Partiamo dal dato dell’affluenza: il 52,19% degli aventi diritto al voto in Abruzzo si è recato alle urne. Questo vuol dire, in primissima battuta, proprio a caldo, che l'”effetto Todde” non si è riversato su D’Amico e sulla sua campagna elettorale che puntava ad un rovesciamento degli equilibri di potere esistenti, soprattutto se raffrontati con l’esperienza di governo nazionale delle destre.
Gli elettori disaffezionati rispetto alla partecipazione elettorale, restano tali e non è sufficiente né una persona di qualità come il candidato del campo giusto, né l’effetto Sardegna e nemmeno l’unità massima tra le forze di opposizione a spingerli a recarsi alle urne. Serve qualcosa di più e, molto probabilmente, se non questo surplus, se questa spinta non la si ricava né dall’unità tattica dei partiti e dei movimenti, la si deve andare a cercare in una diversa politica di opposizione: dal Parlamento alle piazze.
Si può anche considerare ormai endemica la percentuale di votanti registrata in Abruzzo che, del resto, non è dissimile da quella che si è potuta leggere in Sardegna. Forse le elezioni europee potrebbero fare salire l’asticella della partecipazione di qualche punto, ma è davvero difficile pensare ad un salto di quantità tale da portare almeno al 70/75% l’elettorato votante rispetto alla metà attuale.
Dunque, la prima penalizzazione del campo giusto è anche ascrivibile ad uno status quo che riguarda anzitutto una polarizzazione dei consensi che, si differenziano da lista a lista, ma sempre dentro le coalizioni, e che non fanno registrare flussi di interscambio di voti tra le stesse. In assenza di un aumento delle file ai seggi, la situazione rimane pressoché invariata rispetto al 2019 e, in un certo qual modo, anche rispetto alle politiche del 2022.
Se si guarda alle singole liste, poi, saltano agli occhi alcuni dati davvero impressionanti. Prendiamo come riferimento non le regionali di cinque anni fa, ma le elezioni ultime nazionali: il partito di Giorgia Meloni rimane la prima forza politica abruzzese sia in termini di voti assoluti sia in percentuale. Tuttavia flette di oltre trentatré mila voti e percentualmente passa dal 27,6% al 24,1%. Meglio si comporta Forza Italia che, in pratica, guadagna ottomila voti. La Lega, data quasi a percentuali da lumicino, perde ottomila consensi ma percentualmente tiene botta.
Singolare, anche per l’assenza di alcune liste invece presenti alle precedenti amministrative ed alle politiche, il poderoso aumento della lista di Lupi “Noi Moderati“: ben undicimila e cento voti in più rispetto al 2022, con un balzo in percentuale dallo 0,67 al 2,68%. I travasi di consensi, pure qui, sembrano però essere tutti interni alla coalizione di Marsilio, il quale, con la sua lista civica, ottiene trentatré mila voti e un lusinghiero 5,7%.
Passiamo al campo giusto: circa quattordicimila voti in più per il PD, che dal 16,6% delle politiche passa al 20,3%. Se una considerazione più di carattere nazionale qui può essere fatta, questa riguarda fondamentalmente la leadership di Elly Schlein che, pur avendo spostato il partito su posizioni più progressiste e di sinistra, non riesce proprio a convincere gli indecisi o disaffezionati a preferire la forza politica più ragguardevole dello schieramento in termini numerici.
Fa un tonfo assordante il Movimento Cinquestelle: praticamente, sia facendo il paragone con le regionali del 2019 sia con le politiche di quasi due anni fa, il partito di Giuseppe Conte lascia per strada ottantamila consensi. Una débâcle che ridimensiona le percentuali dal 19,7% del lustro precedente al 18,4% che pareva aver consolidato la presenza pentastellata nella regione dopo le alterne vicende di passaggio di consegne dal grillismo al dimaioesimo fino al contismo.
Qui l’analisi dei flussi di voto diviene molto interessante, perché è possibile che una fetta di questo elettorato deluso sia passata in parte nelle fila del PD e di Alleanza Verdi-Sinistra e, quella che ha un po’ sempre fatto invece da sponda destra del M5S, abbia preferito migrare verso la coalizione di Marco Marsilio e ingrossare le fila, essenzialmente, di qualche forza moderata del centrodestra: dalla lista civica del riconfermato presidente alla stessa Forza Italia.
Non si tratta, infatti, di qualche migliaio di voti (che pure sarebbero già un portato di non poco conto quando si parla di emorragia di consensi elettorali). Qui si tratta di ottantamila persone che votavano per i Cinquestelle e che lo hanno praticamente precipitato nell’abisso. Vero è che, ad ogni tornata elettorale amministrativa, il partito di Grillo prima e di Conte po ha sempre registrato drastici abbassamenti di percentuali e voti assoluti.
Ma vero è altrettanto il fatto che in Sardegna questo non è avvenuto. Certamente complice la candidatura trascinante di Alessandra Todde, ma avrebbe essere potuto invece molto diverso il risultato, considerando pure la presenza della coalizione di Soru. Invece, nell’isola sottratta alle destre, tutto questo sfracello in termini di consensi, non si è avuto. Il dilemma Cinquestelle, dunque, è uno dei dati più negativamente affascinanti di questa piccola tornata di elezioni regionali.
Alleanza Verdi e Sinistra viene premiata invece con quasi quattromila voti in più rispetto alle politiche del settembre 2022. Calenda e Renzi, oggi divisi, se ricongiunti per un attimo al fine di un raffronto con le ultime elezioni, praticamente non si spostano dai loro trentanovemila voti. Il resto sono cifre ancora più piccole che non incidono nel calcolo complessivo: Marsilio vince con il 53,5% contro il 46,5% di D’Amico. Il primo distanzia il secondo per quarantamila voti. Tanti bastano per decretare una affermazione delle destre e una netta sconfitta del campo giusto.
Fatte tutte queste osservazioni, ed analizzati i dati numerici e le percentuali, le considerazioni più politiche non possono che partire, come scritto al principio di queste righe, dal dimezzamento del valore complessivo della delega popolare: chi vince, vince con la metà della metà della volontà popolare; chi perde, perde due volte, perché oltre ad essere sconfitto nelle urne è sconfitto anche nel rapporto con la società.
Soprattutto se si tratta di forze progressiste che dovrebbero legare il valore dell’opposizione al governo nazionale con le sempre più difficile e complesse questioni della prossimità dei diritti nei singoli territori regionali, provinciali e comunali. La minaccia della realizzazione dell’autonomia differenziata non scuote un Mezzogiorno che dovrebbe, invece, essere allarmato da una controriforma che indebolisce chi è già più a rischio di povertà e promette benefici solo per chi invece resta a galleggiare nel mare dei privilegi che una economia liberista gli garantisce ogni giorno.
Le politiche del governo Meloni vanno nella direzione di un rafforzamento di questa forbice così divaricata, di questa contrapposizione tra nord e sud del Paese. Ma, nonostante il disagio sociale cresca enormemente, evidentemente nell’elettorato che si reca alle urne prevale un istintivo senso di autoconservazione, a tutto scapito di chi sta peggio. Le classi medie votano per la destra così come una parte di quelle invece più povere, perché ritengono il cambiamento un rischio, soprattutto se minaccia di toccare le grandi ricchezze.
La narrazione governativa punta tutto sul lasciar lavorare per cinque anni l’esecutivo, come del resto si è sempre ascoltato da parte di quasi tutti i presidenti del Consiglio dei ministri. Questa retorica avrebbe pure una sua logica politica e amministrativa, meramente gestionale dello Stato, se le azioni dei governi fossero volte a privilegiare il pubblico rispetto al privato.
Invece, continuando nell’approfondire il rapporto tra liberismo e Stato, costringendo il secondo ad obbedire alle leggi del primo, ogni atto della maggioranza non fa che penalizzare le condizioni già gravi dei ceti più fragili e deboli della società. Il tatticismo elettorale finisce così, inevitabilmente, per non riuscire a diventare qualcosa di più delle mosse regionalistiche, diventando un prodromo di uno schema più generale, di quel suggerimento nazionale per una alleanza larga come auspicato dalla già presidente provinciale de L’Aquila, Stefania Pezzopane.
Internamente a sé stesso, il campo giusto potrà discutere se fosse meglio tenere fuori Calenda e i più moderati, magari per attrarre quella fetta di elettorato che non si è mossa da casa e che lo avrebbe fatto in presenza di una coalizione più progressista. Oppure si potrebbe rovesciare il ragionamento e, dati alla mano, evidenziare come, senza i quasi quarantamila voti di Azione, PSI, Italia Viva e + Europa, il distacco di D’Amico da Marsilio sarebbe oggi stato ancora più ampio e la sconfitta ancora più amara.
Questi sono aposteriorismi su un tatticismo che, almeno in Abruzzo, perde. Mentre in Sardegna vince. La lezione che se ne può ricavare, se davvero ne esiste soltanto una, rimanda ad una instabilità generale della politica e degli equilibri tra le varie forze e le coalizioni stesse in una Italia in cui, nell’ambito del Sud, con sistemi elettorali differenti (visto che in Abruzzo manca il malefico voto disgiunto, presente invece in Sardegna) non si viene a creare una omogeneità empatica tra bisogni e rappresentanze degli stessi nelle istituzioni.
Rimangono le differenze storiche tra città e campagna, tra centro e periferia, ma il punto oggi è la risposta che le destre danno alla domanda di cambiamento sociale che, nonostante tutto, viene a scontrarsi con l’evidenza dei drammi sociali irrisolti da un governo che bada agli interessi dei ricchi e favorisce le loro attività a discapito del pubblico, del lavoro, della scuola altrettanto pubblica come della sanità e del mondo pensionistico.
Nemmeno un candidato perbene e pacato come D’Amico, che ha riunito attorno a sé tutte le opposizioni, la spunta sull’uomo fidato della Presidente del Consiglio. Che ha perso l’aura sacrale dell’intangibilità da parte del voto popolare, che si è scoperta fallace come tutte e tutti, ma che rimane oggi, più di ieri, saldamente alla guida di un Paese sempre più povero.
Giorgia Meloni, in quello spettacolino che era stato il suo comizio finale in Abruzzo, aveva proferito parole da vecchia missina croceceltizzata, da “boia chi molla“, per galvanizzare quel popolo di centrodestra che aveva incassato la cocente sconfitta sarda, proprio sul sindaco di Cagliari, proprio su un fedelissimo della Presidente del Consiglio.
Oggi la destra che s’è messa l’elmetto per passare dalla vittoria abruzzese a quella nelle europee di giugno e nelle prossime amministrative regionali, può a ragione ripartire dal feudo invitto, con un linguaggio militare che rispecchia la vicinanza ad una logica di guerra permanente in politica, lontana dal confronto veramente democratico e liberale (come vorrebbero far credere di essere diventati).
Palla al centro e si ricomincia, dunque. Perché per le destre c’è sempre la prova del nove del governo, dei fatti da fare (e che non vengono fatti se si tratta di diritti sociali, civili ed umani). Per la sinistra moderata e per quella di alternativa, nonché per il resto del campo giusto, c’è una rassegnazione da allontanare, c’è una connessione tutta da costruire tra offerta e domanda progressista.
MARCO SFERINI
12 marzo 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria