C’è un intero sistema economico che mostra tutti i segni della fragilità cui è da sempre destinato per sua natura: le borse europee, americane e oggi anche quella di Tokyo danno forti segni di cedimento sui maggiori titoli azionari.
Purtroppo tutto questo sconquasso finanziario non è determinato da una conflittualità sociale che mette in difficoltà la stabilità delle contraddizioni interne ai rapporti borsistici di mezzo mondo. Ciò avviene per un effetto di contrazione dei mercati sulla base di domande che, a loro volta, si contraggono a seconda degli sviluppi di eventi che non sono di poco conto.
La crisi mediorientale e la minaccia del califfato nero sono uno degli elementi che hanno caratterizzato in questi mesi la caduta del prezzo del petrolio: non che si debba ringraziare Daesh per questo, sia ben inteso. La complessità della guerra siriana e irachena, le relazioni internazionali tra Russia e Stati Uniti – a cominciare dalla crisi ucraina, se proprio vogliamo risalire ad uno dei primi episodi di tensione internazionale di questi ultimi anni tra le due potenze – sono sufficienti a far scendere il prezzo dell’oro nero al barile. E, infatti, chiunque faccia il pieno di benzina si è accorto che siamo scesi da 1,90 euro al litro degli anni scorsi all’attuale 1,40 euro.
Il contenimento dei costi di materie prime di commercio come il petrolio, però, non ha ridato così tanto fiato alle borse da poter assicurare agli investitori dei profitti sicuri. Persino la Federal Reserve, la banca americana, ha ammesso che la situazione è così complicata da non poter garantire i tassi di interesse che oggi paga sui debiti. Arrivare ad una diminuzione dei tassi di interesse significa, anche per chi capisce poco di economia, aprire la strada ad una soluzione che contempli la deflazione, quindi la creazione di una inflazione indotta che svaluti i cambi e che renda i rapporti tra gli Stati (sarebbe meglio dire tra le economie) più lineari e meno turbolenti.
Si cade così nella trappola della sicurezza dei titoli: abbiamo visto quanto sia un terreno scivoloso per qualunque investitore. Sia che l’insicurezza si possa fondare sulla disonesta e su comportamenti palesemente illegali dei dirigenti bancari, sia che derivi da quella “anarchia” dei mercati che è una costante incostante del capitalismo.
Proprio il capitalismo, proprio il sistema che tutto mal regge e governa, è il responsabile ultimo di tutto questo caotico e ingestibile incrocio di cifre al ribasso che viaggiano da est a ovest con una velocità impressionante.
Se lasciato da solo, in piena autonomia di gestione della cosiddetta “crisi economica”, il capitale non è assolutamente in grado di trovare una soluzione che ci diriga verso un piano di uguaglianza. Sarebbe, se si realizzasse, la confutazione della scientificità delle analisi non solo marxiste ma anche keynesiane di un rapporto tra valori, cose e persone che non può andare nella direzione della realizzazione del benessere sociale.
Il punto è che oggi più di ieri la concentrazione dei capitali è così forte e nelle mani di sempre meno persone, da generare concorrenze sempre più spietate, esasperando quelle forze liberiste che provano a regolare il mercato in direzione di garanzie di privilegi esclusivi e inaccessibili persino per i maggiori capitalisti.
La lotta, dunque, si fa importante e spiegata dentro ai livelli più alti dei possessori dei grandi forzieri internazionali, dei grandi gruppi di potere economico.
Non si può rimediare a tutto questo pensando di fare generici appelli alla responsabilità sociale di chi non ha nella sua agenda altro se non la responsabilità privata, la cura del solo interesse particolare.
Serve, invece, una riconsiderazione di un intervento pubblico, dello Stato, nell’economia aprendo questa stessa ad investimenti nel sociale, acquisendo il controllo delle aziende in crisi e determinando così uno spostamento dal privato al pubblico che rovescerebbe decenni di subordinazione di quest’ultimo al primo. Una inversione di tendenza radicale, senza mezzi termini che, però, un governo come quello di Renzi è impossibilitato a realizzare. Per una evidente funzione di classe che svolge con abilità a volte, con grossolana goffaggine altre.
Le sofferenze delle borse dovrebbero essere un termometro di analisi di un sistema economico che ogni tanto saggia le sue debolezze strutturali e che riesce a gestire le sue crisi grazie al costante ritrovamento di unità di classe in vista della perdita di privilegi consolidati e che sarebbe catastrofico perdere.
Le sofferenze delle borse sono un toccasana per noi che non sfruttiamo nessuno, che non giochiamo in borsa e che non partecipiamo ai tavoli degli azionisti che si spartiscono i dividendi di una crisi che dicevano essere passata e che, invece, è viva e riscontrabile ogni giorno.
MARCO SFERINI
13 febbraio 2016
foto tratta da Pixabay