Alle sette del mattino fa già un caldo insopportabile. Ti alzi alle quattro perché, mentre dormi, l’inconscio interrompe per un attimo il suo flusso di affastellamento di immagini apparentemente senza senso: la canicola percuote anche le corde più ancestrali che ci abitano. Dunque, ti svegli a metà, scendi dal letto ed accendi un ventilatore che cigoleggia nella calma apparente della notte. Almeno c’è silenzio.
Qualche gabbiano inizia a volare sui tetti della città di mare. Chissà se sono parate d’amore o se invece sono imprecazioni al cielo per non aver trovato abbastanza cibo. D’un tratto qualunque albatros baudeliariano somiglia a sé stesso e a tanti esseri viventi del pianeta: anche ai bambini afghani. Ce ne sono 72.000, secondo le stime dell’UNICEF, che stanno scappando da una Kabul assediata dai talebani. Sono ormai a 50 chilometri dalla capitale e premono da sud, da oriente e da occidente.
Ma nella città di mare tutto è tranquillo. Qui in occidente. Almeno così pare.
Sono le sette del mattino e suona la sveglia del telefonino. Lo avrei scaraventato lontano. Ma costano, non si sa mai dove andrebbe a finire. Magari proprio in testa ad un gabbiano che, poverello, è pure a stomaco vuoto. E poi, non fosse altro che per rispetto di chi ha estratto i minerali per fare le maledette batterie che si scaricano sempre più velocemente… Più di un tempo, queste estrazioni le fanno i ragazzini, i giovanissimi che riescono ad infilarsi in cunicoli stretti nelle miniere africane, mentre altri loro coetanei fuori combattono già da soldati. Contro altri ragazzi arruolati da questo o quel signore della guerra.
Satrapie e tribalismi c’entrano fino ad un certo punto. Il nostro Occidente, con la o maiuscola, ha fatto di tutto negli ultimi secoli per depredare le risorse di tutte quelle terre che non avevano sviluppato forme di controllo politico statali autonome, indipendenti, capaci di essere interpreti dei desideri del capitalismo che stava affacciandosi su tutto il globo.
Metto un piede nelle ciabatte e mi sembrano caldissime anche quelle. Rifaccio il letto e vado a lavarmi, sperando che l’acqua fresca mi dia una bella scossa destante. Qui in occidente si può fare ogni mattina. Non ci sono catini dove raccogliere un po’ di oro bianco, sperando che piova, sperando che non si secchi tutto. Perché il petrolio che stanno estraendo poco lontano non lo puoi bere. Eppure vale così tanto… Per pochi. Per sempre troppo pochi. Anche se si tratta della parte nord del mondo, quella ricca e benestante. Almeno così pare.
Chiamo Bia. E’ l’ora della passeggiata. La devo sollecitare, sfiancata dalla calura pure lei. Non si muove una zampa. Poi decide che il mio tono sta diventando forse troppo perentorio, apre un occhio, si stiracchia e si alza con tutta la lentezza di un bradipo. Ed invece è un cane.
Nella città di mare, per strada, alle sette e cinquanta non c’è molta gente. Per lo più sono turisti che hanno sofferto le pene del Covid ed ora, vaccino o tampone permettendo, vengono a villeggiare in riviera. Le code sulle autostrade sono carovane estenuanti: la protezione civile passa con i cartoni di acqua, la distribuisce agli automobilisti che sono sotto il sole. Non basta nemmeno quella. Ma l’acqua c’è. C’è l’aria condizionata nelle auto: consuma un sacco di energia, quindi di oro nero. Nessun problema. Lo stanno estraendo in Medio Oriente. Là dove il petrolio vale più delle rovine di Ninive e di Palmira, mute testimoni di una guerra civile usata dalle grandi potenze per giocarsi l’egemonia sul crocevia dell’antica Mesopotamia.
La passeggiata del mattino è un rito propiziatorio, oltre che una necessità fisiologica per il solo animale non umano che mi accompagna, anche se sono io a dover tenere (purtroppo) al guinzaglio lei. Così si deve fare nel mondo antropizzato. A misura d’uomo e non certo degli altri animali…
Cerchiamo tutte e due un po’ d’ombra. Le oasi della città, anche se di provincia, sono le vie strette, quelle del centro storico: la vicinanza dei palazzi è tale da costringere il sole ad arrivarvi solo quando è a mezzogiorno: implacabilmente inchiodato allo zenit delle nostre povere teste vuote. I portici della darsena sono inappropriati al sollievo ombroso. Non è colpa loro. Va così… Li hanno costruito davanti al mare, nel punto in cui il giorno è già giorno prima ancora d’esserlo. Almeno sono ariosi. Ma quando c’è vento. Per fortuna, nella città di mare vento ne spira sempre abbastanza.
