Il governo scricchiola ma non cade di certo. Almeno non ora. Con la manovra di bilancio da impostare, priva di coperture, con una NADEF (leggasi: Nota di aggiornamento al Documento Economico Finanziario) che, in tutta probabilità, sarà passata al setaccio dalla Commissione europea (e dalla BCE), la crisi dell’esecutivo di Giorgia Meloni è rimandata a data da destinarsi.
Il fatto che la Presidente del Consiglio faccia cenno alla possibilità che i tecnici siedano a Palazzo Chigi dopo lei è, senza ombra di dubbio alcuno, il campanello di allarme per una maggioranza che si sta dividendo su temi dirimenti per il voto alle destre nella prossima primavera.
L’avarizia di dichiarazione della leader di Fratelli d’Italia si è fatta conoscere quando era improvvido per il governo esporsi su contraddizioni vivissime: da quelle ovvie che nascono nel momento in cui si gestisce il potere e ci si deve confrontare con una serie di realtà politiche, sociali, economiche non di poco conto; a quelle che, invece, fanno capolino intempestivamente: gli sgambetti a noti personaggi della stretta cerchia della Presidente del Consiglio, causati da dichiarazioni smargiassatamente esagerate e scomposte di esponenti dell’esecutivo, oppure da vicende familiari tutt’altro che marginali.
Il governo Meloni, dunque, inizia, dopo solo un anno, ad avere il fiato corto. Ma non tanto per le improntitudini dei ministri che parlano dei migranti come pacchi da rimandare indietro, come carichi indesiderati sulle navi, come problemi e non come persone; non tanto nemmeno per gli eloquenti scivoloni xenofobi sul paventare la “sostituzione etnica“, oppure sui telefonini, le scarpe e le collanine di chi traversa il mare rischiando di annegare.
Tutto ciò è l’impietoso contorno di un grande affanno che attanaglia Palazzo Chigi in materia di numeri, di cifre, di miliardi di euro che non si trovano.
E non si trovano perché la coperta dell’economia è tanto corta quanto più la si vuole ridurre al solo prelievo fiscale dai ceti più deboli e fragili, mentre non si prende in minima considerazione un combinato di interventi che vadano a colpire l’evasione, l’elusione, gli extra profitti, le grandi ricchezze e gli enormi patromini di una minuscola minoranza della popolazione. Un tempo la destra del MSI era per la calmierizzazione dei prezzi. Reminiscenze di quel “sociale” che stava nel nome del partito post e neofascista al tempo stesso.
Oggi, questa destra che ingoverna il Paese, che è esterofila sul terreno dell’affermazione univoca, a livello continentale, di un liberismo concretamente realizzabile e praticato in una Italia sempre più povera e priva di garanzie e giustizia sociale, ed è patriottica e neonazi-onalista quando si tratta di sbarrare la strada alla disperazione globale che si affaccia anche sulle coste dello Stivale, che, quindi, fa la voce bassa con i forti e diventa energicamente prepotente con i deboli, appare sempre più incapace di trovare delle soluzioni di compromesso.
La traduzione interclassista di politiche di condivisione delle ricadute della crisi economica nella forma di “un colpo al cerchio del lavoro e in uno alla botte delle imprese” non riesce ad un governo che, a differenza di alcuni suoi predecessori, ha una maggioranza solida, in un Parlamento a ranghi ridotti e con una parte della minoranza (perché di opposizione in questi casi non si può proprio parlare…) che spesso e voletieri appoggia le istanze meloniane.
L’ultima invenzione del “carrello tricolore” di una spesa che dovrebbe essere riportata ad un livello accettabile per le tasche della stragrande maggioranza dei consumatori, di un ceto medio che precipita sempre di più verso il basso, vorrebbe somigliare a quell’antica proposta del calmiere missino dei prezzi, ma in realtà è un patto che il governo prende con le grandi aziende e catene commerciali di distribuzione in quella che è stata definita “totale libertà“.
I prodotti che, dal 1° ottobre al 31 dicembre saranno sottoposti ad uno stop al rincaro ma non ad una vera e propria calmierizzazione (che significherebbe l’unicità del costo finale della merce ovunque e senza alcuna distinzione tra distributori oltre il quale nessuno può andare).
