L’inchiesta di Fanpage.it sull’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia è stata una detonazione salutare per una democrazia anestetizzata da troppe deviazioni nazionalistico-populiste, sovranismi e deviazionismi politici, morali e civili cui la società di questo povero Paese è stata sottoposta da, quanto meno, due anni a questa parte.
Ma si potrebbe, oggettivamente, non discolpare, semmai includere il processo di acquisizione del consenso da parte di Giorgia Meloni in una progressiva abitudinarietà a nuovi modelli para-culturali che si sono imposti grazie ad un ribellismo nei confronti della vecchia classe dirigente piena di tecnocrati e di manipolatori del pubblico interesse.
Quanto più la politica di palazzo, dietro volontaria o involontaria, consapevole o inconsapevole delega del popolo, si è allontanata dal pubblico interesse, tanto più sono venute fuori tutta una serie di egoismi e singolarismi che hanno decostruito le fondamenta sociali della Repubblica e hanno mostrato ad una cittadinanza da un lato sempre più pigra mentalmente, dall’altro sempre più povera e indigente, il presunto “fallimento della democrazia“.
Chi, ovviamente da destra, ha raccontato questa storia in detti termini, si badi bene, lo ha fatto anteponendo a questa narrazione la premessa del “proprio perché siamo democratici” denunciamo tutte le magagne e le storture del liberalismo transitato al liberismo e sedotto completamente dal mercato, per appropriarcene noi e dirvi che saremo migliori di chi ci ha preceduto e, in pratica, ci ha preparato la strada.
La contestualizzazione dell’inchiesta di Fanpage.it non è doverosa soltanto per un fatto meramente deontolgico o, se vogliamo, attualistico. Anzitutto lo è perché ciò consente una piena comprensione del motivo per cui viene pensata, anzi indotta ad essere pensata e messa in pratica.
Il tutto in un momento in cui – va riconosciuto e tenuto sempre a mente – è molto difficile poter fare giornalismo di inchiesta, mentre tutto intorno vige una acquiescenza informativa nei confronti dell’esecutivo che, questo sì, elemento e motivo davvero inquietante in quanto a tenuta della democrazia repubblicana, a libertà dell’informazione plurale che, il più delle volte, è tollerata e redarguita in un regime monopolistico di governo delle reti RAI in cui i giornalisti hanno scioperato già diverse volte denunciando l’uniformità cui sono indirizzati.
Considerato tutto ciò, la lettera di Giorgia Meloni al suo partito è un buffetto per significare che qualcuno ha birichineggiato, ha ecceduto nei saluti romani, in quelli nazisti, nei cori al duce. La reazione più genuina è stata l’attacco frontale a Fanpage.it: roba degna di un regime.
Mica le dichiarazioni dei suoi ministri sui migranti, sulla “sostituzione etnica“, oppure sulle persone LGBTQIA+ (sì, fate uno sforzo e leggetelo tutto l’acronimo); mica le politiche dell’esecutivo sul securitarismo oppure viceministri o simili che indossano divise con al braccio la svastica hitleriana.
Niente di tutto questo. I cattivi sono quelli di Fanpage.it. Che diamine! Francamente, se ci fosse della buona fede in tutto ciò, io che sono il capo di un partito ringrazierei i giornalisti per aver fatto uscire un verminaio del genere. Ma siccome la buona fede sta di casa altrove, è evidente che si tenta di salvare il salvabile. Non la faccia, ma almeno i culi di pietra sulle poltrone di Palazzo Chigi.
Quei giovani non sono degli sconsiderati che hanno male interpretato l’ideologia che, carsicamente, sta dietro il proscesnio del maggiore partito di governo. Quelle ragazze e quei ragazzi se si sono espressi così, inneggiando a Mussolini in quanto duce del fascismo, ripetendo il goebbelsiano “Sieg heil!“, lo hanno fatto perché il contesto che li ha compresi e fatti crescere politicamente si rifà esattamente, su un piano ovviamente di vizio privato, a quelle tematiche, a quel ventennio, a quel modello.
L’autoritarismo, l’uomo o, se volete, la donna forte al potere che con il premierato può anche concedere al suo alleato regionalista, ex federalista e secessionista, un po’ di autonomia differenziata, è l’emblema di una destra di governo che sa, come scrive con grande nettezza Giorgia Meloni, di giocarsi in questa fase una partita importantissima; probabilmente la partita della vita, quell’occasione che rischia di non ritornare più.
