Con tutti i problemi che ci sono nel mondo, tu ti metti a parlare, anzi a scrivere di un gatto? La disoccupazione, la povertà, la fame, la miseria, le guerre, i cambiamenti climatici, i migranti, il razzismo, l’omofobia, i femminicidi… E tu parli di un gatto? Ma ti rendi conto? Un gatto…
Già mi risuona l’eco per niente troppo lontana di chi, leggendo quello che sto per scrivere, penserà, dirà e magari replicherà pure sui social all’incirca quello che è l’attacco di questo pezzo. Io l’ho scritto in modo pacato, educato, persino al di qual del civile. Non giurerei sul fatto che questa sia oggi l’attenzione che si riserva alle opinioni altrui.
Ci stiamo trattando da nemici ad ogni occasione di confronto, con la cattiveria molesta sempre inastata sulle baionette tutt’altro che spuntate che portiamo a tracolla per difenderci da chissà chi, da chissà cosa. Questa è la società del rampantismo preconcettuale, di chi si sente più furbo perché tutto intorno gli gravita un universo di complotti, di esasperazioni che lo fanno sentire circondato.
Perché il capitalismo ha creato una competizione costante, giornaliera, dentro cui siamo piombati, finendo per adeguarci agli standard nuovi di un soggettivismo egoistico che per certi versi è divenuto una sorta di edonismo concettuale, morale e incivile; per altri versi, invece, si è dimostrato essere il brodo di una incoltura moderna che ha messo da parte la solidarietà, la condivisione tanto delle emozioni quanto delle esperienze.
Questa, però, nonostante la prepotente avanzata del liberismo iperindividualista, è anche la società del pensiero critico che si fa sentire, dell’amore inteso come forma di condivisione delle empatie, di simpatizzazione dei sentimenti: dai più leggeri a quelli più gravosi, a quelle emozioni che nascono in noi quando siamo toccati dalla sofferenza altrui.
Ci commuoviamo perché riconosciamo nell’altro anche noi stessi e sappiamo, in quanto esseri senzienti, che qualunque altro individuo (animale umano o non umano che sia) prova ciò che ci è comune e che, quindi, potremmo provare un attimo dopo di lui. Minimizzare, ridicolizzare o ridurre al niente la sofferenza degli altri è il primo cinicissimo atto che dimostra tutta la pochezza intellettiva, morale, sociale e civile di un essere (dis)umano.
I comportamenti sono figli di mutazioni complesse dei rapporti tanto tra individui della stessa specie come tra quelli di altre. L’antropocentrismo ha garantito fino ad oggi a noi umani l’alibizzazione legata al diritto pressoché intangibile di essere padroni di tutti e di tutto e, in quanto tali, a regolare a misura di uomo ogni cosa, ogni ambito di vita e di morte.
La morale umana, dunque, come regolatrice di ogni interdipendenza, di ogni rapporto tra noi e noi, tra noi e gli altri. Così, tutto ciò che ci riguarda in prima persona ottiene lo status di importanza assoluta; il resto è relativamente considerato come contorno di una necessità, come frase molto subordinata di un discorso che mette al suo centro l’umanità e soltanto l’umanità.
Un gatto, un cane, un topo, un maiale, un’oca, un pesce, qualunque altro essere vivente su questo pianeta, sono individui a cui questo status non è riconosciuto. Noi qui li definiamo per quello che realmente sono: individui, esseri che percepiscono la gioia, il dolore, che godono del riposo e che soffrono le fatiche, che esprimono sentimenti tanto quanto noi e che, quindi, sono capaci di relazionarsi col mondo.
Altri li pensano anzitutto, li concepiscono poi e, di conseguenza, li trattano come se fossero degli oggetti, quasi inanimati, incapaci di provare tutte quelle emozioni che anche noi proviamo. Certo, c’è differenza tra il dolore umano e quello animale. Ma il dolore è sempre dolore. E’ sofferenza, è patimento, è qualcosa che nessuno vuole provare, perché ci fa stare male. A volte molto, molto, molto male.
Sta tutta qui la critica dell’antispecismo allo specismo: noi umani siamo più intelligenti di altri esseri viventi ma questa intelligenza la mettiamo sconsideratamente al servizio di una onnipotenza tutta nostra, schiavizzando, utilizzando e facendo degli altri viventi dei nostri subordinati in tutto e per tutti, qualcosa e non qualcuno, mediante cui divertirci, alleviare le nostre fatiche, soddisfare il nostro palato.
Cosa volete che sia mai un gatto se si ragiona in questo modo? Soltanto un gatto, appunto, quindi qualcosa di trascurabile. Perché noi umani abbiamo deciso così. E così deve essere se non vogliamo sentirci invadere dalla cascata di sensi di colpa che ci viene addosso dai millenni di antropocentrismo, dalla sola considerazione che abbiamo di noi stessi come baricentro della vita, come termometro di tutto quello che avviene.
Abbiamo persino immaginato che tutta una serie di divinità, create anzitutto per lenire l’incomprensibilità dell’esistenza e non disperare del tempo che passa e che ci conduce alla trasformazione del cosciente in incosciente, del caldo in freddo, della vita delle nostre cellule nella loro morte, siano a nostra immagina e somiglianza (e non viceversa…) e ci siamo inventati decaloghi ammantati dalla mitizzazione per far rispettare leggi che altrimenti sarebbero state scavalcate dalla prepotenza suggerita dall’avidità e dalla voglia di possedere.
E, dalle leggi divine siamo passati a quelle umane che si sono uniformate alle prime. Tutto è divenuto sacro per l’essere umano. Ma gli animali no. Loro sono rimasti, dai testi cosiddetti “sacri” in poi, creature messe a disposizione dell’uomo, immagine e somiglianza di Dio stesso.
L’antropocentrismo benedetto dalle religioni è funzionale alle società economiche che si sono andate formando e, pertanto, ha finito col proteggere i suoi Numi tutelari. La nascita dei culti è, al tempo stesso, farmaco per l’animo e regola di controllo comunitario, popolare, sociale, civile e morale. Gli animali in questa legislazione scritta e non scritta che discende dai millenni sono, e in parte anche oggi restano, un parte del cosiddetto “Creato” che ha dei diritti soltanto se l’essere umano è disposto a riconoscerglieli.
Un gatto? E che volete che sia, dunque, un felino se la morale imperante è quella che considera gli animali non umani qualcosa e non qualcuno? Tenete conto che nella stessa specie umana vige tutt’ora l’esiziale tendenza razzistica a stabilire che vi sono umani più umani di altri, perché questi hanno più potere che gli deriva dai corsi e ricorsi storici, dalle composizioni e dalle scomposizioni sociali che si sono avvicendate nel tempo.
E nessuno vuole perdere i propri diritti, soprattutto se si sono elevati al rango di privilegi. I diritti sono riconosciuti da qualcuno, mentre i privilegi qualcuno se li riconosce per sé stesso grazie alla posizione di dominanza e di potere che riesce a mantenere in seno alla società.
Gli animali non hanno molti diritti e, possiamo dirlo senza tema di smentita, non hanno alcun privilegio. Leone era un gattino dal pelo rosso e bianco. Lo hanno trovato, gettato via come fosse spazzatura per strada, i volontari di un canile campano. Era stato scuoiato vivo… Gli hanno tolto la pelle. Non si sa se perché e forse, date le premesse di questo pezzo, è anche inutile chiederselo, visto che riconosciamo alla specie umana una cattiveria molesta insita in sé stessa.
Dopo quattro giorni di cure veramente al limite del possibile, il povero micio è morto. Girava un video su Instagram in cui il piccino, miagolando con grande sofferenza, cercava di mangiare qualcosa. L’empatia dovrebbe essere proprio questo: mettersi nei panni del micio. Da umani? No, da animali quali siamo. Perché noi siamo animali e continuiamo a non volercelo mettere in testa.
Altrimenti dovremmo riconoscere che ci cibiamo di altri esseri viventi ma che, vedendoli al supermercato in formato di polpetta o di spiedino, pensiamo a tutto tranne al fatto che, per arrivare a quella forme, quella carne è stata strappata dal corpo morto di un individuo cosciente che, dunque, è stato ucciso.
Proviamo a pensare a cosa proveremmo se ci togliessero la pelle da vivi… Se immaginiamo anche solo un decimo del dolore che potremmo sentire, è già abbastanza per chiedere qui, oggi, ed anche subito una nuova legislazione che punisca ogni maltrattamento sugli animali come un maltrattamento su noi stessi umani e ogni uccisione come un omicidio.
Perché la vita nostra non vale di più di quella di un gatto, di un cavallo, di un cane, di un canarino. Noi saremo più grandi, grossi, intelligenti, capaci di migliorare la nostra vita e di distruggere quella del pianeta – la casa comune di tutte e tutti, animali ed umani – ma non abbiamo il diritto di dominare sugli altri esseri viventi. Chi ci dà questo diritto? Dio? Certo, se ci riferiamo alle scritture che abbiamo redatto corredandole di un’aura di sacralità per far sì che tutto questo fosse possibile.
Ma, al di fuori di noi stessi, niente e nessuno ci consegna questo diritto di onnipotenza. Non siamo onnipotenti, ma alimentiamo un sistema economico, politico e sociale che mette una classe di pochi privilegiati al centro dell’umanità e il resto di essa a farle da contorno, subendo le conseguenze di scelte privatizzatrici di tutto e di tutti.
Proprio le lezioni di economia liberista, impartite da Giorgia Meloni al Senato della Repubblica, parlano della locuzione “rimbalzo del gatto morto“: se ne getti uno dalla finestra – scandisce la Presidente del Consiglio – rimbalza. Macabro è dire poco. Certamente non è un invito a suicidare i poveri felini, nessun intento a stimolare una emulazione concreta in questo caso, ma l’esempio teorico di macroeconomia fa pensare.
Fa pensare al fatto che non si dica: «Se tu getti un bambino dalla finestra, il bambino morto rimbalza». Riguarderebbe la nostra specie umana e ci farebbe immediatamente orrore. Come giusto che sia. Ma nel caso del gatto, la pseudo-metafora sembra avere una qualche ragionevolezza, sembra poter quindi trovare spazio tra le dichiarazioni di una Presidente del Consiglio che la espone senza nemmeno troppo imbarazzo.
In fondo, oggi c’è una crescente attenzione rispetto ai diritti degli animali non umani e, quindi, si dovrebbe avere un po’ più di circospezione nel prodursi in termini di paragone come quello del “gatto morto“. Molto più in voga era, almeno un tempo, la definizione di “gatta morta” per la donna che faceva smancerie e che, sotto quelle, nascondeva tutt’altro carattere e intenzioni.
Un bel parterre di misoginia associata al tipico carattere micionesco apparentemente blanditorio: il felino si avvicina, fa le fusa e tenta di coccolarti così per indurti a dargli cibo o, magari, solo semplicemente delle tenere coccole. Il tutto, trasferito sul piano delle umane sensazioni reciprocamente avverse, ha per moltissimo tempo raffigurato il gatto come animale guardingo e solitariamente infingardo; la donna come astuta tentatrice, seducente soltanto al fine di ingannare l’uomo.
Dunque, come è evidente, i pregiudizi sono tantissimi e si compenetrano gli uni con gli altri, perché è la stessa società che li produce ed essere così strutturata: per piani che si intersecano, che si incontrano e danno luogo ad un costrutto di apriorismi che sussumono un atteggiamento molto più diffuso e quasi connaturato negli sviluppi antropologici della specie stessa.
Il mutamento delle abitudini è legato al cambiamento sociale e questo è determinato dalla mutazione dei rapporti di forza esistenti fra le classi entro la società medesima. Quindi non si sfugge al capitalismo, al tipo di (dis)umanità che lo sostiene direttamente senza batter ciglio, senza criticarne l’essenza contraddittoria.
La storia del piccolo Leone è emblematica tanto quanto quelle di milioni e milioni di altri animali non umani che ogni giorno vengono seviziati da noi animali umani: per cinico divertimento, per profitto (giochi, gare, corse, combattimenti a morte… di galli, di cani…), addirittura per tradizione culturale (si pensi al Palio di Siena e ai cavalli costretti a turbinare intorno al ristretto percorso circolare della competizione…).
Le storie di tutti gli esseri viventi ci dovrebbero riguardare direttamente. Non perché noi dobbiamo essere al centro di ogni cosa, ma perché con le nostre capacità mentali potremmo essere davvero di grande aiuto a chi non ha la possibilità di vivere dignitosamente e, quindi, in piena libertà. Siano essi umani o non umani. Siamo parte, tutti quanti, dell'”animalità“. L’umanità sta dentro questo concetto nuovo eppure così antico.
La moderna considerazione per l’essenza costitutiva delle nostre caratteristiche fisiche e mentali ci ha permesso di rimettere in gioco una critica che, oggi più che mai, può fare notevoli passi avanti nella direzione del rispetto della vita di ogni essere senziente su questo pianeta e, manco a dirlo, dell’interità della Natura con la enne maiuscola.
Ogni liberazione umana, ogni comunismo, ogni socialismo fatto senza prendere in considerazione la liberazione di tutti gli esseri viventi, da noi stessi, dal nostro dominio antropocentrico e specista è una liberazione esclusivista, un privilegio che ci regaliamo dopo esserci affrontati nel classismo per migliaia e migliaia di anni. Questa nostra liberazione deve ancora avvenire.
Facciamo in tempo, forse, se scampiamo alla crisi climatica in atto, a realizzare una liberazione totale: umana ed animale al tempo stesso. Chi vedrà quel giorno, vedrà un bel giorno.
MARCO SFERINI
14 dicembre 2023
foto tratta da Facebook