E’ un po’ quello che accade con la benzina: vengono esposti i prezzi medi regionali e poi, se anche la Super sta a due ero e un centesimo al litro da Verbania a Cuneo, da La Spezia a Ventimiglia, dal Ticino al lago di Garda, da Palermo a Messina, mentre fai il pieno ti accorgi che tu la stai acquistando a due ero e tre centesimi…
Il “carrello tricolore” vorrebbe essere, nelle intenzioni proclamate dal governo, qualcosa di diverso: vorrebbe essere un patto tra la grande e media distribuzione tutta per evitare la riconrsa concorrenziale, per frenare un aumento speculativo. In realtà si tratta di un contenimento che già, di per sé, si nutre degli aumenti di questi mesi, dei ricarichi fatti su merci di primo consumo e che, quindi, sono già l’effetto della crisi che stiamo vivendo e del restringimento pauroso del potere di acquisto dei salari e delle pensioni.
Nell’Eurozona l’inflazione l’inflazione cresce del 4,3%, mentre in Italia la corsa del costo della vita si attesta al 5,4% agostano rispetto al 5,3% della media annuale. Invece che ridursi, il peso del costo delle merci aumenta: una controtendenza che si registra particolarmente sensibile nel nostro Paese, dove i fondi del PNRR sono in larga parte non destinati, privi di progetti attuativi, senza alcuno sbocco pratico che determini un aumento del PIL e freni, in piccola parte, la percezione – se non altro – del disagio crescente.
Questo paniere anti-inflazione sbandierato dal governo di Giorgia Meloni, non può, proprio dal punto di vista meramente economico, determinare un riequilibrio dell’impatto inflattivo sull’interità del Paese. E non sono per le diversità endemiche che vi sono da nord a sud, da regione a regione; semmai perché la decisione di quali prodotto sottoporre al blocco dei prezzi sarà a totale discrezione della catena di vendita e dei produttori. Quindi si potranno acquistare merci uguali a costi diversi e non allo stesso costo in ogni supermercato o negozio.
Il calmiere, per l’appunto, sarebbe questo: in ogni punto di vendita quel prodotto non può andare oltre un dato prezzo. Ma qui non esiste una livella che mette tutti sullo stesso piano e punta, in questo modo, al ribasso concorrenziale (piuttosto che al rialzo speculativo).
E l’effetto inflattivo, che si diluisce nel lungo tempo di un autunno e di un inverno che stanno fin da ora risentendo delle mancate politiche sociali di un governo dichiaratamente schierato con i più ricchi e con le fasce alte della popolazione, impedirà alla pseudo-calmierizzazione melioniana di far sentire degli effetti concreti anche sul lungo termine.
Già oggi una famiglia media, con uno o due figli, spende 1.500 euro in più per mantenersi rispetto agli anni precedenti. La metà di questo sovracosto antisociale riguarda i generi di primissima necessità: cibo, abbigliamento, carburanti, spese scolastiche, spese sanitarie. Pochissime persone riescono ad accumulare in forma di risparmio una parte del loro reddito mensile. E chi riesce a farlo, spesso, deve privarsi non di chissà quali lussi, ma anche solo semplicemente di una pizza al sabato sera o di una gita fuori porta.
La stagnazione economica e la lentissima diminuzione dell’inflazione non consentono di attribuire all’iniziativa del governo una medaglia per aver pensato ad un freno ai prezzi dei generi di consumo più diffusi.
Se, da un lato, l’esecutivo interviene in questo senso, dall’altro non recupera per la manovra di bilancio quelle decine di miliardi che potrebbe avere se colpisse le grandissime rendite, i profitti, se tagliasse, dimezzandola, la spesa militare, se distraesse tutti questi fondi a vantaggio dei servizi essenziali che, neanche a dirlo, sono l’altra parte dell’aumento del costo della vita e della sopravvivenza per milioni di persone.
I salari hanno continuato a perdere un buon 15/20% della loro capacità di acquisto. E così le pensioni. Mentre il goverrno propaganda l’iniziativa del “carrello tricolore” come una ulteriore prova del patriottismo che lo porta ad avere una sensibilità marcata verso il “Made in Italy“, non c’è traccia di un intervento sul fronte dell’aumento delle retribuzioni e della messa in sicurezza del lavoro stesso.
