Se l’ipotesi del conflitto nucleare diventa discorso corrente

L'analisi. In nome di un cieco affidamento al fascino della guerra, l’impensabile e l’indicibile, è diventato, nella cronaca quotidiana e nell’immaginario, "opzione possibile"

Mentre la guerra in Ucraina sembra entrare in una fase di relativo stallo, pur con il suo quotidiano feroce sacrificio di sangue, si fa sempre più acuta la sensazione che per un qualche errore possa accadere l’irreparabile. Un allargamento del conflitto ad altri Paesi, magari dell’Alleanza atlantica. Un confronto di scala maggiore, per estensione e distruttività.

D’altra parte si sa, quando in un luogo si ammassano troppe armi…le armi possono sparare da sole. Ma soprattutto si sa che quando nel racconto prevalente viene costruito uno scenario, le possibilità che quello scenario si materializzi sul terreno crescono in modo esponenziale.
Per questo ciò che avviene nel “mondo dell’informazione” è importante. Carico di responsabilità.

E il mondo dell’informazione oggi, almeno quello italiano, è sempre più drammaticamente ostaggio della guerra. La guerra è entrata nella testa degli operatori dei media (di molti di loro, per fortuna non tutti). Ha colonizzato il loro linguaggio. Monopolizzato i loro palinsesti. Occupato il loro stesso immaginario. E semplificato alla velocità della luce la complessità delle situazioni reali, riconducendola all’unico vettore dominante: la “logica delle armi”.

Quella che conosciamo quotidianamente in dosi massicce è un’informazione adrenalinica, spesso urlata, comunque assertiva, in cui abbondano i reportages dal terreno di guerra, le immagini serialmente ripetute dei cumuli di macerie, su cui spesso si sovrappone l’immagine in primo piano dell’inviato in tenuta militare, ad accentuare un senso d’urgenza e di azione in corso che non sembra lasciar spazio a pause di riflessione. Esattamente come nei talk show, dove il coro unanime non sembra, quasi mai, considerare altre alternative che non siano di tipo militare. Altri mezzi di superamento della tragedia in corso che non siano quelli legati all’armamento.

È come se l’intero repertorio della diplomazia, che pure in circostanze altrettanto drammatiche ha spesso inventato soluzioni civili, fosse andato d’un colpo “fuori corso”. Mentre chi prova ad accennare all’ormai ampia e sofisticata elaborazione da parte delle teorie della non-violenza, non tanto sul versante dei fini quanto su quello dei mezzi, spesso altrettanto se non più efficaci di quelli rozzamente consueti della tecnica militare, è guardato con sorrisi di sufficienza e di compatimento.

Penso a Gene Sharp e al suo prezioso manuale The Methods of nonviolent action, sull’ “uso strategico dell’azione non violenta come alternativa pragmatica alla violenza”. Penso all’elaborazione filosofica di un pacifista non certo arreso come Giuliano Pontara, e alle sue amichevoli interlocuzioni col Bobbio de Il problema della guerra e le vie della pace. Penso alle idee di un grande liberal-socialista come Aldo Capitini, l’inventore della marcia Perugia-Assisi nel pieno della guerra fredda, quando lo scontro nucleare sembrava a un passo.

Un patrimonio di idee e di tecniche su cui si sono formate generazioni di pacifisti mai rassegnati a subire la prevaricazione degli aggressori e dei preponenti, ma consapevoli dell’elementare verità, ripetuta ancora una volta di recente dal fondatore dell’Arsenale della pace di Torino, Ernesto Olivero, secondo cui “il ricorso alle armi non è mai la soluzione”. È in forza di questa travolgente messa al bando del pensiero razionale e ragionevole in nome di un cieco affidamento al fascino della guerra, se oggi quello che ancora ieri sembrava l’impensabile e l’indicibile, ovvero l’ipotesi di un conflitto nucleare, è diventato nella cronaca quotidiana e nell’immaginario collettivo ”opzione possibile” (evocata per primo dall’aggressore Putin ma non respinta, anzi, da Biden): qualcosa di cui si parla quasi en passant, inscritta nell’orizzonte delle alternative in campo, con una sorta di annoiata nonchalance.

E intanto non si fa una piega quando si legge che l’Unione europea sta pianificando la produzione e la distribuzione di compresse allo iodio per contrastare (sic) l’effetto delle radiazioni. O quando si apprende dall’intrattenimento mattutino, che in Veneto la gente telefona ai sindaci per prenotarsi nel gigantesco bunker antiatomico della Nato. O ancora, quando si celebra negli editoriali dei giornali mainstream la sciagurata scelta tedesca di riarmarsi con uno stanziamento monstre di 100 miliardi di euro, che azzera d’un colpo il valore civilizzatore della lezione appresa dai tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale riportandoci all’età della pietra del nostro continente.

E intanto anche noi, nel nostro piccolo, siamo scivolati, quasi senza accorgercene e senza soluzione di continuità, in un’ “economia di guerra” – l’espressione è di Draghi – che ribalta di 180 gradi il senso comune precedente, con quella lugubre mozione parlamentare approvata quasi all’unanimità senza uno straccio di dibattito che impegna a riallineare la spesa militare al 2% del Pil (all’incirca 36 miliardi).

Il mondo ci sta cambiando intorno, si sta ribaltando sul suo asse, senza un frammento di pensiero. Sull’onda della tempesta adrenalinica che imperversa nel “metaverso”: il vero luogo geometrico – l’involucro virtuale che avvolge l’universo delle nostre vite concrete e lo sovra-determina – in cui si sta giocando questa guerra che tragicamente ci va attirando nel suo vortice se non sapremo, mentalmente prima che fisicamente, resistervi.

MARCO REVELLI

da il manifesto.it

foto: screenshot

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