Se l’esecutivo comanda e non governa…

Qualche volta l’arroganza del potere soggiace alla determinazione del diritto. Altre volte, invece, la legge si uniforma ai dettami dei governi e, in quei casi, i poteri esecutivi non...

Qualche volta l’arroganza del potere soggiace alla determinazione del diritto. Altre volte, invece, la legge si uniforma ai dettami dei governi e, in quei casi, i poteri esecutivi non amministrano più secondo le loro direttrici ideologiche ed ideali un paese, ma lo comandano. Giorgia Meloni e la sua maggioranza si sono, fin dall’inizio del loro mandato, caratterizzati per una espletazione di coerenza in merito: gestire per poi comandare e, in seconda battuta, collocati i propri uomini e le proprie donne nei posti di potere, comandare per gestire.

Per quanto una democrazia possa essere fallace e imperfetta, se uniformata ad una Carta costituzionale rigida e, tuttavia, non difficile da cambiare (purtroppo), riesce a resistere ai contraccolpi governativi che vorrebbero far saltare l’impianto repubblicano, la laicità delle sue istituzioni, l’equipollenza dei suoi poteri. Lo si evince abbastanza chiaramente dalla vicenda della deportazione dei sedici migranti del Bangladesh e dell’Egitto dai centri di permanenza temporanei italiani a quelli albanesi.

Eclatante non è la decisione assunta dai giudici della Sezione XVIII del Tribunale di Roma, che hanno molto semplicemente applicato il diritto italiano e quello europeo mediante sentenze che fanno giurisprudenza nel merito. Eclatante, semmai, è la risposta del governo: un attacco alla magistratura a tutto spiano. I giudici, dunque, fanno politica e la fanno sentenziando. È un refrain ascoltato migliaia di volta dai primissimi tempi dell’era berlusconiana fino, purtroppo, ad oggi.

Ed è l’unico argomento che ha la destra per cercare di occultare le proprie insufficienze, non tanto in materia di conoscenza del diritto stesso, quanto in merito alla complessità del funzionamento di una macchina amministrativa che non è soltanto riferibile al piano istituzionale, ma che, proprio perché concerne singolarità e specificità relative alla vita e alla sopravvivenza quotidiana di ogni singolo individuo, riguarda i rapporti tra cittadini, esseri umani e quel qualcosa di più rispetto allo Stato che è la Repubblica.

La destra manca di una concezione repubblicana della delega del potere che, infatti, acquisisce per mandato popolare e tiene stretto a sé come se si trattasse di una conquista piuttosto che di un prestito a scadenza. Se il governo si può permettere di criticare la magistratura, di attaccarla o di fare del Parlamento una propria dépendance, in pericolo non è solamente l’architettura delle istituzioni ma, anzitutto, il concetto e l’essenza stessa della Repubblica italiana.

La vicenda dei sedici migranti ricondotti in Italia è indubbio che sancisce il fallimento di una operazione meramente propagandistica e finalizzata, con estremo e crudele cinismo, a dimostrare che il governo fa qualcosa per contrastare l’immigrazione incontrollata. Ma, più ancora, rende lapalissiano il fatto che l’ideologia della destra estrema che ci sgoverna è improntata su una illogicità retroattiva che vorrebbe mettere insieme forza del potere con apparenza democratica.

Utilizzare l’impianto costituzionale come fondale scenico di una rappresentazione del rispetto dei diritti fondamentali di ciascuno e di tutte e tutti per spettacolarizzare la capacità energica del governo guidato da un premier solo al comando, con una Presidenza della Repubblica, questa volta sì, ridotta alla mera rappresentanza figurante di un galateo istituzionale da utilizzare nelle cortesie per gli ospiti esteri e le strette di mano di prammatica.

La magistratura romana non ha fatto nulla di eccezionale nell’applicare la legge. Ma nel torpore diffuso dell’abitudinarietà alla torsione giornaliera, lenta, logorante e disdicevolmente continua verso la trasformazione dal carattere parlamentare a quello premieristico-presidenzialista sognato dai missini un tempo, caldeggiato anche da altre forze ma dell’arco costituzionale, ostacolato principalmente dalle sinistre e dai comunisti, anche il dovere compiuto dai giudici sembra rivoluzionario.

Ed in effetti così è e deve essere. Risvegliare un po’ le coscienze che, per potersi riavere dall’anestetizzazione antipartecipativa, dalle locuzioni inflazionate del “lasciamoli governare“, “intanto sono tutti uguali“, “servono pieni poteri” e via discorrendo, hanno bisogno di rendersi conto che il melonismo non è riuscito – almeno non ancora – ad alterare gli equilibri costituzionali e che a quegli stessi equilibri tra i poteri deve rendere conto nella sua funzione di governo del Paese.

Fino a che esisterà la possibilità di far valere l’essenza prima dei ruoli assegnati dalla Costituzione ai singoli settori amministrativi che fanno capo alla suddivisione stessa dei poteri, nella loro piena autonomia e nella loro altrettanto piena interdipendenza con gli altri ambiti di gestione (e non di comando) dello Stato, la Repubblica avrà una possibilità di rimanere parlamentare, riavendosi dal processo di decostruzione delle fondamenta sociali che sono, prima di ogni altra cosa, le pietre angolari dell’essenza democratica.

La teorizzazione dell’inferiorità di alcuni diritti rispetto ad altri va, del resto, di pari passo con la semplificazione volutamente banalizzante della primazia dell’autoctonismo: prima gli italiani vuol dire e ha sempre voluto significare questo. Affermare che esistono diritti superiori e diritti inferiori, così come persone e cittadini di serie A se sono nati in Italia e di serie B se vi sono arrivati. La questione dei tempi per l’ottenimento della cittadinanza è una cartina di tornasole in questo contesto.

L’urgenza di tutta una serie di bisogni sociali, disattesi da politiche liberiste che privilegiano l’interesse privato e imprenditoriale piuttosto che quello del mondo del lavoro e della precarietà diffusa e dilagante, consente, nello strutturarsi della crisi globale ed europea, una facile propaganda al ribasso da parte delle destre di governo: si alimenta così una guerra tra i poveri, escludendo il vertice della piramide e provando a trasferire la lotta dal basso in alto ad una orizzontalità che intacca il concetto stesso di uguaglianza.

Tutto questo impedisce, per primi a noi che osserviamo ciò dal di fuori delle stanze governative ed istituzionali, di percepire come elementi della comune disperazione sociale i migranti; la lettura che diamo, mediata dalla narrazione meloniana e leghista, è di una competizione che ci sarebbe tra italiani e non italiani per assicurarsi il minimo della sopravvivenza possibile.

Il tutto mentre l’esecutivo mette in sicurezza i privilegi delle grandi aziende, protegge i capitali, sostiene l’alta finanza e fa il contrario di ciò che dichiarava di voler fare ancora solo due anni fa nei comizi di piazza. Atlantismo a tutto spiano, patti reverenziali con l’Europa della BCE e della Commissione von der Leyen pronta a rafforzare l’asse con un’America che cerca nel Vecchio continente l’intercapedine necessaria per spingersi oltre nell’Est, con la guerra d’Ucraina e nel Medio Oriente con quella di Gaza.

La funzionalità del governo italiano è pressoché totale nella competizione globale vista da Occidente e non vi è mai stato nessun accenno o accento critico verso l’amministrazione Biden, rimproverata soltanto per la sua timidezza nel non essere ancora più decisa nel saldare il ruolo liberista nello Stato con quello di controllo del potere, di comando piuttosto che di gestione delle vite di centinaia di milioni di persone.

Di fronte a sedici poveri cristi, venuti dalle remote lande di paesi valutati come “non sicuri“, secondo gli standard internazionali, il vittimismo entra in scena da protagonista. Sullo sfondo, ricordiamolo, c’è sempre il cartonato con la dimostrazione di fedeltà senza se e senza ma alla Costituzione, ai valori che essa esprime: mentre lo spettacolo si trasforma da tragedia in farsa. Salvini raduna ministri, parlamentari e amici sotto il tribunale dove si svolge il processo Open Arms; Meloni dal Libano dichiara che non spetta ai giudici la valutazione sulla sicurezza degli Stati.

L’attacco alla magistratura è un combinato disposto di rivendicazioni di ruoli che vanno dalla protezione dei confini, come atto propriamente politico ed ideologico (ergo: altamente propagandistico), alla riscrittura in un prossimo Consiglio dei Ministri di un testo correttivo che renda attuabile il piano di deportazione dei migranti in Albania. Il tutto con un danno erariale notevole: ogni persona trasportata al di là del Canale di Otranto, costa alle casse pubblica circa diciottomila euro.

Ma, anche qui, gli esponenti del governo sentenziano dalle televisioni e dai loro spazi internettiani: «Non abbiamo messo nuove tasse e abbiamo trovato le risorse per tutto». Peccato che abbiamo alzato le vecchie tasse, aumentato le accise sulla benzina, fatto finta di chiedere sacrifici alle banche che presteranno a Palazzo Chigi due miliardi e mezzo di imposte che saranno restituite a breve, stretto giro di posta. I soldi spesi nell’operazione Albania potevano essere impiegati altrimenti.

La modificazione sovrastrutturale dell’impianto costituzionale della Repubblica val bene il destino cinico e tanto baro di sedici migranti. L’Europa ha smentito Piantedosi: quel modello non piace alla Germania e nemmeno all Francia. Nessuno di questi paesi è esente da critiche per la gestione del fenomeno epocale migratorio. Ma, forse, il tasso di civilizzazione è leggermente maggiore oltralpe rispetto alla nostra Italia. La magistratura, dunque, ha fatto il suo sacrosanto laico dovere.

Il governo, se davvero rappresentasse un interesse condiviso e pubblico, dovrebbe imparare dagli errori, rispettando i giudici e non dichiarandoli quasi inabili alla loro professione, attaccandone la professionalità e l’esperienza. Nessun magistrato ha rintuzzato le azioni dell’esecutivo. A posteriori, dopo che il tutto era stato fatto, chiamati a valutare le condizioni di permanenza dei migranti nei centri albanesi battenti bandiera tricolore, gli uomini di legge hanno letto il diritto e lo hanno applicato.

Si peccherebbe di ingenuità se si ritenesse così sprovveduto il governo da essere incappato in errori talmente grossolani. Quali consiglieri giuridici ha Palazzo Chigi? Anche loro lavorano contro l’esecutivo e c’è, dopo quello dei poliziotti trasferiti ad altri piani, un complotto per mettere in crisi il governo Meloni? Siamo seri… È la Presidente del Consiglio, insieme al vicepremier Salvini e ad altri suoi ministri, che ha forzato sul piano del diritto nazionale e internazionale.

La speranza era quella di esercitare in questo modo delle preventive pressioni, creando un clima adatto allo scopo, per indirizzare le decisioni magistratuali in un senso piuttosto che in un altro. Ma c’è un giudice a Berlino quasi sempre quando si tratta di costringere indirettamente a subordinare la legge alla forza delle direttive di governo. Ne esce indebolito, drammaticamente, un Parlamento svuotato delle sue funzioni da un uso delle Camere come ratificatrici delle opzioni scelte da Palazzo Chigi di volta in volta.

L’obiettivo è stato mancato. Ma la minaccia, tutt’altro che fantasma, è pronta a riproporsi, a ripartire alla carica, a rimettersi sulla carreggiata che porta alla “democratura“, alla mutazione genetica della Repubblica, alla compressione dei diritti umani, civili e sociali. L’opposizione va coltivata senza soluzione di continuità: giorno dopo giorno, creando qualcosa di più delle premesse per un fronte progressista che sia l’ossigeno per il futuro di una Italia vivibile. Da tutti coloro che la attraversano, da tutti coloro che la abitano.

MARCO SFERINI

19 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli