La battaglia per il consenso Salvini e Meloni la stanno giocando da tempo dentro quella destra italiana che è radicalmente cambiata da quando Forza Italia è diventata la socia di minoranza del vecchio tripartito erede del berlusconismo d’antan. Ma la novità di questi giorni è data da una contestualità di fatti che sono in parte frutto della volontà esplicita di alcuni settori del nostalgismo neofascista che permea le formazioni sovraniste presenti in Parlamento, ed in parte motu proprio di un elettorato esausto delle compromissioni della politica sempre al ribasso sulle questioni prettamente sociali.
L’intreccio fra risultato delle elezioni amministrative (di cui si attende l’esito finale dei ballottaggi di domenica e lunedì prossimi), le inchieste di Fanpage.it, la crisi verticale tutta interna alla Lega, divisa tra sovranisti duri e puri e governisti che lo sono altrettanto e, infine, la questione ipocritamente viziosa ed oziosa del Green pass, montata ad arte per esasperare decine di migliaia di animi logori dal biennio pandemico, con annesso e connesso assalto alla sede nazionale dell CGIL, tutto questo straordinario missaggio di subbugli politici e sociali ha mandato completamente in tilt lo schema tattico di lotta e di governo tanto di Salvini quanto della Meloni.
Senza farsi troppo male, l’uno dentro la maggioranza standone fuori con un piede, l’altra all’opposizione e con un occhio ben puntato ad un futuro governo a trazione Fratelli d’Italia in un post-Mario Draghi per questo non disdegnato nemmeno dagli eredi della fiamma tricolore missina. Adesso, sotto assedio da più parti e per motivi non certo di poco conto, i due partiti della destra illiberale italiana, che guarda a Budapest e Varsavia piuttosto che a Berlino e Parigi, che stringe patti con le peggiori forze che si richiamano ai modelli di autoritarismo fascista di mezza Europa, come i neofranchisti di Vox in Spagna, sono sulla difensiva e devono rivedere in fretta il loro posizionamento.
Diventa sempre più difficile per i sovranisti di casa nostra negare di avere avuto e di avere all’interno frange che si rifanno più o meno esplicitamente al ventennio mussoliniano: non si fa tempo a chiudere le urne e a sapere l’esito dello spoglio delle schede che spuntano consiglieri comunali che inneggiano al duce, che fanno i saluti romani, che orgogliosamente si proclamano fascisti o che, persino, non disdegnano di mostrare simpatie persino per il Terzo Reich.
Sorprende sempre un po’, anche se è legittimo essere al contempo onestamente disillusi per evitare l’accusa di candida ingenua innocenza, la pretesa di far confessare agli autoritari l’autoritarismo e ai fascisti il proprio essere tali. A parte l’orgoglio folkloristico di chi va Predappio vestito in orbace e col fez sopra una testa praticamente vuota, tutto il resto, in particolar modo il non detto e il detto-non detto, è il vero nodo culturale, sociale e politico su cui si disputa la querelle dell’adesione di formazioni di destra all’arco costituzionale modernamente inteso e aggiornato.
Se Alberto Da Giussano, non fosse altro che per una linea del tempo che ci riporta ben indietro rispetto al fascismo, non riecheggia nessuna eco mussoliniana, la fiamma tricolore che campeggia nel simbolo di Fratelli d’Italia è la stessa del MSI-DN, di un partito che si poneva fuori dal patto costituzionale e che lo stesso Almirante definiva come «…un nucleo iniziale di reduci del fascismo…» (intervista da “Il lavoro“, settembre 1980).
Un nucleo che si era inserito, nel corso dei decenni, nel tessuto del Paese ed era diventato il punto di riferimento tanto dei terroristi neri di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, quanto delle nuove generazioni studentesche attratte dall’anticomunismo viscerale, dalla promessa rivoluzionaria di un movimento che predicava la dottrina sociale di Salò inserita in uno Stato a-democratico, neoautoritario, dove la pena di morte sarebbe stata ripristinata e avrebbero avuto vita facile militarismi e cameratismi di ogni tipo.
Il problema della agibilità politica nella democrazia italiana della politica fascista e neofascista non è, dunque, un argomento nuovo, ma origina ben dentro gli anni più bui della Repubblica. Il salto di qualità fatto in questi ultimi due anni, in cui l’eversione nera ha approfittato della pandemia per cavalcare il disagio sociale ed egemonizzare le piazze No vax prima e No Green pass poi, è per questo molto più inquietante di quel che si possa pensare.
Sarebbe un gravissimo errore ritenere la storia presente separabile dal recente passato, soltanto perché passata per Fiuggi. Quel lavacro non somiglia nemmeno lontanamente alla svolta della Bolognina che vi viene accostata spesso e volentieri. Lo spiega bene proprio Almirante sempre nell’intervista fattagli nel 1980: «…io non voglio morire da fascista. Tanto che sto lavorando per individuare e far crescere chi dovrà prendere le redini del Msi dopo di me. Giovane, nato dopo la fine della guerra. Non fascista. Non nostalgico. Che creda, come ormai credo anch’io, in queste istituzioni, in questa Costituzione. Perché solo così il Msi può avere un futuro. Altrimenti è costretto a sparire».
Non è la raffigurazione di una destra modernamente liberale. Tutt’altro: è la conservazione che transita attraverso una innovazione, una resilienza ante litteram, un modo per far vivere sempre quel che altrimenti sarebbe costretto a morire soffocato in un nostalgismo che allora pareva destinato ad estinguersi rapidamente nella trasformazione di un mondo che correva verso il superamento dei blocchi contrapposti dal tempo della fine dell Seconda guerra mondiale.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Ci perdoni Tomasi di Lampedusa, ma la famosissima citazione da “Il Gattopardo” casca qui a fagiolo o come il cacio sui maccheroni. L’operazione Fiuggi – “Alleanza nazionale” è conservatrice nell’essere innovativa, mentre chi ha affossato il PCI non ha voluto adeguare ai tempi l’anticapitalismo e la critica sociale: semmai mettere da parte entrambi, mitizzarli e farne un armamentario da utilizzare soltanto per potersi ancora definire eredi di una grande storia e apparire di sinistra per troppo, lungo tempo. Fino ai giorni nostri.
A ben vedere, c’è più neofascismo di contatto con i partiti sovranisti di oggi di quanto non ve ne fosse al tempo di Gianfranco Fini che viaggiò in Israele, mise la kippah e condanno il nazismo e l’Olocausto, per finire a sedere sull’alto scranno della Camera dei Deputati. Il tipo di legittimazione democratica che cercano oggi alcuni leader di destra è questo, ma sono più grossolani e veementi perché devono rispondere ad un elettorato che si uniforma ad una muscolarità dialettica di ceti sociali sottoproletari che non capirebbero le finezze di un compromesso artificioso con quella democrazia appena tollerata.
In fondo ai loro animi, ed in fondo agli interessi politico-elettorali, i sovranisti tengono in massimo disprezzo le regole liberali di una democrazia occidentale che tacciano di “totalitarismo” quando chiede loro di adeguarsi allo spirito repubblicano e di cacciare dalle loro formazioni i nostalgici del fascio e dell’hitlerismo.
Sciogliere Forza Nuova è necessario, e così tutte le formazioni e i partiti violenti e che fanno dello scontro fisico e della aggressività verbale un metodo di contrasto politico, ispirandosi allo squadrismo del fascismo novecentesco. Ma non basterà a fermare le recrudescenze che ci saranno inevitabilmente: perché le persone non scompaiono per decreto, non si dissolvono per magia, ma si ricompattano, si riorganizzano.
Ed allora bisogna fare terra bruciata intorno ai tentativi di riedizione degli attuali partiti neofascisti, sotto qualunque nome tentino di rifugiarsi, sapendoli individuare, ma soprattutto agendo culturalmente, insegnando e spiegando ai giovani – ed anche ai meno giovani – la storia e l’attualità di questi gruppi eversivi e, in particolare, la loro natura intrinsecamente eversiva contro il mondo del lavoro, contro gli interessi sociali più colpiti dalle politiche liberiste e tutte le loro collusioni con un sistema che non vogliono combattere, che invece cercano di sostenere con la destabilizzazione della democrazia e la creazione di condizioni di incertezza tali da agevolare sempre di più la divisione di classe.
Sciogliere i partiti neofascisti è un atto dovuto alla Costituzione, alla Repubblica, alla storia dell’Italia moderna, al carattere antifascista di ogni momento della vita sociale del Paese. Ma è solo il primo passo per ristabilire una coscienza civile che si fondi sulla consapevolezza della giustezza solo di una parte: quella della Resistenza che ha fondato la democrazia (imperfetta) in cui viviamo. E per fare questo servono riforme sociali accompagnate ad una nuova stagione della cultura italiana, capace di respingere ogni revisionismo tanto nell’attualità del presente quanto di matrice storica.
La matrice, già, questa “sconosciuta“…
MARCO SFERINI
12 ottobre 2021
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