La proposta di legge, al ribasso, sul salario minimo a 9 euro (a carico solo parziale del padronato, visto che una parte del fondo di finanziamento sarebbe pubblico, quindi foraggiato da tutte e tutti noi… e senza essere nemmeno legato ad una indicizzazione del costo della vita), fatta da una parte consistende delle opposizioni, non viene presa minimamente in considerazione in una schema complessivo di stabilizzazione degli effetti della crisi per puntare ad una inversione di tendenza.
La proposta di legge di Unione Popolare, su cui ancora per un mese saranno raccolte le firme in tutta Italia, probabilmente avrà il solo effetto di portare all’attenzione sociale e politica, di un Parlamento impermeabile alle istanze dei più indigenti e della diffusissima fragilità in materia di diritti a tutto tondo, un problema veramente improcrastinabile. Non si può assistere passivamente alla minaccia di chiusura di centri produttivi come la Marelli di Crevalcore nel nome della riduzione dei costi aziendali.
Eppure il governo è proprio quello che fa. Siamo davanti ad una ristrutturazione di ampi settori del capitalismo italiano, in un contesto ovviamente europeo, che fa pagare lo scotto della propria stabilità concorrenziale soltanto agli operai e alle operaie. Solo a chi lavora e non ha altro reddito se non un già ben magro e misero salario.
Se l’esecutivo non ha un piano di riconversione economica che includa i centri nevralgici della formazione della ricchezza, non solo privata, ma soprattutto pubblica, come elemento fondante il benessere della nazione e, quindi, del mondo del lavoro, non è per un punto esclusivamente legato ad una forma di ideologismo liberista. Vi è, unitamente a ciò, una evidente incapacità di gestione delle questioni contingenti, dei problemi più impellenti e scottanti.
Tanto questo governo è privo di empatia sociale quanto è incapace dal punto di vista procedurale e organizzativo tra i diversi livelli di cui si compone il dialogo tra imprese, sindacati, lavoratori.
L’aumento dell’inflazione ha cause plurime: certamente è generato da un cortocircuito dei mercati, della voglia di sempre maggiori profitti in tempi di crisi globale e multipolare; ma indubbiamente è anche il frutto di una insipienza di una politica di governo guarda all’Europa per disperazione e non per portarvi un contributo tutto italiano di circoscrizione degli effetti deleteri di un mutamento epocale delle ragioni di una economia iperliberista.
Il rialzo dei tassi di interesse operato dalla Banca Centrale Europea, con il presupposto che ad imporlo era l’aumento dell’inflazione su vasta scala, il cosiddetto “choc d’offerta” dovuto essenzialmente al rialzo dei costi delle materie energetica (quindi ad una impostazione bellica dell’economia europea, e non solo…), era stato pensato dalle centrali del liberismo come misura di lenimento dell’impennata emergenziale che poteva sfociare nella recessione (e nella eventuale stagflazione).
Se la recessione è interpretabile, nonostante i numeri abbiano la testa dura, a seconda dei punti di vista (del lavoro o del mercato, della spesa pubblica o del profitto privato), oggi è chiaramente incontestabile che la politica della BCE abbia sortito l’effetto di diminure l’inflazione su base europea, senza però avere chiari riscontri, seppure minimi, nei singoli ambiti nazionali dei Paesei della UE.
L’Italia del melonismo ne è un evidentissimo esempio. Questo non asssolve la BCE dalla spregiudicatezza dei suoi interventi, non esime da una giusta critica alla politica bellicista e imperialista delle cancellerie europee, del riarmo, dell’aumento delle spese militari e, di conseguenza, nella contrazione dei capitoli di spesa sociali. E la separazione dei piani e delle rispettive competenze, che comportano delle ovvie conseguenze a cascata, non esime inoltre dal considerare l’inazione del governo sul fronte sociale come un alibi dettato dalle politiche di Bruxelles.
Può essere che a Giorgia Meloni si facciano meno sconti rispetto alla sacralità del draghismo tecnico-politico, ma è anche vero che la capacità di intervento politico-amministrativo e di gestione delle contingenze, tocca oggi il suo punto più basso in una inversione di proporzionalità con la manifesta cattiveria che esibisce nei confronti dei soggetti più deboli, disperati e privi di qualunque tutela.
Il carrello della spesa potrà anche essere dipinto dei colori della nostra bandiera nazionale, ma questo non ci farà mangiare di più e, soprattutto, meglio.
MARCO SFERINI
30 settembre 2023
foto: screenshot