La protesta degli studenti si allarga, le occupazioni delle scuole si moltiplicano. E’ anche l’effetto della repressione poliziesca, di cui il governo non può far finta di non sapere niente, perché vorrebbe dire che tra Viminale e forze dell’ordine non c’è, oltre alla comunicazione, nemmeno la cosiddetta “catena di comando“.
Ma, questa organizzazione della coscienza sociale e politica (nella più nobile declinazione classica del termine) che sta coinvolgendo sempre più istituti da nord a sud del Paese, è prima di tutto un effetto di una frustrazione che i giovani percepiscono se riflettono sul passaggio dalla scuola all’università o ad una immissione immediata nel mondo del precariato e della disfunzionalità oggettiva di tutto quello che hanno imparato negli anni dell’apprendimento scolastico.
Non sempre (anzi, nella maggior parte dei casi) le conoscenze che si è scelto di trattare e approfondire, frequentando questa piuttosto che quell’altra scuola, sono propedeutiche al tipo di occupazione e di sviluppo sociale dell’individuo nel contesto di vita che lo attende. Sono le perversioni del capitalismo, di un sistema economico che deprime le singolarità che vogliono liberamente esprimersi e che non rientrano nel dirigismo aziendalista e commerciale.
Non è permesso scegliere, ma è consentito adeguarsi, uniformarsi a quelli che sono i dettami delle variabili degli indici di borsa per le imprese e per i padroni. Non solo la morte nell’alternanza scuola-lavoro, non solo i manganelli spaccati in testa agli studenti sono cieca e brutale violenza repressiva. Anche il non poter mettere a frutto i propri studi e tradurli anche in una pratica quotidiana che permetta il proprio sostentamento (e magari pure quello di una famiglia) è violenza.
Dentro e fuori della scuola pubblica il diritto alla conoscenza e quello al lavoro devono essere costantemente umiliati dal liberismo moderno: altrimenti come si potrebbero convincere migliaia di giovani a intraprendere percorsi formativi che detestano, costringendoli ad abbandonare l’ispirazione originaria per cui hanno preferito studiare matematica piuttosto che le lettere classiche, oppure dedicarsi all’arte invece che alle lingue?
I nostri ragazzi sono accompagnati malevolmente nella loro crescita culturale, individuale e sociale, da quella mano invisibile del mercato che predestina le loro vite e, per proteggere i privilegi di pochi, devia il naturale e istintivo corso dell’esistenza di tutti gli altri. Il minimo che questi giovani possano fare è ribellarsi ai diktat dell’egemonia imprenditoriale sulla scuola e protestino per la morte di un loro coetaneo che, appena compiuti i diciotto anni, non ha potuto nemmeno vedere la fine della sua adolescenze e assistere all’ingresso nella maturità.
Così, quando scendono nelle piazza per protestare, il governo non trova altra risposta possibile se non la repressione violenta, affermando – a sua patetica discolpa – che le provocazioni da parte degli studenti ci sono state e che la polizia ha reagito di conseguenza. Le provocazioni, a quanto si legge dalle cronache e si vede dai filmati, erano quattro uova marce, cori e insulti nei confronti delle divise. Comportamenti che queste ultime dovrebbero saper gestire con l’imperturbabilità che gli dovrebbe essere stata insegnata per evitare, appunto, di reagire scompostamente ed esacerbare ulteriormente gli animi dei manifestanti.
La risposta repressiva, la storia dovrebbe averlo insegnato, alla lunga viene sconfitta e la resistenza attiva, la risposta nonviolenta e l’organizzazione sempre più estesa del conflitto sono quelle risposte pacifiche che prevalgono e costringono alla resa un potere che pretenderebbe di anestetizzare le coscienze e fermare le proteste prima che la situazione gli sfugga di mano.
Ma nel momento in cui si ricorre alla forza e si picchiano dei ragazzi e delle ragazze che manifestano pacificamente, con tutte le legittime prerogative del diritto all’invettiva contro i destinatari della loro stessa protesta, lo Stato ha già praticamente perso l’autocontrollo, la disposizione necessaria a comprendere e non a reprimere.
L’imbarazzo del PD è più che evidente: non si può essere allo stesso tempo reclamizzarsi come “forza progressista“, sostenendo e partecipando a tutto tondo al governo liberista draghiano, e tollerare che le dinamiche sociali che pretendono di tutelare diritti fondamentali, come quello allo studio e quello al lavoro, siano trattati a suon di manganellate. Diversi gli atteggiamenti delle forze sovraniste e centriste della enorme coalizione di unità nazionale: sottosegretari leghisti agli interni giustificano l’operato delle forze dell’ordine adombrando la presenza nelle manifestazioni di anarchici e centri sociali.
E se anche fosse? Non hanno diritto di manifestare anche loro? Può uno studente essere anarchico e avere il diritto di manifestare sia come studente sia come anarchico? Oppure è legittimo scendere in piazza e non essere preso a botte solo se si è metà di ciò che si sente di essere, quindi soltanto uno studente?
I leghisti ragionano per assurdo, non perché sia un metodo filosofico-scientifico che applicano: è solo la rozzezza delle loro anti-idee che li fa esprimere così. Una particolarità dei peggiori conservatorismi italici che vorrebbero scimmiottare la destra repubblicana statunitense, ergendosi a Donald Trump del Bel Paese e proponendo, per l’appunto, la fondazione di un contraltare del PD.
La protesta studentesca di questi giorni, incluse le violenze che si sono prodotte, ci dice che il governo non ha ascoltato il mondo della scuola per troppo tempo e che, a ben vedere, non intende farlo nemmeno ora. Al capitolo delle rivendicazioni sulla cancellazione dell’alternanza scuola-lavoro, ora si somma la stigmatizzazione di un esame di maturità in cui vengono reinserite le prove scritte.
Dal punto di vista meramente culturale, non si potrebbe fare altro che applaudire ad una scelta di questa natura: la tesina dello scorso anno è oggettivamente riduttiva come prova che confermi la conoscenza approfondita delle materie studiate durante l’anno. Ma non sono stati anni “normali“. E nemmeno quello in cui siamo appena entrati da un mese sembra esserlo: la pandemia sta flettendo le sue curve, sta perdendo di intensità e si prospetta un ritorno alle comuni e consuete abitudini di vita a partire dalla fine di marzo.
Per cui, è probabile, che l’indignazione studentesca verso la reintroduzione delle prove scritte non sia dettata soltanto da una pigrizia mentale, da una oziosità dominante rispetto alla necessità dello studio e dell’impegno. E’ probabile che, se il ministero avesse ascoltato oltre ai presidi anche gli studenti, avrebbe avuto elementi maggiori per valutare se il tema di italiano e la seconda prova scritta fossero in questa fase adeguati alle possibilità avute dai ragazzi e dalle ragazze nell’apprendimento quotidiano, zigzagante tra periodi in presenza negli istituti e periodi di reclusione casalinga in didattica a distanza.
Un governo che non pensasse soltanto alle esigenze del mercato e a quanta forza lavoro procurargli attraverso la scuola, avrebbe a cuore proprio tutte le sensibilità del mondo della scuola, tutti i bisogni tanto di chi studia quanto di chi insegna e pure di chi permette ogni giorno che questa grande macchina organizzativa delle coscienze e delle vite dei futuri cittadini funzioni o, quanto meno, sopravviva a sé stessa.
Il governo non ha minimamente pensato per un attimo di ascoltare gli studenti, di ascoltare gli insegnanti. Così come nella gestione fallimentare della pandemia in questi ultimi mesi, ha proseguito senza aprirsi al dialogo preventivo e rispondendo con la repressione nel momento in cui le proteste aumentavano di intensità e frequenza.
La lontananza della politica dal Paese reale è soprattutto questa, oltre a quella endemicamente presente che fa riferimento ai casi di corruzione e di utilizzo del pubblico a fini esclusivamente privati. Alle perversioni opportunistico-affaristiche di una parte della cosiddetta classe dirigente (che ha dato davvero bella mostra di sé nella partita del Quirinale) siamo purtroppo stancamente abituati.
Ed è per questo che sarà difficile che ci si possa abituare anche al tentativo di piegare le giovani generazioni all’accettazione di questi immiserimenti morali e incivili, alla passività, alla rassegnazione. Ed è per questo che la lotta degli studenti va sostenuta lasciandola libera di esprimersi e di trovare le forme migliori per farsi beffe del potere, schivando i manganelli e dimostrando al governo dei migliori che i migliori, quelli veri, devono ancora venire.
MARCO SFERINI
3 febbraio 2022
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