passando per un trentennio di riorganizzazione della geopolitica mondiale sempre attraverso guerre nazionaliste (o presunte tali…), di conflitti scoppiati per il controllo di ampie porzioni di interesse economico e strategico e mascherati come lotta al terrorismo, per il bene supremo del mondo e dell’umanità, si è arrivati ad una bellicosità apparentemente imbelle.
Se si prova a ragionare in merito, premettendo che la Russia di Putin e Putin stesso sono certamente quanto di più lontano possa in questo momento esservi dall’impreciso e improprio concetto di democrazia (liberale, occidentale e quindi liberista), ma che la responsabilità del conflitto è quanto meno bilaterale, aggiungendo che l’Ucraina viene usata tanto da Putin quanto dagli USA e dalla NATO per i loro criminali intenti espansionistici, per la fondazione di una nuova stagione dell’imperialismo moderno, si finisce sotto il fuoco incrociato degli assertori di una serie di proposizioni che nemmeno un tribunale della Santissima Inquisizione spagnola avrebbe osato sciorinare davanti ai candidati alle torture o al rogo.
Questo è più o meno l’ordine delle accuse dei sostenitori dell’una e dell’altra parte: «Non si può essere equidistanti! C’è un aggressore e c’è un aggredito!»; «L’Ucraina è una nazione sovrana, democratica e ha il diritto di difendersi. Dobbiamo sostenerla con aiuti umanitari e con le armi»; «Voi pacifisti volete abbandonare gli ucraini in una lotta che anche la nostra, perché difendono i valori dell’Occidente, dell’Europa!»; «La NATO è una alleanza soltanto difensiva e non ha mai fatto scoppiare guerre»; ed ancora…: «Volete sconfiggere e fermare Putin con le manifestazioni e i cortei? Se non producono degli effetti, sono solo delle autocelebrazioni inconcludenti».
Queste frasi, virgolettate, sono tutte state dette e ripetuti in altrettanti programmi di attualità e di pseudo-discussione in una televisione italiana che non si accorge di quanto poco margine di scostamento vi sia con la propaganda che viene dall’altra parte del fronte: quella russa. Il pacifismo, o quanto meno il biasimo per il foraggiamento di armamenti all’Ucraina oggi ed alla Russia fino all’altro ieri, viene trattato alla stregua di un tradimento delle ragioni di un popolo e di un presidente che potrebbero rientrare nei contorni storici della vecchia Unione Sovietica per incarnarne non si sa bene quale riedizione in un 2022 dove delle condizioni del 1917 non esiste più nessunissima traccia.
I dieci giorni che sconvolsero il mondo nel nuovo millennio sono quelli dell’attacco di Putin a Kiev, da lui giustificato con quella retorica nazionalista propinata ai giovani soldati mai stati in una battaglia (per loro fortuna…) secondo cui l’America era pronta ad accaparrarsi l’Ucraina e la NATO stava per mettere il suo piede addirittura in territorio russo.
Fin qui si può arrivare nel descrivere i presupposti quasi ideologici di incitamento delle truppe a difendere la Grande Madre Russia. Se, però, ci spinge nell’osservazione secondo cui effettivamente un supporto a queste argomentazioni l’Alleanza atlantica, gli USA e persino la sgangherata politica estera europea lo hanno dato al Cremlino, in automatico si diventa “filorussi“, “putiniani” e, per contro, nemici del proprio serenissimo mondo occidentale.
Non c’è spazio nella propaganda di guerra per la voglia di capire, di disarticolare le banalizzazioni, per scansare gli equivoci cercati, voluti, alimentati da una fiera delle contraddizioni che si tentano di nascondere dietro la sicumera dell’esperienza militare di questo o quel comandante che diventa un presenzialista televisivo. Non c’è spazio per l’argomentazione, per la puntualizzazione ma soltanto per le frasi fatte, per un insopportabile ricorso a una sfilza di luoghi comuni che vorrebbero fare delle posizioni pacifiste e pacifiche una quinta colonna del nemico contro cui si è scelto di stare.
La guerra in Ucraina è, dopo il biennio pandemico, l’erede migliore della necessità del pregiudizio e della precostituzione delle più finte opinioni possibili da disseminare qua e là nel racconto cronachistico del conflitto, nel tentativo di analisi circostanziata di chi da sempre studia la geopolitica (come Lucio Caracciolo e la sua squadra di “Limes“) facendola discendere dall’imprescindibilità della Storia.
La capitalizzazione, in chiave di retorica politica, delle settimane di guerra e di tutto il loro portato di morte, distruzione e di orrore verrà ben presto messa a frutto con un cinismo niente affatto sconosciuto.
La moderazione presunta del centrosinistra e l’estremismo parolaio delle destre sovraniste si faranno carico di interpretare i rispettivi ruoli: il primo con la NATO e gli USA senza se e senza ma da un lato, nel solco di un europeismo ammaccato e ridotto a comprimario della scena internazionale; mentre le seconde con la NATO, gli USA e anche un po’ di Europa senza sottolineare troppo la megalomania putiniana, il sogno di revanchismo imperiale del nuovo zar, corollario di una ben più importante motivazione economica e finanziaria, di una stabilizzazione di un ruolo egemone del duo sino-russo, incredibile almeno fino a quell’intercapedine temporale degli otto anni di guerra inespressa e sottaciuta in Donbass e in Crimea.
Fin dalla nascita del movimento pacifista, in tutte le sue declinazioni politiche, associative e culturali, il tentativo di marginalizzazione dell’alternativa al racconto delle classi dominanti sui benefici effetti delle tempeste di ferro e di fuoco è una costante della politica di controllo dell’opinione pubblica, per unire interessi imprenditoriali e interessi politici dei poteri statali.
Il pensiero dominante è – come ci ha spiegato Marx molto, molto tempo fa – sempre il pensiero della classe dominante. Per cui c’è ben poco da stupirsi, anche in questo frangente, che i mezzi di comunicazione di massa veicolino il messaggio che si vuole far passare: ossia che da una parte bisogna schierarsi e che questa parte non può non essere quella che fa della guerra una variabile dipendente del e nel capitalismo.
L’errore più grande che potremmo fare sarebbe quello di dare credito ad una presunta “superiorità morale” delle opinioni che pretendono di essere la quintessenza della ragionevolezza contro l’utopismo dell’antimilitarismo, del pacifismo e dell’alternativa di una società che è condannata da questo sistema omicida a combattersi vicendevolmente per far predominare questo o quel polo di sviluppo dei profitti e delle grandi reti finanziarie.
La superiorità morale della pace deve essere indiscutibile. L’inferiorità immorale delle guerre deve diventare un elemento costituente del nostro essere umani nonostante tutto e tutti quelli che vorrebbero convincerci di essere dalla parte, se non proprio sbagliata, almeno irrilevante della Storia e del presente.
«Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati», Bertolt Brecht.
MARCO SFERINI
15 marzo 2022
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