La politica economica e (anti)sociale del governo mostra, per lo meno alla gran parte degli italiani dotati di un distacco critico, quello che era prevedibile conoscendo i programmi delle destre in materia di tutele, lavoro, ricchezze e povertà.
L’esecutivo di Giorgia Meloni è una amarissima macedonia in cui si mescolano autonomismi differenziati mascherati da federalismi, che invece sono protezioni dei privilegi delle regioni più ricche a discapito di quelle in sofferenza, e un liberismo marcato che si sostanzia in una lotta a viso aperto contro la povertà.
Per quanto il governo tenti di mettere in secondo piano le problematiche sociali che vengono sempre più al livello dell’evidenza inconfutabile ed oggettivamente incontestabile, le contraddizioni tra i proclami propagandistico-elettorali del settembre 2022 e la cruda realtà dei numeri di un PNRR non applicato e di fondi destinati all’industria delle armi piuttosto che all’ambiente e al sociale, sono il primo grande tracollo anche mediatico che subisce la maggioranza.
La decretata morte del Reddito di cittadinanza mette praticamente sul lastrico e sulla soglia di una vera e propria povertà endemica e strutturale più di mezzo milione di italiani. Dell’unica misura varata negli ultimi anni per arginare gli effetti di una crisi economica globale ed europea davvero imponente, restano oggi delle macerie che sono tuttavia difficili da sgomberare.
Perché la protesta inizia a montare, a farsi sentire: perché l’incidenza che tutto questo avrà in termini concreti sul tenore (non di vita…) ma di sopravvivenza di migliaia e migliaia di famiglie sarà devastante e aumenterà il divario già crescente tra ricchezza prodotta e povertà indotta da una logica di mercato e di finanza che, nel badare al protezionismo profittuale, non ha tempo e non ha soprattutto voglia di dedicarsi ad una benché minima politica di garanzia sociale.
I piani del governo in merito non sono comunque un fulmine a ciel sereno: dal suo insediamento a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni e i suoi ministri hanno detto sempre molto chiaramente che non avrebbero riconfermato la loro fiducia a misure come il reddito di cittadinanza e che, men che meno, si sarebbero sognati di stabilire per legge un salario minimo per proteggere i lavoratori e le lavoratrici più fragili e, nel complesso, tutto il mondo del lavoro.
Il decreto del Primo maggio, calendarizzato nel giorno della Festa dei lavoratori come sfregio alla stessa ricorrenza, invece di affrontare le grandi emergenze del Paese, a partire dai salari al di sotto della media europea, dalla precarietà diffusa, dalla sicurezza nei cantieri e nelle fabbriche, si è occupato della fiscalità, favorendo le imprese e i profitti piuttosto che i redditi da lavoro dipendente.
L’indirizzo politico è sempre stato chiarissimo. Oggi si rende evidente per le scelte che l’esecutivo fa e che ricadono direttamente sulle tasche della povera gente.
L’impatto è e sarà enorme e darà a Palazzo Chigi un assaggio della protesta organizzata in autunno. Già nel 2022 l’effetto inflattivo si era praticamente divorato tutte le tredicesime, mentre si paventava un in inverno con costi energetici esorbitanti, letteralmente stellari.
Ciò si è verificato in parte, ma ampiamente compensato dall’aumento del costo dei carburanti: la speculazione, che è un tratto caratteristico del capitalismo e dell’alta finanza di rapina, è divenuta un’arma dell’immediatezza, una clava con cui colpire i settori di mercato più diffusi, quelli, in sintesi, che riguardano bisogni primari: mangiare, bere, vestirsi, muoversi, curarsi, poter continuare ad avere un tetto sotto cui vivere.
Il taglio del cuneo contributivo per le fasce più indigenti della popolazione si è risolto, nella logica di classe del governo Meloni, in quella giostra dei bonus al ribasso: qualche centinaio di euro dati a famiglie che hanno visto nell’ultimo anno calare il loro potere di acquisto mensile e, complessivamente, il loro reddito annuale scendere di migliaia di euro per i rialzi dei prezzi, per la spietatezza della concorrenza in tempo di pandemia prima e di guerra europea poi.
L’attacco al reddito di cittadinanza fa il paio con tutto questo e conferma le più fosche previsioni in tema di riadeguamento dei salari, di recupero dei redditi, di tutela delle pensioni, di aumento delle risorse per la sanità, la scuola, le infrastrutture e la riconversione ecologica dei comparti produttivi.
Mentre i morti sul lavoro si contano ogni giorno e confermano la tendenza al superamento di oltre mille decessi annui a causa della mancanza di sicurezza, gli imprenditori vengono garantiti dal governo a fronte di una crisi economica che, in questo modo, viene tutta scaricata sulle spalle già pesanti delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari e di quella grande fetta di inoccupati di medio e lungo corso che è un dramma sociale soprattutto nel Mezzogiorno.
Il governo non vuole forse per partito preso e, certamente, non riesce anche per marcata incompetenza politico-gestionale, ad utilizzare tutti i fondi del PNRR: da ultimo quelli che erano destinati ai Comuni per la messa in sicurezza dei loro territori, per un sostegno alle fasce veramente indigenti, per un livello minimamente accettabile di servizio sociale.
Quando un deputato come Piero Fassino, esponente di una forza di centrosinistra arriva, dopo un lungo cursus honorum a sventolare alla Camera il cedolino della sua “busta paga” e sostiene che quasi cinquemila euro al mese non sono uno stipendio d’oro è del tutto evidente che ha subito nel tempo una scissione con la realtà, e in particolare con quella più povera dei fatti e della persone.
