Partendo da un dato di fatto: è chiaro come negli ultimi anni l’attacco contro la scuola pubblica si sia assolutamente intensificato. Si mira alla maggiore autonomia degli istituti scolastici per legittimare il crescente disimpegno da parte dello Stato nel finanziamento e nella gestione della scuola pubblica, disimpegno che si esprime con rinnovati tagli (gli ultimi nella legge di stabilità 2015), la mancanza di un piano adeguato per l’edilizia scolastica, le linee guida per la riorganizzazione in senso ancora più classista del sistema scolastico nazionale contenute nella Buona Scuola.
Prescindendo da un’analisi critica della riforma della scuola del governo Renzi e dei risvolti che avranno sullo stato dell’istruzione pubblica le varie misure economiche del governo (legge di stabilità in testa), quello che più salta agli occhi a livello politico è l’assenza totale di un movimento di massa per la scuola pubblica. Proprio a fronte dell’ennesima riforma in senso classista della scuola che prevede un preside-manager, un massiccio ingresso di finanziamenti privati agli istituti, a fronte dell’ennesimo taglio (142 milioni la cifra asportata alla scuola nella legge di stabilità 2015), del drastico ridimensionamento delle assunzioni dei precari promesse dal governo Renzi e dell’ennesimo, consapevole, rinvio di un piano di rifinanziamento e messa a norma degli edifici scolastici, è prioritario interrogarci sul motivo per cui, attorno a una vertenza nazionale – quella della scuola pubblica – storicamente perno di un ampio movimento di massa, tale movimento di massa non ci sia più.
L’unico picco che ha avuto l’opposizione al testo approvato il 13 luglio come legge 107 è avvenuto il 12 maggio, in occasione della mobilitazione sindacale unitaria dei lavoratori della conoscenza. Si è trattato abbastanza evidentemente di una mobilitazione costruita su rivendicazioni parziali, insufficienti, prive di lungimiranza politica e studiata a tavolino dai sindacati confederali. È evidente come il suo limite sia stato quello di non essere scaturita da uno spontaneo sentimento di indignazione generale, ma da un accordo a freddo tra strutture sindacali assolutamente inutile, che ha portato la piazza del 12 maggio ad essere una mera dimostrazione muscolare (infrantasi peraltro contro il muro del “non dialoghiamo con i sindacati” che le ha opposto il governo).
Lo stesso problema lo incontrano da diversi anni all’interno delle scuole i sindacati studenteschi e i singoli soggetti politici organizzati: a fronte del disinteresse trasversale di un’enorme parte degli studenti per la questione, di un’immagine distorta che si è venuta a creare delle proteste studentesche, viste come una routine autunnale priva di significato e di prospettive, sono anni che nelle date convocate dagli studenti in mobilitazione i numeri sono – quasi ovunque e tranne in presenza di situazioni scolastiche specifiche particolarmente critiche – magri.
L’incapacità di aggregare, di coinvolgere sui temi della difesa della scuola pubblica e dell’opposizione alle politiche classiste del governo Renzi, l’incapacità quindi di ampliare il conflitto, di renderlo trasversale e di massa, è un dato di fatto con il quale noi – come organizzazione e più in generale come comunisti e comuniste – dobbiamo convivere. Nasce dal senso di antipolitica diffusa di cui risentono – al pari di tutti gli altri settori sociali – anche gli studenti, da una netta sensazione di impotenza dovuta al fallimento, più o meno totale, delle mobilitazioni degli ultimi anni, che nonostante la loro forza di piazza non sono mai state veramente capaci di ribaltare il tavolo, e, come già detto, dalla percezione degli “autunni studenteschi” come una routine ormai inflazionata e svuotata di contenuti. L’obiettivo a breve e a lungo termine di un’organizzazione comunista che si trovi ad agire nelle scuole deve quindi essere quello di rovesciare la situazione, per riuscire a ricostruire, al fianco degli altri soggetti studenteschi e non, una mobilitazione di massa che chieda una scuola pubblica, gratuita, laica e di qualità. Per ottenerlo, oltre al basilare problema del radicamento che ogni organizzazione marxista e leninista deve porsi come base essenziale del proprio lavoro, è necessario ripensare ed elaborare chiaramente il concetto di scuola che vogliamo immaginare come alternativa al sistema scolastico gentiliano e alle riforme degli ultimi anni. Una scuola innanzitutto a carattere interamente pubblico, che non sia basata su distinzioni di reddito e di estrazione sociale, che superi il concetto di merito e la competizione per basarsi sull’inclusione, la parità e il confronto, che metta al centro i temi dell’antirazzismo, della Costituzione, dell’antifascismo, che sappia essere realmente democratica e partecipativa, che promuova l’integrazione e non l’emarginazione, che sia realmente formativa e non nozionistica.
Su questa alternativa – la scuola dei padroni, cadente, nozionistica, competitiva, classista, escludente e costosa in contrapposizione ad una scuola orizzontale, inclusiva, democratica e gratuita – occorre imperniare l’attività politica all’interno degli Istituti Scolastici, declinandola concretamente su alcuni semplici temi chiave, ponendo particolare attenzione sulle problematiche interne ad ogni Istituto, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo che ci poniamo. Occorre contrastare la logica della routinizzazione della mobilitazione, dimostrare che esiste un’alternativa valida e credibile al sistema scolastico renziano, ricostruire nelle scuole un tessuto militante che non c’è più da anni.
Per passare alla controffensiva, per ravvivare il conflitto nelle scuole, per non cedere alla repressione, per opporsi efficacemente allo smantellamento della scuola pubblica e rilanciare un’altra idea di istruzione, un’altra idea di società.
NICCOLO’ KOENIG
redazionale
16 dicembre 2015
foto tratta da Pixabay