Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?

E’ probabile che quando si scrive un libro, anche solo un racconto o un editoriale, oppure una recensione come questa, si attui una qualche forma di autoconsapevolezza, di autocoscienza...

E’ probabile che quando si scrive un libro, anche solo un racconto o un editoriale, oppure una recensione come questa, si attui una qualche forma di autoconsapevolezza, di autocoscienza e che quel lavoro destinato al pubblico interesse possieda un pizzico di valore in più rispetto alla semplice (si fa per dire) forma scritta. La catarsi dell’autore dovrebbe essere considerata parte integrante di un fluire di parole su una pagina, attraverso le moderne tastiere del computer e, fino a non molto tempo fa, mediante le macchine da scrivere e, prima ancora, con penne e calamai.

Ci sono libri, poi, che trasudano in tutta evidenza il travaglio dello scrittore, perché la trattazione è fortemente impregnata di eticità, di ricerca in tal senso e di condivisione delle proprie opinioni col resto dell’umanità. Senza troppe pretese di convincere chissà quali platee alla più nobile delle cause, ma con la voglia di spandersi, di diffondersi un po’ anarchicamente, sfuggendo alle consuetudini dei percorsi del mercato dei libri, dell’affarismo facile che un ottimo giornalista-indagatore, un sapiens intelligentemente curioso come Johathan Safran Foer, potrebbe ottenere senza troppi sforzi. Comodamente da casa, stando seduto alla propria scrivania a redigere questo o quel racconto, quella o un’altra biografia fantastica o aderente alla realtà.

Invece, l’importanza dei libri di Safran Foer è proprio questa: sono pensati col metodo dell’accurata indagine giornalistica su strada, visitando tutti i luoghi e parlando con tutte le persone in oggetto, e sono scritti con la fluidità di un romanziere d’altri tempi. Pieni di particolari che non si accavallano, che rimangono ben impressi nel lettore che, lo si può dire senza tema di smentita, rischia di farsi travolgere dalla non-sceneggiatura del testo che mostra tutti gli scenari di un dramma che viviamo ogni giorno e su cui, proprio ogni giorno, apriamo molto poco le nostre coscienze perché gli occhi ci raccontano altro…

Moni Ovadia ha definito “Se niente importa”, sottotitolo “Perché mangiamo gli animali“, un “libro necessario“. E lo è, effettivamente. E’ un testo che affronta il problema (perché di questo si tratta) degli allevamenti intensivi senza l’accanimento etico di un certo estremismo animalista (vegetariano o vegano che sia…) che non fa bene, proprio per niente bene, prima di tutto al mondo animale cui si guarda con attenzione e che si vuole proteggere dagli eccessi dis-umani.

Il libro di Jonathan lo si divora – letteralmente – in poche ore. E fin chi si divora una lettura, nessuno al mondo soffre, nessuno viene portato al macello, nessuno viene sventrato, tagliato a metà dal naso alla coda per essere sezionato in tante parti e venduto a pezzetti nelle grandi catene industriali di carne. Leggere e sapere: questo è il binomio cui lo scrittore si dedica in questo lavoro meticoloso. Una indagine tremenda, prima di tutto per l’autore che la mette insieme con la pazienza di chi parla a persone riottose, che gli voltano le spalle il più delle volte, perché certe domande, certe riprese e certe traduzioni di ciò che ha visto nella forma scritta sono peggio di alcune istantanee.

Fotografia e racconto sono immagini della stessa crudeltà che si rende oggettiva nei macelli dell’America a stelle e strisce: nella maggior parte di questa filiera zootecnica le “normali” procedure previste dalla legge per rendere “umano” l’abbattimento degli animali sono costantemente violate. Le eccezioni sono davvero tali: pochissime. Jonathan ci accompagna, in ogni pagina del suo libro, in un viaggio atroce, duro, aspro, difficile da sostenere. Perché le sue descrizioni sulla standardizzazione del dolore dei maiali, delle oche, delle mucche, dei cavalli, persino degli asini e di tutti gli animali che la maggior parte dell’umanità antropocentrica si attribuisce come cibo necessario o come semplice capriccio alimentare, sfizio culinario, sono descrizioni efficacemente reali: parola dopo parola, riga dopo riga, l’occhio di Johathan è l’occhio di chi legge.

“Se niente importa” non è una casistica di metodi di macellazione: è un libro empatico, che confessa tutte le emozioni provate dal suo autore nel guardare un maiale che va alla morte e che ricambia quello sguardo. E ti viene da pensare: io sono l’ultima cosa che ha visto quell’animale prima di essere colpito dalla scarica della pistola per quella che viene definita “elettronarcosi“. Il suino viene stordito, praticamente addormentato dallo shock elettrico, appeso ad un gancio, squartato e lasciato lì mentre il sangue cola.

Questa immagine orribile è la più pietosa, quella che proviene da un mattatoio che Foer definisce il “paradiso” per gli animali destinati alla macellazione… E non si può solo immaginare ciò che accade negli altri. Anche senza entrarvi, si può fare questo percorso di condivisione del dolore grazie al racconto di Jonathan.

E’ ovvio che l’intento dell’autore è provare a sensibilizzare più persone possibili circa il tema del consumo di carne (quindi anche i pesci): per un punto di principio etico, legato ad una critica antispescista di una società dei consumi che riduce tutto a merce, animali umani e animali non umani, ambiente, natura, corpi e menti, sentimenti, cose di ogni tipo; per un motivo legato alla salute di ognuno di noi, visto che è dimostrato che il consumo di carni – soprattutto quelle di origine industriale, lavorate con prodotti che nuocciono al nostro organismo – aumenta almeno del 44% la possibilità dell’insorgenza di problemi cardiovascolari, infiammazioni intestinali, tumori; per un terzo e non certo meno importante motivo: la produzione di carni esige uno sfruttamento delle risorse ambientali così abnorme da costringerci oggi – per fortuna – ad un ripensamento dell’onnivorismo che, oltre tutto, non è affatto necessario alla sopravvivenza della specie umana, visto che non ci troviamo più nella preistoria, al tempo delle caverne o delle palafitte.

Le pagine etiche di “Se niente importa” si dividono in due grandi categorie: quelle personali, in cui l’autore ci regala pezzetti di una biografia non dichiaratamente tale, citando episodi della sua infanzia e della sua giovinezza in cui ha avuto un lampo rivelatore su temi cui non aveva affatto pensato, aprendosi a constatazioni sempre più circostanziate sul mondo che lo circondava; e quelle che sono strettamente legate al reportage che mostra tutto l’orrore di un consumo di alimenti dietro i quali c’è, imprescindibilmente, inevitabilmente, sofferenza, dolore, stress, paura, panico, terrore vero e proprio.

Non c’è, infatti, carne commestibile – ad oggi – senza che si passi attraverso l’uccisione di un essere vivente. Quello che spregiativamente viene definito “un animale” e che fa parte di un linguaggio molto ricco, usato tutti i santi giorni, per stigmatizzare persone, eventi. Oltre ai modi di esprimerci strettamente connessi alla nostra specie (sessismo, omofobia, razzismo e insulti di varia natura legati alla religione, a questo o quell’altro dio), siamo soliti apostrofare gli altri con paragoni che riguardano quel regno animale più vasto che include, oltre a noi, anche la maggior parte degli esseri viventi su questo pianeta.

Per questo Jonathan Safran Foer scrive un libro che non pretende di fare la rivoluzione antispecista (di cui ci sarebbe tanto bisogno…): perché il suo è un atto di denuncia che non ha il carattere dell’invettiva, ma che vuole mostrare e dimostrare come sia evitabile la zootecnica piegata alle (s)ragioni del mercato capitalistico che soddisferebbe qualunque tipo di domanda di carne senza porsi alcun problema etico. Problema che infatti non si pone un po’ da sempre: miliardi di animali vengono uccisi ogni anno per una industria della carne che mette sulle nostre tavole prodotti così alterati dalle trasformazioni chimiche cui sono sottoposti, da essere non solo cognitivamente altro dal cadavere da cui provengono, ma anche materialmente tali.

«La decisione di non mangiare gli animali è necessaria per me, circoscritta e personale. E’ un impegno preso nel contesto della mia vita, non di quella di qualcun altro. […] E’ abbastanza chiaro che l’allevamento intensivo è più di qualcosa che disapprovo personalmente, ma non è chiaro quali conclusioni ne seguano». E’ un “in sospeso” di una presa di consapevolezza che va a scontrarsi con un fenomeno globale, che va indietro di millenni e che si perpetua ma che è destinato a cambiare perché la natura stessa costringerà l’onnipotente specie umana a rivedere i propri comportamenti. E non solo quelli alimentari.

La sostenibilità di questo antropocentrismo, che si rinnova nel liberismo capitalista moderno, è qualcosa di più della quinta essenza di una anti-etica manifesta e palese: è una contraddizione che va risolta attraverso una sempre maggiore presa di consapevolezza del fatto che ciò che facciamo alle altre specie per il nostro piacere è terribile e rimarrà nella nostra storia come una vergogna cui guardare ogni volta avremo la tentazione di tornare a non rispettare più la vita di ogni individuo che transita per questa Terra.

Ma non c’è anatema alcuno, non c’è condanna da addossare al singolo che finisce con l’essere un prigioniero di una catena alimentare “tradizionale” che produce una indiscriminata sindrome di Stoccolma, una reclusione dentro abitudini che possono essere cambiate iniziando a farsi delle domande e non dando niente per scontato, ricordandosi sempre, come la nonna del nostro autore, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, che: «Se niente importa, non c’è niente da salvare».

SE NIENTE IMPORTA
PERCHE’ MANGIAMO GLI ANIMALI?

JONATHAN SAFRAN FOER, GUANDA, 2010
€ 18,00

MARCO SFERINI

10 novembre 2021

foto: particolare della copertina del libro

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