Tenendo oltretutto conto che con i cosiddetto “benefit“, quei 4.718 euro, rivendicati come normalità assoluta tra la disarmonia antisociale più vasta e crescente, assurgono alla considerevole cifra di 13.000 circa. Non si possono regalare alla destra argomentazioni così strumentalizzabili come il costo della democrazia, come il funzionamento delle istituzioni e la necessità di contribuire tutti a quella che dovrebbe essere una buona macchina funzionante per il benessere comune.
Non si può permettere al governo di apparire come l’anti-casta (terminologia irritante tanto quanto la coniatura primigenia grillina dell’etichetta tanto in voga qualche lustro fa…) mentre ne fa parte a pieno titolo, in modo del tutto, assolutamente congeniale alle proprie idee ed ai propri propositi “di classe“.
In questi tempi di crisi sventolare un cedolino e cercare di far sembrare assolutamente normale anche la sola difesa della diaria parlamentare è un boomerang veramente imperdonabile e biasimevole. Sia permessa una battuta agramente amara: forse Fassino ha inteso vagamente affermare che un salario minimo mensile potrebbe essere fissato sui 4.718 euro? Saremmo in quel caso più che d’accordo. Purtroppo non è così e non potrebbe nemmeno essere lontanamente tale.
Invece di stare dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori non solo a parole ma nei fatti, ammettendo che certe cifre anche “modeste” (e qui le virgolette sono di nuovo d’obbligo) sono in tempo di crisi dei veri e propri privilegi, una certa sinistra molto moderata e indistinguibile dal potere che era diventata, trasforma argomenti impopolari in una specie di programma di opposizione. Inqualificabile è davvero un eufemismo per tutto questo spettacolo sconsolatamente gratuito.
Come è possibile che anche da “sinistra” (permettetemi le benedette, santissime virgolette che sono oggettivamente necessarie in questo caso) non rendersi conto che la sofferenza fisica, materiale, morale, psicologica di milioni e milioni di italiani fa parte di una criticità ben più estesa e che oggi, proprio oggi, quei quasi cinquemila euro che all’onorevole paiono uno stipendio medio, sono invece un lusso inarrivabile anche solo mentalmente per un quantitativo spropositato di famiglie e di singoli lavoratori?
Se è lecito che la destra sguazzi in questo putridume antisociale, che faccia politiche di governo in cui non c’è nessuna traccia di tutela dei più deboli, dei meno garantiti, di quelli che non arrivano nemmeno a metà del mese, non è consentito a chi ha alle spalle un passato comunista, una storia poi socialdemocratica e infine malamente invecchiata in un liberalismo piuttosto di facciata, dimenticare le sofferenze di quello che un tempo avremmo chiamato proletariato, classe lavoratrice, sfruttati. E che lo sono tutt’ora.
Una vera sinistra di classe, quasi irrintracciabile nel Parlamento attuale, deve far partire tutte le sue analisi economico-sociali da un dato: quello della composizione del salario. Di come, cioè, oggi è fatto ciò che si riceve nella busta paga e di quanto viene trattenuto per la fiscalità generale. Tasse che gli imprenditori e il ceto medio spesso evadono, perché se lo possono permettere e perché, forse, non hanno nemmeno quella dignità che molti lavoratori dipendenti invece sentono di poter mantenere.
Non che gli resti molto altro nel regime della sopravvivenza permanente. Ma Lo scenario complessivo della politica italiana, da destra al centro e dal centro alla sinistra moderata è davvero disarmante, deprimente; si porta appresso una eco fastidiosa che rimbalza altisonante nel dichiarare la modernità come costante presenza tra noi che, quindi, dovremmo apprezzare le magnifiche sorti e progressive di un capitalismo invece spietato e vorace.
La campagna estiva di attacco ai poveri e al mondo del lavoro aperta dal governo Meloni sfocerà in un autunno certamente molto caldo. La gente inizia a riconoscere il vero volto dell’esecutivo: detassazione per i ricchi, scudi fiscali per i grandi patrimoni, tutela degli enormi possidenti e taglio delle garanzie sociali introdotte dai compromessi pure molto timidi e contraddittori venuti alla luce con il governo Conte I.
Alla fine di questo tragico gioco dell’oca, in tasca e nel portafoglio di tanta gente mancherà davvero il minimo necessario per sopravvivere.
La disperazione sociale si dovrà fare sentire, perché le contraddizioni aumenteranno con l’aumento del divario sociale e con la rottura sempre più evidente e conclamata del cosiddetto “ascensore” che permetteva alla meritocrazia di mostrare il suo lato migliore premiando chi aveva capacità e possibilità concrete di migliorare il proprio tenore di vita con specializzazioni e, comunque, grazie al proprio lavoro.
Che tutto questo provenga da destra è quasi naturale. Che nel PD della presunta “rivoluzione” a sinistra di Elly Schlein ci sia chi fa discorsi giustamente percepiti come insultanti nel momento in cui restano senza il reddito di cittadinanza centinaia di migliaia di italiani davvero poveri, dovrebbe essere un paradosso.
Ma purtroppo invece, oltre al guaio del governo di destra, si aggiunge anche questa tragica realtà.
MARCO SFERINI
3 agosto 2023
foto: screenshot tv