Anche perché, se a sinistra si sono già giocate un po’ tutte le opzioni sul tavolo, a destra quella attuale rimane forse l’ultima spendibile.
Ed infatti, in una ciclicità di mutamento dello scenario geopolitico-parlamentare di una Italia imbevuta di un trasformismo mai veramente archiviato, cialtrona e puttanesca nella peggiore delle declinazioni terminologiche immaginabili di questi concetti, sia separati sia associati, il ceto medio e parte di quello modernamente proletario (e sottoproletario) si sono lasciati sedurre, per opportunismo e per disperazione (quasi all’unisono) dalle sirene delle destre.
Prima quella berlusconiana, ormai d’antan. Poi quella grillina, quasi d’antan anche lei (visto che i Cinquestelle chiedono di poter aderire al gruppo parlamentare europeo di “The Left“), la parentesi renziana, destra nel centrosinistra, e poi il gialloverdismo prima, il salvinismo poi. Dopo la Covid-19 e la tecnocrazia draghiana, il melonismo.
Se si sia così chiuso un ciclo nell’aprirsi quello fratellitaliano, è ancora troppo presto per poterlo dire. L’inchiesta di Fanpage tellurizza, senza ombra di dubbio, una quiete un po’ manzoniana che la Presidente del Consiglio vorrebbe conservare.
Per le scadenze europee, per quella politica comunque internazionale che le chiede conto di risultati sul piano economico; per accattivarsi una parte di elettorato moderato che sarebbe anche pronto a passare armi e bagagli tra le sue fila, ma che storce ancora il naso davanti ai busti di Mussolini di alte cariche dello Stato, di cimeli, gingilli e chincaglierie tutt’altro che dalla funzione resipiscente rispetto al lugubre passato all’ombra della fiamma tricolore.
Dunque, Meloni rimbrotta la dirigenza dei suo partito, tira le orecchie e dice di aver fatto, lei e tutti coloro che la seguono, i conti col passato. Ognuno si interpreta e dà di sé stesso un giudizio che meglio gli si attaglia in un dato momento, soprattutto se lo ritiene – come del resto pare essere – “storico“. Ma la gioventù che urla “Boia chi molla!” ancora oggi e si scaglia contro i più deboli e marginalizzati, è un prodotto attuale di una storia che non è stata messa completamente da parte.
In Forza Italia, almeno, qualcuno l’ardire (più che il coraggio) di dirsi antifascista c’è. Nella Lega nemmeno a parlarne e in Fratelli d’Italia? Le nostalgie si celebrano senza dare troppo nell’occhio. La modernità esige un cambiamento di stile, mentre magari al collo si porta sempre sotto panno la croce celtica della giovinezza.
Ma si può davvero chiedere a Giorgia Meloni o ad Ignazio La Russa di intervenire da un palco pubblico o dagli scranni istituzionali e dire: «Viva l’Italia antifascista, viva i partigiani, viva la Resistenza!»? Lo troveremmo sorprendente, farebbe strabuzzare gli occhi, accecherebbe ed assorderebbe per la virulenza della straordinarietà del fatto. Non glielo si può chiedere.
O, per meglio dire, non glielo si potrebbe chiedere se fossero dei dirigenti di partito e basta. A nessuno sarebbe mai venuto in mente – fatte le debite differenze del caso – di chiedere a Giorgio Almirante di dirsi “antifascista“. Avrebbe non restaurato il suo essere fascista, ma non avrebbe mai rinnegato l’esserlo stato. Ci sono dei limiti che non possono essere superati perché sono direttamente connaturati col proprio essere.
E chi è stato fascista può superare il fascismo come momento storicamente dato, ma molto più difficile rimane l’andare oltre il proprio fascismo, quell’adesione a princìpi e (dis)valori in cui si è riconosciuti a lungo, soprattutto se in esperienze così traumatiche come quelle di una guerra che hanno segnato la cesura tra la dittatura militare denunciata da Gramsci e la sua non eludibile fine preconizzata dal pensatore e dirigente comunista.
Ciò che è, se vogliamo dirla così per consolarci un po’, innaturale è che in una Repubblica democratica e conseguente alla Resistenza al nazifascismo si siano create le condizioni per un rigurgito di stampo post o neofascista (a seconda dei casi, delle interpretazioni più diverse eppure tendenzialmente convergenti…). La democrazia, infatti, non protegge sé stessa dal superamento di sé medesima. Vive nella contraddizione di essere così libera da permettere a chi la detesta di utilizzarla per distruggerla.
