Roberto Benigni torna al Festival di Sanremo e parla del rapporto tra la Costituzione e la musica. Parla della Carta del 1948, celebrandone avanti al Presidente della Repubblica il 75° anniversario, come di uno straordinario e quasi visionario progetto di uguaglianza da parte delle madri e del padri della nuova nazione nata dalla ceneri del periodo precedente: la dittatura.
Il fascismo entra nel monologo di Benigni senza essere citato esplicitamente. Mentre la Resistenza e l’antifascismo non meritano nemmeno una indirettissima chiosatura.
Ogni riferimento alla liberà, alla democrazia, all’uguaglianza dei diritti civili e sociali, alla fondazione di un popolo rinnovato nella condivisione delle idee, della critica senza alcuna censura, senza vincoli, nella più piena modalità di interazione tra tutte e tutti, non trovano spazio le radici “ideologiche” che i partiti dell’Assemblea Costituente avevano ereditato dalla loro stessa storia e portato in dote alla nuova Repubblica.
Così, il monologo del comico e artista toscano finisce per essere un panegirico molto sobrio della Costituzione, una sorta di benintenzionata agiografia molto poco storica e didattica (ma del resto, ovvio, siamo in una manifestazione canora e non in un’aula universitaria…), che evita le parole scomode: fascismo, antifascismo, Resistenza, partigiani.
Ed anche nel citare i fondatori del nuovo Stato repubblicano, democratico e laico, ci si ricorda giustamente di Alcide De Gasperi e ci si scorda di Palmiro Togliatti e di Pietro Nenni.
Si fa riferimento a Nilde Iotti e a Sandro Pertini, rimediando un poco, sposando quel politicamente corretto che, tuttavia, per non far apparire il discorso troppo di sinistra, deve stare nel centro ideale di un compromesso continuo, scordando che la Costituzione è proprio quello ma è anche il frutto di un mutamento epocale della storia italiana, dell’Europa e del mondo.
Benigni lo sottolinea: la Carta del 1948 ci è invidiata da mezzo mondo. Ma poi, essendo finito il tempo dell’irriverenza contro il potere, della trasgressione e dell’osare andare oltre l’ostacolo, non mette in guardia da possibili storture della stessa da parte di chi ci governa. L’appello alla preservazione dei diritti fondamentali è affidato a brevi cenni e ripetizioni di alcuni dei più importanti articoli: il terzo, l’undicesimo e il ventunesimo.
Diritti ed uguaglianza, libertà di parola, di espressione, di stampa, di comunicazione e ripudio della guerra come strumento di offesa agli altri popoli vengono utilizzati per dire che è giusto difendere le nostre conquiste, che datano a settantacinque anni or sono, ma che è giusto, proprio per questo guardare ad una sola parte del mondo e non alla sua complessa globalità.
I cosiddetti “valori occidentali” fanno capolino tra le righe, sono il non detto del detto, e quindi i nostri diritti sono l’occasione per non citare la pace condannando giustamente la guerra e, nello specifico, l’invasore evidente, quello che materialmente ha passato il confine ucraino e si è preso oltre al Donbass anche le regioni meridionali dell’Ucraina.
Ma le guerre si fanno sempre almeno in due e, tante volte, anche in tre, quattro. Qui, per essere sempre, assolutamente aderenti ad uno spettacolo nazional-popolare che deve essere inclusivo e non partigiano (in tutti i sensi…), si adopera un tono leggerissimo, un linguaggio comprensibile a tutte e tutti: proprio come quello della Costituzione che – dice Benigni – sembra scritta da un bambino, di una forza e bellezza che si rimane stupiti.
Ed è vero, la legge fondamentale della nuova Repubblica doveva avere questa caratteristica: poter esprimere con grande nettezza e semplicità dei temi veramente profondi e complessi che avevano origine da antiche storie e tradizioni politiche, sociali, culturali, filosofiche e del diritto. La Costituzione è un fondamento legislativo che tutti possono apprendere senza aver bisogno di passare prima per lo studio di importanti volumi giuridici o la frequentazione di chissà quali scuole.
Alla base dell’Italia che era ridotta in macerie morali e materiali, i Costituenti posero una nuova Carta che, limpidamente e cristallinamente, metteva nero su bianco quello che avrebbe dovuto essere da sempre l’insieme delle pietre angolari del nostro vivere civile e sociale.
Benigni fa bene a ricordarlo e a sottolinearlo. Ma accanto a tutto questo, andrebbe detto che quelle conquiste furono di una serie di forze politiche e di una buona fetta di popolo che si impegnò materialmente, fisicamente e mentalmente contro il fascismo, contro il ritorno di ogni rigurgito che guardasse indietro e che, oggi, al governo del Paese stanno gli eredi di quella abiezione, di quella tragedia novecentesca.
La fiamma tricolore che è nel simbolo del partito di Giorgia Meloni richiama quella storia, la rivendica come espressione di una destra che è stata capace di evolversi e diventare forza trainante, esattamente nazional-popolare, fintamente sociale, etichettando il tutto, al più, come “post-fascismo“.
Perché non vi è bisogno di rimandi iconografici e di feticci altrettanto tali per fare una politica simile a quella delle peggiori destre del mondo, che rimetta in moto l’accostamento diretto tra neofascismo imbellettato da governismo del nuovo millennio e vecchio regime mussoliniano. Non è necessario cadere nella trappola della similitudine a tutti i costi. Basta tenere a mente le parole, i proclami, le intenzioni e i programmi politici sbandierati dalle destre in questi decenni.
Tutto va contro la valorizzazione di quelle libertà costituzionali che Benigni ha raccontato nel suo intervento dal palco del Teatro Ariston di Sanremo.
Tutto va esattamente nella direzione di una conservazione escludente, di un tradizionalismo esclusivista, di una reazione che ripone i diritti fondamentali dietro al paravento della morale ufficiale, dell’invenzione antistorica dei “valori giudaico-cristiani” in una Europa in cui giudaismo e cristianesimo si sono per lo più maltrattati per secoli e secoli, fino al tremendo epilogo olocaustico della Seconda guerra mondiale.
Per rendere davvero omaggio alla Costituzione della Repubblica italiana, prima di tutto si dovrebbe elencare tutte le volte che un governo l’ha disattesa. Ad esempio sul ripudio della guerra. Benigni, semplicisticamente, allarga lo sguardo, luccica negli occhi quando afferma che grazie alla Carta non abbiamo più avuto e fatto guerre. E che se tutti i popoli avessero una legge fondamentale come la nostra, non vi sarebbero più conflitti nel mondo.
Abbiamo scordato le nostre partecipazioni alle guerre del Golfo persico? O in Somalia? O il coinvolgimento italiano nel groviglio balcanico della ex Jugoslavia? Oppure, ancora, al servizio delle cosiddette “missioni” antiterrorismo in Afghanistan?
Ecco, per onestà intellettuale, politica e morale, tutto questo andrebbe almeno accostato alla retorica della bellezza della Costituzione. Perché non è sufficiente farne un alibi per sentirsi dei meravigliosi italiani che devono conservarla come un tesoro. La Carta del 1948 è esattamente come un libro: il migliore onore che si può tributarle è di metterla in pratica e non di mirarla e rimirarla come se fosse uno splendido dipinto o un capolavoro artistico dell’oreficeria di un diritto liberale e sociale arrivato ad un punto di grande sintesi dopo una enorme tragedia mondiale.
E’ evidente: Benigni fa un monologo che vada bene a tutti e, quindi, qualcuno, oggettivamente, deve scontentare. Ognuno di noi intende la Costituzione secondo quella visione della società e del mondo che possiede e cerca di metterla in pratica in tal senso.
Ma da qui a tradirla ferocemente facendo dell’articolo 11 il suo esatto contrario, affermando invece di tenerne proprio conto in chiave del tutto “umanitaria” (e di “esportazione della democrazia“), il passo non è solo più lungo della gamba, è una spaccata divaricante, lacerantissimo vulnus per una cultura nazionale della pace che sia a fondamento della solidarietà reciproca fra tutti i popoli.
La presenza stessa, ormai storicamente data, delle basi NATO in Italia non permette alla Costituzione di essere tenuta in considerazione come dovrebbe, come meriterebbe. Il pieno titolo della Carta è stato troppe volte inficiato dalla “ragion di Stato“, dalla “pragmaticità” degli eventi, da una sorta di richiamo permanente ad una real politik che poggiava le sue argomentazioni sulla necessità di rimanere nel consesso internazionale, dentro il recinto nordamericano e nordatlantico come scudo di sicurezza contro l’Est brutto e cattivo.
Per carità: che dall’altro lato della Cortina di Ferro vi fosse il paradiso degli oppressi, nessuno – o quasi – vi ha mai creduto apertamente. Chi liberaleggiava da questa occidentalissima sponda, narrava le più incredibili favole; chi stava dall’altra parte era incapace ormai, dopo la morte di Lenin, di pensare ad una evoluzione del socialismo in un solo paese, del burocraticismo sovietista, del regime che si era involuto e che aveva soffocato ogni vera alternativa concreta al capitalismo.
La nostra Costituzione, per lungo tempo, ha permesso all’Italia di essere il paese del compromesso tra questi due opposti, senza per forza costringerci a scegliere da quale parte stare: essere schierati con la Carta del 1948 voleva dire avere a cuore quella sintesi valoriale che già nel 1849 i costituenti romani misero nero su bianco mentre il potere temporale di Pio IX tentava il rientro nell’Urbe sulla punta delle baionette francesi di Napoleone III.
La nostra Costituzione è un emblema ancora oggi, un simbolo che, tuttavia, non va adorato o glorificato, perché in questo modo verrebbe soltanto banalizzato e reso il simulacro di diritti e doveri, di garanzie e tutele che invece debbono trovare applicazione concreta nella vita di tutti i giorni.
Quando se ne parla, quando la si cita, si dovrebbe farlo mettendola a confronto con la storia d’Italia degli ultimi sett’antanni. Solo così potremmo avere accanto a noi una coscienza (costituzionale) e, allo stesso tempo, fare una autocritica altrettanto consapevole di come siamo stati molto poco in grado di renderla nella pienezza della sua espressione tanto ideale quanto istituzionale e popolare.
Benigni ha fatto certamente del suo meglio. Ma, se vuole, può ancora fare di più.
MARCO SFERINI
9 febbraio 2023
foto: screenshot tv