Se la devastazione dell’Ucraina non è solo opera di Putin…

Le guerre sono quanto di più velocemente mutevole si possa oggi trovare sul deprimente e desolante mercato della disumanità globale. Per quanto i fronti possano sembrare immobili certe volte,...

Le guerre sono quanto di più velocemente mutevole si possa oggi trovare sul deprimente e desolante mercato della disumanità globale. Per quanto i fronti possano sembrare immobili certe volte, la loro progressione è un aspetto certamente primario ma legato ad una serie di fattori di politica internazionale che influiscono più sui chilometri di terreno conquistati rispetto a quelli ancora da conquistare.

Le operazioni militari in Ucraina negli oblast occupati (o liberati, a seconda dei punti di vista…) dalle truppe di Putin fanno segnare un avanzamento dell’esercito di Mosca; mentre a nord, l’attacco di Kiev alla provincia di Kursk pare ancora non aver ottenuto il fine della creazione della “zona cuscinetto” come obiettivo di quella che, oggettivamente, pare la migliore azione controffensiva da molti, molti mesi a questa parte.

Fin qui il piano meramente tattico. Proviamo ad osservare anche il fronte di Gaza: nella distruzione più totale delle città della Striscia, Israele afferma di aver preservato un quindici percento di zone ancora “sicure“. Termine che fa amaramente sorridere, perché, a detta delle testimonianze che provengono da quell’inferno a cielo aperto, non esiste più nessun centimetro di terra in cui un palestinese possa dirsi davvero certo di non essere sotto il tiro delle armi di Tsahal.

Un po’ da sempre, ma in particolare nelle guerre divenute ormai sinonimo di una devastante modernità ipercapitalista e liberista, ad un attacco corrisponde un contrattacco e via così per fare in modo che si assottigli sempre di più l’ipotesi della risposta diplomatica: è quella che non si cerca, perché lo scontro conviene al multipolarismo rinascente. Tanto ad est quanto ad ovest. E non esistono settori geopolitici del globo in cui alberghi la virtù democratica come etica sovraordinante e come esempio da dare al mondo.

La stagione dell'”esportazione della democrazia” ha logorato per primi i proponenti a stelle e strisce e ha finito con l’essere platealmente sburgiardata dopo che nel Medio Oriente, al posto dei regimi golpizzati da Washington con l’aiuto degli alleati occidentali, si sono avvitate su sé stesse guerre tribal-religiose, lotte di potere tra i clan che venivano tenuti a bada dalle dittature dei partiti laici baathisti.

Maggiore sbugiardamento ancora lo si è avuto poi con il ritorno al potere in Afghanistan dei Taliban. Il governo degli studenti coranici, che si sono evoluti e sono diventati una classe dirigente a tutti gli effetti, è quanto di più lontano possa esservi dalla scuola di pensiero e dalla pratica di gestione istituzionale e sociale delle potenze euro-atlantiche che avevano presupposto uno Stato democratico a Kabul. L’ipocrisia degli interessati presupposti affaristico-militari degli Stati Uniti e dei loro alleati è così divenuta manifesta.

Senza più il bisogno di intermediazioni metaforiche sulla democrazia, sulla libertà, sui popoli da liberare da governi che, fatte le dovute differenze, non erano meno autoritari di quelli che aprivano campi e prigioni lager dove torturavano al pari – se non peggio – dei regimi mediorientali e africani. La guerra, come strumento di mantenimento dell’unipolarismo globale da parte americana, aveva terminato di assolvere a questo compito dopo la mutazione del radicalismo islamico.

Il passaggio – non certamente voluto – dall’egemonia qaedista a quella del DAESH nella regione dei due fiumi, a cavallo tra Siria e Iraq, passando per le regioni desertiche e lambendo i confini turchi a nord, minacciando Israele più a sud, ha fatto sì che il processo di rivalutazione dell’azione conflittuale, quanto meno regionale, subisse quell’accelerazione repentina di cui si faceva riferimento all’inizio. Prima Obama, poi Trump, ed infine Biden, da angolazioni certamente diverse, hanno implementato il riarmo e hanno spinto la NATO in questa direzione.

A sua volta l’Alleanza atlantica ha fatto da tessera del domino nei confronti dei paesi euro-asiatici, riconoscendo però l’affievolirsi delle tensioni a causa di una vera e propria mancanza di conflitti. Tanto che l’azione difensiva del patto stava per essere surclassata dall’idea di una forza militare europea indipendente rispetto alla presenza delle basi NATO sul Vecchio continente. La decisione del riarmo è, prima di tutto, dopo la crisi pandemica un elemento di caratterizzazione delle politiche dei governi franco-tedeschi.

Dapprima portata avanti con una concertazione bilaterale, negli ultimi anni, immediatamente dopo lo scoppio delle ostilità su vasta scala al confine tra Ucraina e Russia, si è mutata in una rivalità non eccessivamente accesa tra Parigi e Berlino: con tutti i riflessi condizionati del caso in merito alla fornitura di finanziamenti in armamenti verso Kiev.

Questo per rappresentare il baricentro del rinvigorimento nordatlantico in una Europa che stava, nuovamente, subordinando il proprio ruolo confederativo, tanto sul terreno economico quanto su quello di una presunta politica di difesa comune, ai dettami di Stoltenberg e Biden. L’acuirsi della guerra d’Ucraina ha, data la resistenza russa su un tempo lungo che si allungherà ancora di molto (purtroppo), costretto persino il Pentagono a marcare le differenze dalla cecità bellicosa di un paese che, seppure invaso e distrutto ampiamente, ha continuato a respingere qualunque ipotesi di trattativa.

L’assioma è: la Russia deve perdere la guerra. Ma non è detto che questo accada. Soprattutto se alle spalle di Mosca c’è Pechino e se con Putin si schierano tutta una serie di paesi che sono praticamente da sempre in lotta contro i tentativi di egemonizzazione imperialista della Casa Bianca. A volte questa può somigliare ad una aperta sfida al capitalismo da parte di una porzione del pianeta con un’altra idea di sviluppo. Ma non è così: soltanto pochi paesi che si uniscono nell’opposizione all’asse occidentale ed euro-atlantico hanno una concezione alternativa a quella del capitale.

Il resto punta ad un dominio speculare a quello americano, però da una differente angolazione geopolitica e strategica. La contesa mondiale in atto si misura sui fronti citati, dal Donbass alla Striscia di Gaza, e dal nuovo sfruttamento delle risorse e dei popoli africani che vedono arrivare truppe francesi da un lato, truppe russe (della famigerata “Wagner” dall’altro) e investimenti cinesi in ogni settore di rapina possibile: dalle infrastrutture allo sfruttamento delle risorse naturali rimaste.

Una vittoria di Mosca nel cuore dell’Europa, intercapedine infelice tra le diverse opzioni multipolari in campo, sarebbe un colpo al cuore della rigenerazione pseudo-democratica di un mondo che si fa ipocritamente alfiere delle libertà sociali, civili ed umane. Niente di tutto questo. La differenza tra repubblicani e democratici, se osservata da questa angolazione tutt’altro che pregiudiziale e malevola, è veramente esigua: Kamala Harris non smentisce il tracciato bideniano. Trump riconferma la centralità americana rispetto ad una politica estera troppo dispendiosa.

In realtà entrambi sanno, per esperienza di governo, che l’economia di guerra americana fa sempre più fatica a reggere il confronto con quella di una Russia che, a detta ormai un po’ di tutti, ha retto ai contraccolpi dei pacchetti di sanzioni declamati da Ursula von der Leyen come un sicuro argine all’espansionismo russo (salvo tralasciare gli altri espansionismi proprio in chiave militare-finanziaria…) e che, più ancora, ha reagito con il saldamento dell’alleanza prima informale e poi sempre più stretta con il gigante cinese.

La Germania, in questo frangente, ha iniziato un riarmo quasi unico in seno all’Europa comunitaria, tanto da divenire una sorta di “caso” internazionale: quella che molti analisti hanno chiamato una “svolta epocale” nelle relazioni con Mosca, ha praticamente riguardato la fine di un asse privilegiato di rapporti. Il messaggio chiaro è stato proprio il salto di qualità nell’aumento esponenziale delle spese militari da parte del governo Scholz e l’incessante fornitura di armamenti a Kiev in una gara al rialzo con Parigi.

Sembrava averla spuntata Emmanuel Macron con la dichiarazione, se fosse stato il caso, di inviare anche truppe di terra in Ucraina per mandarle direttamente al fronte a fermare l’avanzata dei russi. Ma, poi, sul lungo periodo la diatriba si è calmata o, per meglio dire, si è evoluta in una serie di tatticismi che hanno riguardato una commistione di interessi liberisti con la necessità di ammansire l’elettorato e portarlo nuovamente su posizioni fieramente da “mondo libero” contro mondo evidentemente non libero.

Intanto in Ucraina la crisi generale scatenata dalla guerra sta determinando una serie di contraccolpi che si ripercuoteranno sugli standard di vita, oggi ancora inimmaginabili, del dopoguerra: i rifugiati esteri toccano quasi i sei milioni, mentre gli sfollati interni sono quasi quattro milioni. Le infrastrutture iniziano a cedere e il ricambio delle truppe al fronte si fa sempre più problematico. L’avanzata nella regione di Kursk è stata definita da alcuni siti esperti di questioni di guerra come “le Ardenne di Zelens’kyj“.

Se lo saranno o meno ce lo diranno i prossimi mesi di attacchi e contrattacchi e dei tanti, troppi morti che si contano ogni giorno… Sta di fatto che, seppure non invasa nella sua interezza, l’Ucraina uscirà da questa guerra devastata, impoverita, distrutta nella sua essenza nazionale. Non sarà sufficiente il patriottismo a riempire le tasche e gli stomaci della gente affamata, a riparare dal freddo dell’inverno i tanti senza casa. Colpa della Russia, certo. Ma colpa anche di un Occidente che spinge Kiev ad una resistenza insensata.

L’invio continuo di armi non fa che prolungare la guerra e non fa che aumentare questi disagi, nel mentre fa crescere i fatturati e i profitti delle grandi aziende produttrici di ordigni di morte. Quello che appare più evidente di prima è che si sta aprendo una contraddizione tra governo e popolo ucraino. Il conflitto logora anzitutto le masse, impoverisce e devasta, distrugge e annichilisce. Mentre gli esecutivi traballano ma restano a galla, la gente affonda nella miseria più nera e nella disperazione.

Gli attacchi russi su vasta scala su quindici regioni ucraine, mirati tutti a colpire le fonti energetiche del paese, intensificano la guerra di logoramento dei nervi e inaspriscono il disagio e l’opposizione nei confronti di un Zelens’kyj indisponibile a qualunque trattativa con il Cremlino. Se nel dopoguerra l’Ucraina potrà o meno contare sui milioni di sfollati ora all’estero è un quesito legittimo da porsi, perché tanto vi sarà da ricostruire, tanti saranno quelli che faranno ingenti affari. E sempre sulla pelle della povera gente.

Forse nemmeno ce ne rendiamo conto, ma le influenze esterne sui rapporti di forza interni all’Ucraina sono già oggi preponderanti rispetto ad un governo che rimane in carica “solo” (si fa per dire…) l’emergenza bellica. Non si tratta soltanto della ricostruzione materiale di un’intera nazione, ma di quello che essa rappresenterà nel gioco cinico del multipolarismo globale. Del ruolo politico, militare, prettamente strategico tra Occidente e Oriente, tra ovest ed est tanto dell’Europa quando del mondo.

La partita della guerra globale a pezzi gioca qui una battaglia spietata e lo fa per gli interessi sempre di pochi rispetto ai miliardi di esseri umani e al resto degli esseri viventi e del pianeta stesso. La pace era, è e rimane veramente l’opzione rivoluzionaria.

MARCO SFERINI

27 agosto 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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