Lentamente, mostrandosi amico dei parlamenti, delle maggioranze come delle minoranze, della diversità di pensiero, di scrittura, di condizione sociale, civile, morale, culturale e persino etnica. Alla prima prova dei fatti, il Novecento del resto ce lo insegna, non è mai un brusco, netto taglio con passato. Tutto sembra ancora risolvibile: gli eccessi paiono ridimensionabili e contenibili.
Ci si dice e ci si convince che il passato non potrà mai tornare nei modi e nelle forme in cui si era orribilmente manifestato. E probabilmente è vero. Ma siccome siamo sufficientemente consapevoli della volubilità e della trasformazione repentina della natura umana dalla condizione uguale e contraria nell’arco di un brevissimo lasso di tempo, non dovremmo mai permetterci di sottovalutare i segnali che inducono a ritenere in forse un assetto democratico propriamente detto.
La destra estrema in quasi tutta Europa ha rialzato spavaldamente la testa e si propone come interlocutrice prima del neocapitalismo liberista. Che si fida e non si fida, proprio perché la destabilizzazione economica è già tanta e le tensioni interne non giovano alla conservazione di un seppur debole e fragile equilibrio dei mercati. Conta la guerra. Conta il riarmo. E dove si parla di riarmo, di nazioni, di confini, di scontri interetnici, la destra c’è sempre.
Il clima in cui si sono formati i giovani di Fratelli d’Italia che sono stati oggetto dell’inchiesta di Fanpage.it è questo: una incertezza pressoché costante sulle loro esistenze, sul loro futuro e un affidare il tutto ad un misticismo autoritarista dal retrogusto fascistoide, coniugato con una rispettabilità istituzionale necessaria per portare avanti anche quelle nostalgie. Mutatis mutandis, se non li conoscete, diceva una canzone, guardateli un minuto.
E proseguiva: li riconoscere dal tipo di saluto… Quello romano, certo, ma anche quello quasi gomito a gomito: “cameratesco” lo chiamano. Che poi i romani salutassero in quel modo è tutto da provare. Non esiste nessuna fonte storica che attesti ciò: nessun brano della letteratura latina ne parla. Un’altra invenzione mussoliniana. Che, però, è arrivata fino a noi come icona di un passato trimillenario.
Sarebbe bene organizzarsi un po’ e fare massa critica, politica, sociale, sindacale e civile contro ciò che sembra attenderci. Autonomia differenziata, premierato e un’abitudinarietà italiota alle trasformazioni più dannose per le libertà sociali e civili.
La chiamata all’unità antiautoritaria, antifascista e antirazzista deve essere raccolta da chiunque abbia un po’ di amore per la democrazia propriamente detta e liberalmente detta. Da noi comunisti, per cui è potere popolare fino a Calenda che la considera una essenzialità per l’inviluppo capitalistico e gli interessi privati che sosterrebbero tutta la nazione…
Se tutto questo è concretizzabile, meno lo è l’idea di una alleanza di governo che rimanderebbe indietro nel tempo alla prima grande contrapposizione carrozzonistica e caravanserragliesca che fu prima l’Ulivo e poi, molto più caotica del precedente esperimento prodiano, l’Unione. Un programma di governo di stampo progressista non lo si fa col centro. Ma è pur vero che senza il centro non si governa. E qui il dilemma si riapre.
Perché, dal primo berlusconismo in avanti le opposizioni hanno privilegiato sempre l’aspetto contingente della decostruzione governativa, la pars destruens, senza privilegiare invece una pars construens di un lavoro di coesa sintesi tra interessi pubblici e privati, tra liberalismo e socialismo (o socialdemocrazia), tra centro, sinistra moderata e sinistra di alternativa.
Se una alleanza oggi è auspicale, lo rimane su un piano di opposizione efficace al governo di Giorgia Meloni e non ancora come alternativa al suo esecutivo e al suo progetto politico di destra-destra. Serve una unità di salvezza repubblicana, laica, che posi le sue fondamenta sulla partecipazione popolare nel nome della Costituzione, della centralità del Parlamento e del ripristino di tutte le garanzie per le minoranze.
Non è il momento di distinguere le posizioni. È il momento di unirci, nelle differenze che rimangono e che devono rimanere (tanto preziose sono proprio per la dialettica democratica e sociale), per mandare a casa questo governo e per riportare in Italia una ventata di uguaglianza spazzata via da troppi decenni. Da quando si è dichiarata morta l’ideologia e le si è, liberisticamente, preferito il carismatico, perverso leaderismo.
MARCO SFERINI
4 luglio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria