Parto dal passato perché forse poco conosco il presente.
Ma parto dal passato perché credo non si possa capire il presente senza conoscere il passato.
Parlo in prima persona, perché a volte è la voce propria che deve assumersi la responsabilità di quanto si afferma, non la freddezza di un articolo.
Ho avuto il privilegio di crescere a S. Basilio dove ho vissuto fino al 1983, per oltre 20 anni. In quel quartiere, in cui gran parte delle vie portano i nomi di paesi delle Marche, sono andato alle scuole elementari, ho dato i primi calci al pallone (sempre maldestri), ho imparato ad ascoltare musica e ho conosciuto la politica. Il quartiere di quegli anni era energia allo stato puro. Era considerato “bronx” per chi veniva da fuori.
Per i non romani, S. Basilio è un quartiere cresciuto all’inizio degli anni Cinquanta, avendo come vie di comunicazione da una parte la Consolare Tiburtina e dall’altra la Nomentana, nella periferia est di Roma, ad un paio di chilometri dal Grande Raccordo Anulare
Se eri “di San Basilio” fuori trovavi immediatamente timore e rispetto ma nessuno ti assumeva per lavorare, eri etichettato come potenziale delinquente. Se accadeva un fattaccio di cronaca in un quartiere vicino, magari mediamente più borghese, sui giornali o si scriveva che era accaduto a S. Basilio o che era stato qualcuno “di” S. Basilio a commpierlo.
Era un quartiere popolato soprattutto da famiglie di emigrati umbri e marchigiani (da cui i nomi delle vie), che avevano trovato finalmente una casa popolare. E l’idea stessa di casa popolare, con i lotti, i cortili interni in cui bastava un genitore per badare a tutti i bambini che giocavano assieme, rappresentava una forma di di socialità. Ma c’era miseria e spesso la piccola criminalità diveniva unica prospettiva. Si andava a rubare fuori, nei quartieri dei ricchi, nelle case o sottraendo le automobili, perché tanto “loro” i soldi ce li avevano. E quando si finiva arrestati il carcere, quello di Rebibbia, non a caso realizzato a meno di un chilometro dal quartiere, diveniva il posto in cui si scontava la pena, il posto in cui i parenti potevano venirti facilmente a trovare. Era un quartiere guardato sempre con sospetto dal potere, troppo ribellista e violento tanto che veniva impedito aprirvi dentro un commissariato di polizia, quello dei carabinieri era all’entrata.
Era un quartiere in cui fra poveri ci si aiutava e non ci si rubava, insieme si sabotavano i contatori della corrente elettrica per autoridurre le bollette, insieme si faceva i picchetti per impedire gli sfratti quando arrivavano gli sgomberi. Nel 1974 a settembre, ci fu un massiccio impegno repressivo per sgomberare alcuni palazzi occupati e la celere si ritrovò bombardata dai sanitari gettati dall’ultimo piano dalle madri di famiglia che non volevano perdere il tetto conquistato. In quei giorni Fabrizio Ceruso, un ragazzo dei militanti di lotta per la casa, venne ucciso dalla polizia e nessuno pagò per quell’omicidio che restò come un buco nero nella coscienza del quartiere. Era un quartiere in cui il PCI aveva almeno il 65% dei voti sicuri, una buona percentuale finiva alle forze dell’estrema sinistra e per DC e MSI non c’era quasi spazio di parola. Era un quartiere in cui, la carenza di servizi, la ghettizzazione e la crisi, furono all’origine di numerosi fenomeni di violenza, politica e non. Me la ricordo come se fosse oggi ma respiravi insieme sia quella rabbia sia quel sentirti parte di un mondo di sconfitti che non si rassegna e che vuole dare l’assalto al cielo. Perché se di S. Basilio eri figlio, a S. Basilio eri garantito, nessuno toccava le tue cose, se avevi fame una porta si apriva, se volevi giocare un amico lo trovavi, se avevi qualcosa da dire qualcuno ti ascoltava.
Durante l’unica vera Giunta Rossa che Roma abbia mai avuto, quella del sindaco Luigi Petroselli, fra le tante iniziative messe in piedi per rendere migliore la vita di chi viveva a Roma, trovò posto anche la realizzazione di un progetto culturale totalmente fuori contesto Venne portato nel quartiere un tendone da circo, gestito da una compagnia di circensi, e venne creata “L’altra tenda”, spazio per attività musicali e culturali del quartiere. A gestire il progetto, con pochi fondi e nessuna esperienza finì un gruppo di ragazzi fra cui io, con l’entusiasmo dei vent’anni e l’incoscienza che ne derivavano. Divenne un posto pubblico che si riempiva perché suonavano i musicisti del quartiere, bravi ma oscuri al mercato, venivano artisti si facevano laboratori teatrali, cineforum, si diventava, senza isolarsi, produttori di cultura. Passarono anche volti noti da Pierangelo Bertoli a Eugenio Bennato alla immensa Judith Malina, fondatrice del Living Theatre. Era venuta a trovarci e a proporci gratis un loro spettacolo perché quello spazio rappresentava il teatro che diventava vita e che sempre era al centro del suo progetto artistico.
Si c’era violenza a S. Basilio ma per molto tempo la vecchia mala impedì che arrivasse l’eroina a mietere vittime, il disabile, lo straniero, l’altro, se povero, trovava uno spazio. C’erano i rapporti intrafamiliari imbottiti di patriarcato, c’era già la corrosione di chi sognava di poter uscire dal ghetto affrancandosi per meriti personali, alcuni calciatori e alcuni pugili sono nati così, ma c’era anche qualcosa di arcaico e di forte che legava le persone fra di loro, che le poneva in contrasto netto alle istituzioni, soprattutto alle divise.
Le divise erano quelle che venivano a portarti via i figli di notte, quelle che ti intimavano di andare via, ti trattavano da pezzente e da mezza persona, le divise volevano abituarti all’umiliazione e tu reagivi con odio e sarcasmo, a volte con altrettanta violenza. Un ultimo ricordo, che spiega il perché di questo strano contributo che sento come un dovere personale. Una volta, avevo 8 o 9 anni vennero i carabinieri in classe per comunicare alla maestra che i genitori di una bambina erano stati arrestati. Lo dissero tranquillamente davanti a noi, incuranti della ragazzina, dicendo testualmente “tanto chi porta il cognome XXXXX XXXXX prima o poi fa questa fine”. Come lo cancelli quell’odio?
Tanti anni dopo quel quartiere mi dicono sia profondamente cambiato ma non so se esserne così certo, dovrei tornare a viverci per poterlo dire in tutta onestà. Stando alla cronaca so che in una via che ben conosco hanno sgomberato un appartamento occupato abusivamente, da una famiglia che viveva altrimenti in un camper, per darla alla prima famiglia in lista per una casa popolare, ahinoi padre madre e 3 bambini, provenienti dal Marocco. Mi fido poco delle narrazioni di cronaca, ma sembra che alcuni abitanti del palazzo abbiano cominciato ad urlare che i “negri non ce li volevano” e hanno alzato il caos, costringendo la famiglia, sentitasi indesiderata, a rinunciare all’alloggio.
Ripeto forse è tutto cambiato ed alcuni codici interpretativi non sono più validi ma se…
Per gli abitanti di quel palazzo, occupare quando si è senza casa è scontato, venire cacciati e far entrare degli altri, sconosciuti e portati dalla polizia, per l’epoca che ricordo sarebbe stato inaccettabile. Che il nucleo familiare non fosse di origine italiana è servito sicuramente da facile alibi per violenti xenofobi che ormai hanno preso il ruolo aggregatore nelle periferie che un tempo era della sinistra. Le sinistre sono uscite dal mio antico quartiere almeno 30 anni fa e non ci sono più rientrate. E su questo dovremmo interrogarci tutti senza assolverci nessuno
I luoghi di impegno sportivo, sociale, associativo, sono stati marginalizzati e privati di risorse, esiste solo il privato che offre, di pubblico c’è solo il disagio e la distanza dalla città. Di pubblico c’è un tasso di disoccupazione fra i più alti, il reddito medio pro capite fra i più bassi, l’alto tasso di tossicodipendenti, l’alto tasso di abitanti reclusi nel vicino carcere.
Di concreto c’è il fatto che Roma è una delle città italiane da cui meno si investe in edilizia popolare. Quando l’intestatario di un alloggio pubblico muore o si trasferisce, l’alloggio viene murato in attesa dell’assegnazione secondo graduatoria. Ma per l’assegnazione i tempi sono lunghi mentre il fabbisogno abitativo della città cresce ogni giorno. Chi si ritrova in strada occupa, sa bene che dopo un mese, un anno, forse dopo 3 anni qualcuno lo verrà a sgomberare, ma intanto rompe il muro e ha risolto il problema.
In questo meccanismo il più debole viene schiacciato e forse utilizzato. Passano infatti due messaggi paralleli e falsi. Il primo agli abitanti di S. Basilio e delle altre periferie, “danno le case agli stranieri per questo non ci sono per noi italiani”, il secondo è quello per le forze progressiste “noi diamo case anche agli stranieri ma sono i sottoproletari a essere razzisti”. Due messaggi falsi, se non ci fossero possibilità di speculazioni immobiliari per i ricchi e più case popolari per i poveri, oggi quella famiglia marocchina a cui auguro di trovare migliore accoglienza, non avrebbe incontrato problemi.
Non nego l’esistenza di una componente xenofoba in questi contesti. Ma c’è stato anche chi ha detto serenamente, “avremo fatto lo stesso anche se erano italiani”. Magari questa notizia avrebbe fatto meno clamore, magari sarebbe stata più problematica.
Magari ci avrebbe portato a scoprire per l’ennesima volta che il razzismo non è una categoria statica dello spirito ma il frutto osceno di una connessione negativa di relazioni di classe. Nessuna giustificazione per chi ha urlato “qui i negri non li vogliamo”. Ma che almeno si sia consapevoli che la requisizione del patrimonio immobiliare inutilizzato presente a Roma farebbe esplodere la bolla immobiliare ancora in piedi, libererebbe spazi per giovani coppie, per famiglie di stranieri, per persone arrivate in Italia in cerca di accoglienza e per chi ha perso casa perché escluso dal ciclo produttivo o per disavventure personali, per chi è solo/a e non ha il reddito per garantirsi un alloggio.
Più case popolari, migliori occasioni di lavoro per tutti non metterebbero gli ultimi contro i penultimi
Forse permetterebbe di ricominciare a ragionare contro i padroni
Si è anche nostalgia, perché rimpiango quella S. Basilio rossa in cui i poveri stavano con i poveri.
STEFANO GALIENI
Responsabile pace e immigrazione del Prc, l’articolo è già apparso su wwwa-dif.org
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