Tutto il dibattito di un congresso finisce con l’essere poi, davvero inevitabilmente, messo di fronte ad un solo punto di caduta: il qui e l’ora, l’hic ed nunc di antica memoria. La sintesi, quindi. E le sempiterne domande: chi siamo, che ci facciamo qui, dove andiamo. Dall’esistenzialismo alla traduzione più moderna possibile di un movimento reale che prova ad abolire lo stato di cose presente partendo e ripartendo, come potrebbe sembrare (e come in effetti talvolta è), in un eterno ritorno nietzschiano che illude e disillude in eguale misura.
Ma così è se vi pare, ed anche se non vi pare, così è lo stesso. Ci tocca imparare ancora una volta la lezione dei fatti che hanno la testa dura e dei rapporti di forza da cui è impossibile prescindere se si vuole fare una analisi del reale che, sostanzialmente, è oggi traducibile nella crisi di un capitalismo che imposta la sua presunta evoluzione post o ipermoderna (a seconda dei punti di vista…) sul perno tutt’altro che arrugginito della guerra, dell’economia che vi si confà così bene e dell’obbedienza cieca e pedissequa dei governi di mezza Europa e d’America.
Rifondazione Comunista, nella cronaca dei giornali, è ritratta per quel che appare e che, in fin dei conti, nemmeno si discosta tanto dalla verità oggettiva dei rapporti interni: spaccata verticalmente e quasi a metà. Quando ci si divide così è segno che dentro ad un partito si sono prodotte due interpretazioni letteralmente differenti, quasi dicotomiche, non su cosa fare circa l’organizzazione di una manifestazione, su un solo elemento di lotta ben determinato; bensì sul quadro più generale, complessivo: sul chi siamo oggi, per l’appunto, su cosa ci facciamo qui e su dove vogliamo andare.
A queste domande ataviche metà del Partito ha risposto che siamo e vogliamo essere quel che siamo sempre stati: ossia comuniste e comunisti che considerano il sistema capitalistico la contraddizione massima per ogni essere vivente (anche se parliamo sempre e soltanto di “umanità” e mai di “animalità“) e per la Terra in quanto casa comune, decisi dunque a non cambiare il fulcro della nostra critica, per l’appunto, anticapitalista e antiliberista.
Alla seconda domanda (che ci facciamo qui…), iniziano le risposte diverse e non più corali come la prima, perché alla strategia di lungo corso tende viziosamente e capziosamente, per certi aspetti, a sostituirsi un tatticismo ottuso che invece dovrebbe essere, se non ridimensionato, quanto meno compreso entro i termini di una necessità impellente di fronteggiamento del pericolo conservatore e neoautoritario rappresentato dal governo di destra-destra di Giorgia Meloni.
Le risposte alla terza domanda (dove vogliamo andare) sono figlie del secondo quesito e, per questo, lo sostanziano con definizioni più circostanziate che hanno tutte pari dignità ma che, nel giudizio politico più generale, divengono opinabili nel tentativo di dare una sorta di equilibrio alla coerenza tra tattica e strategia, tra piccolo, medio e lungo termine della politica di Rifondazione: nel rispetto della propria storia, nell’autocritica del presente, nella difficile visione del futuro. Chi ha scelto il secondo documento, sostenuto da Paolo Ferrero, ha preferito una linea continuista. Non c’è dubbio.
Come non vi è dubbio alcuno sul fatto che noi, che abbiamo invece sostenuto il primo documento del Segretario Maurizio Acerbo, abbiamo ritenuto prima di ogni altra valutazione che così come si era proceduto in questi ultimi dieci anni, non si poteva davvero andare avanti ancora. E non certo per molto… Se è stato un “correre ai ripari”, lo è stato anche molto tardivo ma, personalmente, penso che fosse l’unica anche incoerente cosa da fare per ridare a Rifondazione Comunista la sua ragione primordiale: non essere una mera testimonianza dell’alternativa, ma provare a praticarla.
Se per noi l’alternativa di società si fa con una sinistra che rivendica le lotte in favore del mondo del lavoro e della disoccupazione, della precarietà e del disagio diffuso in ogni ambito sociale e civile, morale, umano, animale ed ambientale, il punto dirimente era ed è come fare in modo che Rifondazione Comunista potesse ritrovare una ragione d’essere nell’oggi che è tanto mutato rispetto anche soltanto a cinque anni fa. Ci abbiamo provato a dare vita ad un terzo polo, persuasi – e giustamente – che almeno fino a poco tempo fa le condizioni date non lasciavano trasparire granché di progressista nel resto del centrosinistra.
Il PD di Letta, Gentiloni e Renzi era scivolato sempre più a destra ed era davvero irriconoscibile rispetto ad un confronto con Forza Italia o con qualche altro pezzo di liberalismo politico e di liberismo economico. I Cinquestelle, fino almeno alla caduta del governo Draghi sono rimasti ondivagamente nel limbo compiacente dell’indistinguibilità anti-ideologica: si sono privati di una vera connotazione e si sono equidistanzializzati in un ibridismo che non permetteva in nessuna maniera una attribuzione di un anche qualche tratto flebile di progressismo come fisiognomica del movimento.
Sinistra Italiana ci ha sostituito. E lo ha fatto con grande intelligenza: ha occupato lo spazio che prima era del PRC e, per fortuna, ha evitato una emorragia ancora più ampia di voti verso destra o nell’astensionismo. Ha saputo recuperare una fiducia in una parte del nostro popolo di riferimento perché ha tenuto insieme la rappresentanza parlamentare con la visibilità datale per questo e rimanendo comunque, nonostante la propensione governista ed entrista nel centrosinistra che la caratterizza da sempre, ciò che “più a sinistra” si poteva trovare nella scelta utile entro il contesto bipolare.
La nostra proposta di alternativa ai due poli (o comunque alle forze che si vanno naturalmente polarizzando ad ogni elezione per via delle peggiori leggi elettorali mai viste in Europa) non ha avuto un generoso riscontro da parte delle classi popolari perché, senza dubbio, il dibattito collettivo, viziato dai mezzi di comunicazione, ha generato altre aspettative e ha dirottato tanto le capacità critiche quanto i consensi che ne sarebbero potuti derivare. Ma di questo dobbiamo tenere conto. Non possiamo fare spallucce e credere che le nostre ragioni, che sono vere e che anche alcuni a noi lontani politicamente ci riconoscono, siano sufficienti per farci un domani aprire delle brecce tanto nei luoghi di lavoro quanto in Parlamento.
Perché abbiamo così timore che la tattica politica ci possa condizionare al punto da essere privati della nostra critica senza appello al capitalismo? Di questo abbiamo qualcosa di più di una semplice paura. Siamo entrati in una dimensione fobica: se dialoghiamo con il PD di Elly Schlein o il M5S di Conte (non quindi con Renzi o con Di Maio, tanto meno con Draghi o Beppe Grillo) siamo già irrimediabilmente perduti? Siamo venduti al capitale? Siamo dei guerrafondai? Siamo dei filoatlantisti? Quale diamine di maledetto sacro furore al contrario ci pervade quando tentiamo la distinzione tra tattica dell’ora e strategia del domani e dopodomani?
Non sarà che si siamo fatti condizionare dalla nostra stessa storia, dal fatto che molti di noi si sono lasciati sedurre dal governismo e sono stati preda di una devozione a tutto tondo nei confronti della sacralissima divinità del pragmatismo senza alcun se e senza alcun ma? Può essere. Ma non è sufficiente a spiegare il timore di perdere una verginità continuamente riprodotta nel momento in cui si affronta un’elezione. Ci manda in crisi il confronto con noi stessi, ma ci fa deflagrare la capacità raziocinante di riconoscere che una comunità prende delle decisioni collettivamente e che non è affidabile mai al singolo una scelta che coinvolge tutte e tutti.
Se la sinistra di alternativa non è riuscita a tradursi da precetto a concreta pratica e luogo della politica, punto di riferimento per quelli che vengono evocati come “moderni proletari” (io preferisco i termini più drammaticamente aderente alla realtà di “sfruttati” e “poveri“), non è solo colpa degli altri ma è, anzitutto, colpa nostra. Era giusto tentare di aprirsi un varco nel bipolarismo, tentare di scardinarlo; ma avremmo dovuto renderci conto che, prima i Cinquestelle e poi Sinistra Italiana con LEU e poi con AVS, hanno sopperito ad una necessità di avere qualcosa a sinistra che non si sganciasse dalle alleanze para-progressiste.
Ma il peggio è arrivato quando, sconfitti ripetutamente, ci siamo convinti di essere, per questo, tremendamente nel giusto e che tutto il mondo ci fosse contro e che solo da noi e mediante noi arrivasse la salvezza per una umanità vilipesa, oltraggiata, avvilita e disillusa da ogni forma di democrazia possibile. Qui abbiamo decretato una svolta messianica del comunismo, dato seguito ad un approccio che è andato oltre la comprensibile autoconsolazione. Siamo diventati i comunisti di noi stessi e non per gli altri e ci siamo persuasi che la via per nuove conquiste sociali e politiche passasse per l’assunta identificazione tra tattica e strategia.
Senza più questa distinzione, le elezioni, anche se perse, ci sono sembrate migliori di quello che potevano essere: magari perché nel comune tal dei tali abbiamo ottenuto una percentuale due volte maggiore rispetto ai dati nazionali o europei. Ogni scusa è stata buona per non fare i conti con tutta l’insufficienza di questa linea ottusangola, invertebrata, priva di qualunque riconoscibilità da parte degli sfruttati moderni e, dunque, dell’elettorato sempre meno coinvolto nel voto, nella partecipazione, nel processo di sostentamento della democrazia repubblicana.
Ci siamo arrivati per contrarietà e almeno una decina di anni dopo le prime batoste. E non solo, naturalmente, di carattere elettorale. Ma oggi, seppure di stretta misura, Rifondazione Comunista esprime, con il suo XII Congresso nazionale, una svolta che deve poter essere messa a frutto nella competizione dialettica interna come in quella esterna.
Va espunto dal dibattito e dalla pratica quel volersi ancora una volta porre in una condizione di dogmatico apriorismo, sentenziante una pressoché equanimità tra destre di governo e centrosinistra (o campo progressista che dire si voglia…), di equipollenza indefessa, di interscambiabilità delle posizioni, reputandoli uguali (nemmeno simili!) e quindi ponendosi in totale alternativa per la costruzione di un “terzo” o “quarto” polo dell’alternativa, quella linea così proposta avrebbe escluso Rifondazione dall’autocritica e dalla critica aggiornata.
Siccome non proponiamo alleanze organiche col centrosinistra, col PD, ma semplicemente di non chiuderci al dialogo e al confronto col resto del progressismo italiano, ora, terminato il congresso, le compagne e i compagni del documento 2 possono archiviare la fake news della nostra mozione come quella “pro-PD“. Si è tentato di trasformare il congresso in un referendum su una bugia brutta e cattiva, altro che bella e buona.
Dobbiamo recuperare non solo una cultura comune della nostra politica sociale, civile e morale, ma anzitutto il rispettare democraticamente gli esisti delle nostre assemblee. È un ABC che non possiamo trascurare. Mai. Forse non abbiamo sbagliato poi tutto se, dopo trenta e più anni, Rifondazione Comunista riesce a fare autocritica e rimettersi in gioco. Fragile, debole, ma con una comunità che ha deciso in piena autonomia dove dirigere la barra della politica di alternativa.
Il momento greve del melonismo è una fase che rischia di divenire duratura se non contribuiremo a batterlo radicalmente, essendo noi tra i primi a prendere parte ed a promuovere le lotte per la rinascita del solidarismo, dell’egualitarismo e della convivialità sociale di un costituzionalismo necessario nell’ambito della laicità repubblicana. Noi torniamo ad essere utili se non ci compiacciamo soltanto di essere tali, ma ci sporchiamo le mani e i piedi in un mondo in cui stagnano i diritti e aumentano i doveri. Non dobbiamo avere paura di ciò che siamo oggi costretti ad essere se sappiamo che rimangono non negoziabili determinati princìpi che sono le fondamenta della nostra lotta.
Non possiamo allearci con il PD e col centrosinistra proprio perché ce lo impedisce la differenza sostanziale di valutazione sull’economia di guerra: tanto sul ruolo della NATO quanto sul dare o meno ancora armi a Kiev o a Tel Aviv. Non dobbiamo essere costretti a scegliere con chi stare, ma sapere anzitutto con chi non possiamo mai e poi mai stare: perché lì si annida il pericolo di un deperimento democratico che impedirà di aprire nuovi viatici per l’espansione dei diritti del mondo del lavoro, così come di quelli sociali. Tutto si tiene e non si possono fare classifiche in merito.
Non esistono diritti di serie A e diritti di serie B. Tutti i diritti sono ugualmente importanti e per questo serve un aggiornamento del nostro essere comunisti nel prendere in considerazione la sofferenza di miliardi di esseri viventi che sono animali come noi ma che, specisticamente, continuiamo a non considerare nella necessaria liberazione che è la premessa, l’essenza e il postumo del dopo-capitalismo, del dopo-liberismo. Siamo ancora molto indietro rispetto ad un “comunismo antispecista“, ma io credo che prima o poi, forzati anche dai cataclismi naturali impellenti, ci arriveremo.
Oggi, dobbiamo essere in prima fila nella costruzione di un fronte democratico e popolare che sbarri la strada a questo governo autoritario, razzista, omofobo, atlantista e iperliberista. Dobbiamo fare la nostra parte, sapendo che l’essere ancora comuniste e comunisti oggi vuol dire vivere nelle contraddizioni e non bearsi d’esserlo pensandosi nel giusto e facendosi bastare questo come carattere rivoluzionario, come massima coerenza possibile. Questa “comfort zone” va immediatamente abbandonata per gettarsi ancora una volta nelle opacità dei chiaroscuri dove nascono i mostri…
MARCO SFERINI
11 febbraio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria