Se l’MSI era una “destra democratica”, allora tutto può essere

Quanto l’opportunismo di governo possa giocare in favore di un ridimensionamento del revisionismo storico in relazione alla propria storia politica e a quella dei propri partiti di riferimento, ebbene...
Giorgia Meloni

Quanto l’opportunismo di governo possa giocare in favore di un ridimensionamento del revisionismo storico in relazione alla propria storia politica e a quella dei propri partiti di riferimento, ebbene lo abbiamo potuto constatare ascoltando quanto affermato dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di fine anno.

La risposta è: poco o niente, se ci si attendeva una qualche forzatura da parte della grammatica istituzionale nei confronti dell’accesa difesa di un passato neofascista che, ora, in molti si accingono a ridefinire con l’aggettivo meno impattante (e già per questo potenzialmente revisionista) che risponde al concetto di “post-fascismo“, di “post-fascista“.

Che cosa ci si può aspettare da una leader di destra estrema, tutt’altro che liberale, dalla fisionomia di un conservatorismo in stile tatcheriano? Niente altro se non che difenda – ed anche piuttosto apertamente – i propri convincimenti: ossia che l’Italia deve vivere nella pace sociale, nella considerazione univoca del ceto medio come elemento portante della produttività e della ricchezza (tutt’altro che generale), nella riproposta di quello che fu – tra l’altro – un cavallo di battaglia del Movimento Sociale Italiano: il presidenzialismo.

Allora era il viatico per cercare di fare dell’Italia un paese simile alla Grecia della dittatura militare dei colonnelli. Oggi è quella riforma costituzionale che si esige, come bottino della vittoria elettorale, della definitiva torsione del Paese verso una incultura della socialità e del solidarismo, rivolto piuttosto ad una tolleranza malcelata verso ogni differenza, verso ogni critica che riguardi l’alternativa tanto al sistema nel suo complesso quanto a singoli aspetti che, tuttavia, ci tocca subire ogni giorno.

Giorgia Meloni è sagace, pronta a rispondere ad ogni domanda e, quando si tratta di difendere la storia del MSI lo fa, proprio grazie alla posizione di forza che ha acquisito, al potere che gestisce per volontà popolare, per espresso mandato della “nazione“, definendo il partito di Romualdi, Almirante, Michelini, Rauti e Fini come un contenitore delle pulsioni rabbiose dei neofascisti che, altrimenti, sarebbero divenute un problema per la democrazia italiana.

Insomma, il Movimento Sociale Italiano, nel racconto della Presidente del Consiglio, avrebbe avuto quella funzione di nume tutelare, da destra, di una stabilità per il Paese che, di contro, sarebbe scivolata verso una chissà quale sorta di nuova guerra civile, di nuovo continuo contrasto permanente tra opposte fazioni.

E’ un ottimo esercizio retorico, abile e sfacciato, perché in un solo colpo spazza via tutta la storia della galassia neofascista italiana, che possiamo anche definire post-fascista ma solo nel senso temporale e cronologico che il termine può acquisire: mai, almeno fino ad oggi, considerando ciò che l’aggettivo qualifica come qualcosa o qualcuno che sia andato oltre il fascismo, oltre l’idea di uno Stato forte, autoritario, in cui il Parlamento avesse un ruolo secondario e non fondamentale e primario come nella nostra Repubblica.

La nostra Repubblica. Quella democratica, antifascista, nata dalla Resistenza. Non quella di Giorgia Meloni che potrà anche dirsi democratica, ma che si pretende sia presidenzialista e differenziatamente autonoma. Un pasticcio incostituzionale che unirà il populismo sovranista dei leghisti con il conservatorismo meloniano sul minimo comun denominatore rappresentato dalla maggiore attribuzione di poteri tanto alla figura del Presidente della Repubblica quanto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Quanto possa reggere a tutto questo la divisione equipollente dei poteri dello Stato è davvero difficile da poterlo dire: se si andasse verso una progressiva unificazione delle funzioni, creando un sincretismo sempre crescente tra Colle e Palazzo Chigi, non si farebbe altro se non realizzare uno dei programmi di una destra tutt’altro che liberale, ma invece vistosamente nemica del Parlamento come ente regolatore della vita della Repubblica attraverso la formulazione, la discussione e l’approvazione delle leggi.

Quale legame esista tra il progetto presidenzialista di Meloni e la propria cultura politica post-fascista rimane un enigma che, purtroppo, solo andando avanti col tempo potremo scoprire. Anche perché, dalle parole della leader di Fratelli d’Italia, si evince come lei per prima, e naturalmente l’intero governo, intenda avere davanti a sé una prospettiva quinquennale, quella intera legislatura che nessun esecutivo, da molto tempo a questa parte, ha mai portato a termine.

La pericolosa simmetria tra passato e presente, in questo caso, è la sostanziazione di un programma di governo che, solamente nei suoi primi tre mesi di lavoro, ha già procurato serie lesioni ad un impianto democratico tutt’altro che consolidato e stabile.

Non fanno sperare nulla di buono né l’interpretazione istituzionale del ruolo di moderata di destra ricoperto dalla Presidente del Consiglio, per obbedienza protocollare e relativa accettazione e rispetto presso le cancellerie degli altri Stati e dell’Unione Europea, e tanto meno le parole del Presidente del Senato sempre sulla storia del MSI o sul 25 aprile.

Non ci si doveva aspettare nulla di diverso. Questa è la destra. Questo la destra dice e fa. L’Italia, in tanti decenni di vita repubblicana, non è riuscita ad avere prima una sinistra socialista riformatrice, invece subordinata ad un centrismo democristiano che, qualche volta, cedeva al fianco più conservatore (basti pensare a Tambroni e all’appoggio esterno proprio del MSI al suo governo); e non è riuscita nemmeno ad avere una destra liberale, sul modello gollista, che rientrasse pienamente nel solco del costituzionalismo, della fondazione della Repubblica stessa.

Il solo PLI non poteva assolvere a questa funzione, così di nicchia, così piccolo e dal destino di satellite perenne della DC. Il Movimento Sociale Italiano, nato proprio per coagulare i residui tutt’altro che residuali della repubblichina di Salò, mai e poi mai si sarebbe potuto adeguare al nuovo corso istituzionale e politico.

Ed infatti, per l’intero arco della sua vita di partito apertamente nostalgico del fascismo, legato ai peggiori elementi destabilizzatori della democrazia (Junio Valerio Borghese, Rodolfo Graziani e una serie di personaggi finiti tutti sotto processo con pesantissime accuse di stragismo e di eversione), il MSI fu il partito extra-costituzionale, al di fuori del patto della Costituente e quindi impossibile rubricare tra le forze politiche democratiche.

Non lo era e non lo voleva essere. E non lo fu. Se oggi Giorgia Meloni si profonde in una riabilitazione della fiamma tricolore – che ha inserito nel simbolo del suo attuale partito, come chiarissima, cristallina evidente voglia di continuità non soltanto storica con il partito erede del fascismo più truculento e orrorifico, quello dei 600 giorni di Salò – lo fa per tentare una argomentazione sottile sulla legittimità del MSI, della sua vita, dei suoi esponenti.

Se non provasse a creare questo tipo di narrazione revisionistica, diventerebbe lapalissiano come, pur stando dentro le norme, le leggi e la punta del diritto democratico, si sia sempre consentito a formazioni fasciste, neofasciste o post-fasciste di presentarsi alle elezioni dal 1948 ad oggi e di trovare proprio in questo una legittimazione da parte dello Stato

Se l’MSI rientra nel nuovo filone di un revisionismo storico-politico che ne fa un partito democratico, quindi antitetico al fascismo, allora tutto può essere: le squadracce missine che bastonavano gli studenti oppure l’ingresso di Ordine Nuovo nella fiamma tricolore dopo l’inaugurazione della “politica del doppiopetto” e il ritorno di Almirante alla segreteria, sono elementi che possono caratterizzare i missini come sinceri democratici?

Monarchici, golpisti vecchi e nuovi, trame e intrecci oscuri sulle stragi più pesanti che hanno macchiato la storia della Repubblica, sono tutti e tutte vissute all’ombra della fiamma. Quel partito, dunque, avrebbe contenuto quali pulsioni eversive? Queste cosa sarebbero state? Giochetti di società? Goliardate? Centinaia di morti causati dai neofascisti, stragi di cui si conoscono matrice, mandanti ed esecutori ma che hanno finito per rimanere senza un colpevole sono state dunque tenute a bada dalla presenza “democratica” del MSI nella vita politica del Paese?

Parrebbe il contrario. Pare il contrario. E’ il contrario.

«Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. […]», scriveva Pasolini sul Corriere della Sera in quel 14 novembre 1974. Aggiungeva di non avere prove e nemmeno indizi. Allora.

Oggi sappiamo qualcosa di più, e tuttavia non basta per mettere al riparo la Repubblica dal tentativo di alterarne ancora una volta la storia, facendo passare un partito come il MSI al pari di un partito democratico e perfettamente aderente allo spirito della Costituzione antifascista.

Ieri come oggi, le forze fasciste e post-fasciste sfruttano il loro carattere presuntamente “antisistemico” per divenire, una volta al governo delle istituzioni, i migliori baluardi in difesa non solo del capitalismo ma di tutte le sue propaggini sovrastrutturali, adeguandosi resilientemente a qualunque compromesso sia possibile.

Ad Almirante capitò dopo i fatti di Genova, nel 1960, quando il MSI divenne il partito al di fuori dell'”arco costituzionale“, per Meloni è oggi la cosiddetta “occasione della vita“, quella che forse arriva una volta sola e poi non si ripresenta proprio più. La circospezione con cui la Presidente del Consiglio esprime le proprie opinioni, risponde alle domande dei giornalisti è un utilitarismo che deve mettere in pratica per il ruolo che ricopre.

La forma va salvaguardata in questi casi, perché l’aggressività dei toni non fa bene alla stabilità di un governo.

Soprattutto se si tratta di un governo di estrema destra che ha tutte le intenzioni di far valere il suo culturame intriso di xenofobia, razzismo, particolarismo, classismo esasperato a tutto vantaggio della piccola e media impresa, contro un mondo del sociale e della valorizzazione delle differenze, contro il sindacalismo organizzato nella pienezza delle sue prerogative, contro la debolezza strutturale del Paese che sembra facile da controllare con qualche briciola di prebende, ma che non se ne accontenterà a lungo.

La coscienza di classe di larga parte dei poveri e dei disoccupati, dei precari e dei lavoratori sarà anche ridotta al lumicino, ma sono sempre le essenze e le fattualità che rimestano nella sonnolenza interiore, nell’intorpidimento della critica. Nessun governo è mai al sicuro quando le crisi economiche si stratificano, diventano totalizzanti e generano quello che nemmeno si immaginava potesse venire fuori.

Ora è il tempo delle prospettive meloniane di lungo corso. A fare in modo che non si realizzino tocca ad una opposizione sociale molto più ampia di quella parlamentare. Tocca ad una sinistra ritrovata, rinnovata, rifondata nuovamente mettersi in gioco per arginare questa deriva conservatrice, tatcheriana e presidenzialista.

MARCO SFERINI

30 dicembre 2022

foto: screenshot tv

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