Faccio finta di essere giovane e tiro fuori il telefonino: sbircio Facebook, Instagram. Gino Strada lo vedo mille volte. Meritate tutte quante. Lo ricordano un po’ tutti. Sono costretti a farlo anche quelli che erano politicamente e disumanamente lontani da lui anni luce. Perché le persone che scelgono di stare da una parte ben precisa, di votarsi ad un “progetto che deve essere ancora realizzato” (quello dell’espulsione della guerra dal presente e dal futuro dell’umanità) senza curarsi delle critiche preconcette e badando invece alla crudeltà di un mondo annientato dai conflitti, dall’odio, dai pregiudizi, dal potere economico, dal profitto e dalle discriminazioni, chi sceglie di essere tutto questo, sceglie quella che anche i benpensanti e i perbenisti categorizzano come “la parte giusta“.
Nell’opera umanitaria di Gino Strada ci si devono riconoscere tutti. Sono obbligati a farlo anche quelli che non lo vorrebbero fino in fondo fare. Ma devono. Perché uomini come il fondatore di Emergency fanno, agiscono in prima linea e delineano i contorni di una morale che travalica le divisioni ideali, ideologiche, politiche, religiose. Diventano il fenomeno di una quintessenza umana dell’umanità stessa: ciò che vorremmo vedere sempre in noi stessi e negli altri. Sono esempi, per antonomasia, sono capitoli di etica moderna.
I portici del centro città sono alti, larghi: ci si respira, ci si ripara dal sole e si cammina senza troppo impiccio. Non si deve evitare nessuno. C’è spazio per tutto. All’improvviso trilla un campanellino. E’ talmente veloce che te ne accorgi quasi all’ultimo momento. Non è una bicicletta, ma uno stramaledettissimo monopattino elettrico. Mi piacerebbe provarli, ma sono sicuro che mi divertirebbe di più la ruota singola… Non so il nome di questo aggeggio, ma la trovo affascinante per l’equilibrio che regala al corpo che vi si pone sopra. La perfezione della circonferenza che sorregge tanta imperfezione umana: soprattutto morale, civile e antisociale.
Il monopattino sfreccia sotto i portici, passa vicino a due persone che parlano e a me. Bia non se ne accorge nemmeno: cerca qualche cosa dove mettere il naso e trovare il suo personale contatto col mondo.
I due che parlano vicino a me imprecano qualcosa. Giustamente. Perché non si va in monopattino ai… facciamo 30/40 all’ora…? su marciapiedi dove si trascinano sonnolenti i passanti. Poi uno di loro, quello che ha più pancia di me, se ne esce così: «Ma tu guarda che roba… Che beduini che sono…». Una affermazione tutt’altro che meramente (e se vogliamo) giustamente rabbiosa. Una dichiarazione di razzismo. Alle otto del mattino.
Eh sì, perché a guidare il monopattino era un ragazzone di colore. Scuoto la testa e non riesco a trattenermi: «Ma che c’entra col monopattino…?». Mi risponde che sono tutti così, irrispettosi, maleducati, violenti. La sequela di epiteti prosegue. Siccome ho caldo e la tolleranza verso il razzismo non è proprio il mio punto forte, me ne esco così…: «Per quel che sento, beduino mi sembra più lei», con tante scuse ai beduini del deserto. Faccio ammenda. Naturalmente ne viene fuori un micro alterco mattutino condito con miei «Si vergogni, razzista!» e repliche uguali e contrarie: «Non mi vergogno, sono fiero di esserlo».
Perché non ho incontrato una persona come Gino Strada stamattina? Perché ce ne sono sempre troppo pochi di animali umani veramente umani, mentre dilagano gli animali umani disumani? Bia seguita e passa oltre. Decido di farlo anche io. Ma ripenso al medico di Emergency, che avrebbe curato anche il peggiore dei razzisti, convinto di farlo nell’interesse di tutta l’umanità. Contro l’odio, contro le armi delle parole e le parole in armi: contro le armi vere. Contro tutte le guerre guerreggiate e contro quelle di poveri contro altri poveri.
Invece di “un” Gino Strada, stamane mi sono imbattuto in un idiota con il monopattino sfrecciante ai quaranta all’ora e in un razzista fiero d’esserlo. Magari non il mondo, ma la mia giornata sarebbe cominciata meglio se avessi incontrato uno “alla Gino Strada“. Ce ne sono tanti. A volte li riconosco. Altre volte no. Penso abbiano anche un po’ di paura a venire fuori allo scoperto. Va di moda il sovranismo, l’accanimento contro il diverso: per sesso, per pigmentazione della pelle, per cultura, per credo religioso.
C’è qualcosa ancora che non va nel meraviglioso Occidente. Ma giusto, giusto qualcosina…
Ecco, Gino, io ti saluto così. Con questo miserevole racconto, perché non me la sentivo proprio di fare la tua agiografia. Non credo ti avrebbe fatto piacere sentirti elogiare. Ma permettimi di abbracciarti, anche se soltanto col pensiero, con il mio cuore. Tu nei hai curati tanti e non solo con la chirurgia. Per questo eri anche un medico, ma soprattutto un grande compagno.
MARCO SFERINI
14 agosto 2021
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