L’indignazione. Questa dea dell’animo umano che ritorna ogni tanto a farci visita quando accade qualcosa che ci turba profondamente, che recalcitra contro i nostri princìpi morali, siano essi formati su un presupposto laico o religioso.
L’indignazione è tornata a farsi sentire anche in campagna elettorale, proprio in questi giorni, e si è interessata di argomenti molto differenti fra loro.
Se nessuno avesse saputo che la giovane maestra che ha inveito contro le forze dell’ordine fosse stata una insegnante, la ragazza sarebbe stata bollata come una “antagonista”, termine che va bene per essere affibbiato a chi va in piazza a manifestare contro i fascisti e tutte le persone che hanno un istinto autoritario tradotto magari in politica, magari nelle liste elettorali che troveremo anche sulle schede.
L’avrebbero definita una nostalgica del ’68, una disadattata perché portava un eskimo innocente e sorseggiava una birra quando sono arrivate le cariche, gli idranti. Insomma, i soliti centri sociali che qualcuno a destra vorrebbe chiudere perché sono rimasti un poco gli unici in questo Paese ad avere il coraggio di scendere in piazza con una sinistra ostinata che non ammaina la bandiera di difesa della Costituzione e, quindi, dell’antifascismo come religione civile italiana.
L’avrebbero definita così, dunque, questa giovane insegnante e sarebbe tutto terminato non a tarallucci e vino ma in una ennesima condanna per l’immoralità di tutti i centri sociali d’Italia. Invece l’indignazione è emersa dai più alti livelli istituzionali: perché una persona che insegna non può augurare la morte alle forze dell’ordine e non può inveire in quel modo.
L’indignazione politicamente corretta ha fatto il suo lavoro. Ma non c’era bisogno di indignarsi così tanto, di arrivare all’ipotesi di licenziarla. Lì, in quella piazza, la rabbia le ha fatto proferire frasi che ovviamente sono rimarchevoli: per principio un antifascista non cerca la morte ma difende la vita, perché la intende come fondamento della comunità, come elemento costituente – nel vero senso della parola – della socialità che dovrebbe essere alla base della Repubblica.
La rabbia e magari anche la birra fanno dire cose spiacevoli, rimarchevoli, condannabili. Ma va detto che la rabbia è esasperazione se monta, se sale perché, proprio come nei decenni della ribellione studentesca del secolo scorso, si avverte la frustrazione tra il potere che afferma di difendere la democrazia e finisce col malmenare i democratici antifascisti che si oppongono a comizi, adunanze di chi non dovrebbe avere cittadinanza politica nella Repubblica.
Tutto opinabile? Può darsi, anche questo finisce col diventare un mero esercizio di retorica e di dialettica se si tenta l’interpretazione sia della storia quanto delle norme che ispirano ancora oggi il diritto italiano in merito alla riorganizzazione del disciolto partito fascista.
Ciò che è sbagliato è fare dell’indignazione su un singolo caso una indignazione generalizzata, tipico atteggiamento di chi a destra vuole fascistizzare un po’ tutto: è una mania pressapochista che molti adottano quando banalmente mettono tutto dentro un unico calderone.
I centri sociali sono tutti sfasciavetrine, violenti, aggressivi. Invece le coltellate dei fascisti sono singole, non sono mai accreditate come comportamento consuetudinario di chi si ispira alla virulenza del ventennio mussoliniano, alla negazione della democrazia proprio in nome delle libertà democratiche stesse.
L’indignazione, da un po’ di tempo a questa parte, ha cambiato campo culturale: s’è spostata a destra. Un po’ come la psicologia culturale del Paese che vive di paure e fobie incontrollabili se non da chi vuole accaparrarsi milioni di voti tramite la trasmissione dell’insicurezza come stato sociale permanente: dal lavoro alla vita quotidiana di tutti i giorni fatta di tanti piccoli episodi personali, scenette che viviamo senza accorgerci che la percezione e l’essenza sono due concetti profondamente differenti.
Ma la percezione, per l’appunto, è influenzabile perché è soggettiva. L’indignazione, invece, diventa collettivizzabile: un unico elemento di pseudo socialismo cerebrale di cui veramente si ha molto poco bisogno. Anzi, per niente.
Ma, per fortuna, i sentimenti sono patrimonio universale e quindi anche io posso indignarmi e lo faccio quando ascolto trasmissioni che mistificano la realtà e mostrano le persone come problemi, come nemiche di tutte e tutti noi perché non sono italiani e provengono da altri continenti.
Mi indigno quando leggo programmi elettorali che parlano di italiani per nascita allorché si sia figli solo di italiani. Un razzismo mascherato che vuole apparire persino umano nel proporsi come vicino al popolo. Mi indigno quando ascolto le persone affermare che l’amore ha una precisa connotazione: soltanto quella eterosessuale. Chi ama una persona del suo stesso sesso diventa un depravato, un amorale, anzi un immorale, indegno di poter voler bene a dei figli: perché, si sa, gli omosessuali hanno un istinto pedofilo nel loro essere gay, lesbiche, transgender…
Mi indigno perché voglio liberare l’indignazione dal pregiudizio e da tutti quei filtri che ne fanno uno strumento di prevaricazione, di condanna, di anatema, di stigma in base al colore della pelle, all’origine della “razza” da contare oltre la settima generazione, alla spontaneità dei sentimenti e delle idee che sono magari semplice, naturalissima umanità e vengono etichettate come “buonismo”.
Mi indigno davanti alla declinazione delle parole nel contrario di loro stesse: quando ci si appella “libertari” e si sostengono i peggiori lineamenti di politica economica liberista europei; quando ci si definisce “di sinistra” e si è pronti a fare governi di scopo per costruire una legge elettorale con chi ha fatto fino ad oggi leggi elettorali incostituzionali.
Mi indigno quando sento parlare di “par condicio” per tutte le idee e le proposte politiche di questa campagna elettorale infreddolita e nevosa e poi nelle maggiori trasmissioni televisive vedo comparire solo quelli che sono accreditati come gli unici possibili a costruire la politica nazionale in virtù del fatto che sono “maggiori” e che possono, pertanto, garantire al potere il suo perpetuarsi.
Mi indigno per chi non si indigna. Almeno non abbastanza. Perché una giovane insegnante ha profondamente sbagliato ad augurare la morte alle forze dell’ordine. E’ solo rabbiosità quella: non c’è nulla di politico in quelle urla. Accusatemi pure d’essere “troppo politico”, ma tutto ciò che è impolitico spesso finisce con il nascere dalla istintività e quindi è inutile oltre che dannoso per chi lo pratica.
Un insulto, una maledizione, un moto di rabbia non producono politica ma devono comunque essere contestualizzabili per comprendere come mai sono generati e vissuti così visceralmente da chi ha una coscienza civile e sociale fondata su una istruzione e una cultura certamente non comuni.
L’indignazione, dunque, può tornare ad essere una pietra angolare della politica di sinistra, dell’antifascismo stesso, della “democrazia” intesa come “potere popolare”. Senza indignazione non c’è rivoluzione, non c’è spinta verso il cambiamento. L’indignazione vera è quella che ti conduce a combattere le ingiustizie e non quella che ti spinge ad odiare.
Insomma, l’indignazione è di classe. Di classe sociale. Ed è vera soltanto se nasce dalla coscienza degli sfruttati. Ogni altra indignazione è un tentativo d’imitazione rispetto ad un originale che passerà di moda. E per il 4 marzo… tanto, così per ricordarlo… Potere al Popolo! Per indignarsi anche dopo…
MARCO SFERINI
1° marzo 2018
foto tratta da Pixabay