Pesi e contrappesi sono da sempre oggetto di dibattito tra i costituzionalisti e i giuristi. L’equilibrio dei poteri presente nella nostra Carta fondamentale è stato più volte messo in discussione nel corso della ultrasettantennale vita della Repubblica italiana da rapporti tra le forze di governo e il Parlamento, tra questo e la Magistratura e tra quest’ultima e l’esecutivo medesimo.
Il tutto comunque sempre nel reciproco riconoscimento del ruolo svolto e, quindi, di essere volente o nolente una “parte” della struttura dello Stato, quindi la sostanza dei valori repubblicani affermatisi dopo il ventennio fascista con la vittoria della Resistenza.
La Repubblica ha conosciuto stagioni “nere”, nel senso più politico del termine, e ha mantenuto una stabilità democratica – quanto meno sufficiente a non far scadere completamente l’architrave su cui si reggeva una fragile struttura di potere diviso tra assemblee, ruoli di garanzia e esecutivi – nonostante i tentativi di trasformarla da “parlamentare” in “presidenziale” siano stati ripetuti nel tempo e prodotti da forze politiche di estrema destra come il MSI ma anche da esponenti centristi, di un filone democratico-cristiano che era già entrato nella Tangentopoli di fine secolo e che ne usciva con le ossa rotte e cercava pertanto un nuovo punto di appoggio che coinvolgesse direttamente il popolo in una esperienza di elezione diretta del Capo dello Stato.
La centralità del nostro Parlamento è fondamentale per mantenere l’equilibrio dei poteri, anche nei confronti della Presidenza della Repubblica che molto sovente sottovalutano pensando che sia niente più se non una mera garanzia costituzionale che sovrintende al resto delle istituzioni e ha la funzione che il Grande Puffo ha nel suo villaggio: al Colle dovrebbe dunque stare silente un saggio arbitro e niente più.
Invece il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità del Paese, ed in un Paese dove l’educazione civica è ormai bandita dalle scuole e la Costituzione infatti molto poco conosciuta, finisce con l’essere minimizzato e ridotto al ruolo di “notaio” della azioni della maggioranza che, è bene ricordarlo, non ha sempre ragione e che non può accampare pretese di dominio delle istituzioni ma solo di gestione delle medesime.
Di questi tempi, purtroppo, sembra che la maggioranza di governo ricerchi tanti e tali spazi di azione da interferire con altri poteri dello Stato, stigmatizzando la loro azione che non fa altro se non discendere dall’esercizio legale della funzione che è stata loro attribuita dalla Costituzione.
E’ il caso di Catania e della richiesta al Senato della Repubblica dell’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno per la vicenda della nave Diciotti, considerando il blocco della procedura di sbarco di 177 migranti (costretti a stare sulla nave per cinque giorni) un reato: sequestro di persona.
Un caso che pareva archiviato e che invece è riemerso intempestivamente per alcuni, prontamente per altri che sperano di trarne un vantaggio elettorale parandosi dietro ad un vittimismo che è lacerante per chi ha a cuore le sorti proprio dell’equilibrio dei poteri.
Salvini, sostiene il Tribunale dei Ministri, avrebbe posto «arbitrariamente il proprio veto all’indicazione del Pos (Place of safety, “un porto di sbarco sicuro”, ndr) da parte del competente dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione».
Continuano i giudici: «Nessuno dei soggetti ascoltati dal tribunale ha riferito, come avvenuto invece per altri sbarchi, di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di ‘persone pericolose’ per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale». Dunque quale poteva essere il motivo per il blocco del Pos? Se lo domandano i magistrati di Catania che sottolineano come «si era assistito ad altri numerosi sbarchi dove i migranti soccorsi non avevano ricevuto lo stesso trattamento». Pertanto si ricerca la motivazione di un cambio di metodo nell’accoglienza, nelle disposizioni ministeriali.
E’ evidente che la ragione sta in una presa di posizione politica che ha fatto dell’intransigenza un punto fondamentale per mostrare al Paese, all’Europa e al mondo intero la cosiddetta “linea dura” da tenere in materia di migranti. Una inumanità che sta qualificando sempre più l’Italia come nazione ostile ai fondamentali diritti dell’uomo di cui si parla nella “Dichiarazione universale” e nella nostra Costituzione repubblicana.
Il ministro non si scompone: non ha paura e confessa reati che ancora non ha commesso perché minaccia di reiterare questi comportamenti e atti nella sua funzione di pubblico ufficiale e quindi dice “Io non mollo“. E ne fa un hashtag che diventerà certamente virale.
La legge deve fare il suo corso, così la Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato dovrà esprimersi in merito. Ma se davvero Salvini ritiene di essere nel giusto e di aver agito nell’interesse del popolo italiano, perché non rinuncia all’immunità parlamentare?
Umberto Terracini, comunista, partigiano, Presidente dell’Assemblea Costituente, rinunciò all’immunità parlamentare, da senatore, quando venne accusato di “vilipendio nei confronti delle Forze Armate dello Stato” nel lontano 1973 allorché criticò l’operato degli apparati di polizia nell’omicidio brutale del giovane anarchico Franco Serantini.
In quel caso fu la Giunta del Senato, presieduta dal democristiano Bettiol, a rifiutare l’atto di Terracini, ritenendo le sue opinioni “materia privilegiata tutelata dalla Costituzione“. Allora fu un gesto di affermazione dei valori della Carta e di tutela della democrazia.
Oggi chi plaude a Salvini direbbe che anche i membri di quella giunta, pur essendo guidati da un democratico cristiano, erano dei pericolosi comunisti o “buonisti“.
Alcuni commentatori politici tirano fuori dal cilindro il tema del fumus persecutionis. Una sorta di complotto per silurare il ministro dell’Interno. Strano “fumus“, perché farebbe buon gioco elettorale (e forse in parte, che esista o meno, lo sta già facendo) nel mostrare come chi vuole “proteggere i confini italiani” venga accusato di “sequestro di persona” (aggravato dal fatto che tutto ciò sarebbe avvenuto per mano di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni).
Scrive su Twitter il ministro: “Rischio da 3 a 15 anni per aver bloccato gli sbarchi dei clandestini in Italia. Non ho parole. Paura? Zero. Continuerò a lavorare per difendere i confini del mio Paese e la sicurezza degli italiani“. Ma da quando esiste il reato di “blocco degli sbarchi dei clandestini”? I migranti della “Diciotti”, inoltre, non erano clandestini: erano stati accolti a bordo di una nave della nostra Marina e quindi tutti riconoscibili e non entrati in territorio italiano per vie traverse. C’erano donne e bambini a bordo, non certo dei terroristi.
Molto sottile il gioco di parole del ministro, abile persino. Così si fa passare l’idea che la Magistratura lo stia perseguendo per tutt’altra cosa, per la sua politica e non per aver trattenuto per cinque giorni 177 migranti su una nave italiana: dal particolare all’universale, generando una astrazione priva di senso ma per questo efficace come impatto propagandistico.
E’ una abilità dialettica e anche polemica che gli va riconosciuta. Ciò detto, bisogna fare attenzione oggi più di ieri alle parole: perché le parole sono veramente pietre, pesano e finiscono con creare cortocircuiti mentali indescrivibili: riuscire a spostare così facilmente l’attenzione dei cittadini dal tema della richiesta di autorizzazione a procedere ad un tema di politica nazionale (anzi, internazionale) come gli sbarchi dei migranti è sintomo di una opinione pubblica che si flette facilmente ad una estrema superficialità linguistica, contenutistica e, pertanto, anche politica.
Non ci si sofferma a comprendere, parola per parola, il significato di una frase e la sua contestualizzazione, ma si fa opera di astrazione con una facilità tale da rendere il “semplificazionismo” un moderno metodo di non-interpretazione dei concetti espressi verbalmente o tramite queste gioiose macchine da guerra che sono diventati i luoghi del protagonismo quotidiano: i “social network”.
Dunque, una delle constatazioni più evidenti ed anche eclatanti è la mancata voglia di approfondimento, non dico di studio, ma quanto meno di interessamento a comprendere maggiormente un titolo, una foto, una frase gettata lì in poche centinaia di battute che Twitter consente: dei cinguettii appunto e, si sa, fa più rumore il canto di un passerotto (un piacevole “rumore”) rispetto al fruscio dei tanti fili d’erba d’una foresta.
L’equilibrio dei poteri va in crisi in un momento delicatissimo per la politica italiana: oggettivamente il Paese viene largamente isolato per le sue politiche di respingimento dei migranti, per l’alzamento di un muro di indifferenza e di odio che nella popolazione italiana cresce tanto quanto cresce il tono delle parole degli esponenti del governo.
Poi, ogni giorno, muore un lavoratore: schiacciato da un carrello elevatore, precipitando da un ponteggio, per esalazioni chimiche in qualche cisterna. Lasciano sempre delle famiglie con dei bambini appena nati… Ma del lavoro si parla poco; delle morti sul lavoro ancora meno.
L’elezione di Maurizio Landini a Segretario nazionale della CGIL è una buona notizia e ci fa sperare che imprima all’organizzazione sindacale una svolta proprio in questo senso: nel suo intervento prima del voto che lo ha portato al ruolo di massimo esponente del più grande sindacato italiano, Landini ha spesso citato il capitalismo come sistema che va combattuto perché genera ingiustizie e produce disuguaglianze.
E’ una buona affermazione programmatica: rimettere al centro del lavoro sindacale la questione di classe e riproporre la contrattazione ovunque al posto della concertazione, recuperando le storiche lotte della sinistra comunista per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, la tassazione progressiva mediante una patrimoniale sui profitti e le grandi rendite, l’unità delle lotte che sono troppo separate tra loro e devono trovare un punto di aggregazione e di direzione.
L’equilibrio dei poteri dello Stato lo garantisce lo Stato stesso tramite, abbiamo detto, figure di garanzia come quella del Presidente della Repubblica. Ma un importante contributo a ciò può arrivare proprio da una rinascita sindacale di classe, che sia ancor più di prima argine al depauperamento della democrazia in favore di un regime autoritario crescente e accettato come soluzione dei problemi della povera gente attraverso la creazione di una lotta “nella classe” e non tra le classi.
La difesa della stabilità democratica dipende da tutti noi. Abbiamo gli strumenti storici, culturali, sociali e anchfoto: screenshote politici per rimettere in gioco l’anima solidale, egualitaria e sociale della nostra Costituzione, della nostra Repubblica.
MARCO SFERINI
25 gennaio 2019
foto: screenshot