Salute, un diritto negato: quello che i rapporti non dicono

È appena stato pubblicato il rapporto che l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dedica annualmente alla situazione della sanità in ciascuno dei 36 stati membri. In...

È appena stato pubblicato il rapporto che l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dedica annualmente alla situazione della sanità in ciascuno dei 36 stati membri. In questo terzo rapporto, la sanità italiana sembra essere caratterizzata da una crisi strutturale destinata ad aggravarsi.

All’invecchiamento della popolazione corrispondono un finanziamento inadeguato, un numero ridotto di operatori dell’assistenza e medici mediamente molto anziani, alla fine del loro percorso professionale, con condizioni di carenza crescente che neppure un’espansione del reclutamento riuscirà a compensare in tempo utile. A fronte di questi problemi, rileva però l’Ocse, la speranza di vita alla nascita, un indicatore di salute della popolazione, vede l’Italia, con oltre 83 anni, al secondo posto in Europa dopo la Spagna.

Di recente sono stati pubblicati anche altri rapporti interessanti. Quello elaborato come ogni anno dalla Fondazione Gimbe descrive il progressivo deterioramento nello «stato di salute” del Servizio sanitario nazionale (Ssn) che deriverebbe dal definanziamento pubblico, dalla crescita dell’assistenza di stampo mutualistico e dal ruolo crescente dei sistemi assicurativi, con l’aumento della spesa diretta dei cittadini per l’acquisto di prestazioni sanitarie.

Gimbe considera questa evoluzione come un rischio per la sopravvivenza del Servizio sanitario perché si accompagna al «sovra-utilizzo di interventi sanitari dal basso valore, sotto-utilizzo di interventi sanitari dal valore elevato, inadeguato coordinamento dell’assistenza, acquisti a costi eccessivi, frodi e abusi».

Nello sgretolamento dei principi di universalismo e nell’ampliarsi delle disuguaglianze territoriali, il Ssn sembra perdere la fiducia dei cittadini e soffre la disaffezione dei suoi operatori sovraccarichi di lavoro per i tagli del personale e con retribuzioni inferiori alla media europea. Il Servizio sanitario nazionale sarebbe dunque in una condizione critica per la sua sopravvivenza e richiederebbe misure radicali di investimento economico ed organizzativo insieme ad un sostanziale riequilibrio del rapporto tra il ruolo del pubblico e quello del privato.

Il rapporto presentato invece dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) fornisce una relazione scientificamente rigorosa sull’andamento del Piano nazionale esiti (Pne), un progetto di valutazione di tutti gli ospedali italiani.

Il quadro che emerge da questa analisi non è esaltante, ma è contrassegnato da un cauto ottimismo. Gli indicatori sotto osservazione tendono infatti a migliorare in tutte le aree prese in esame nonostante la presenza di disuguaglianze, talvolta marcate, tra i 1.363 ospedali analizzati, tra le aree geografiche del paese, tra uomini e donne, tra soggetti di cittadinanza diversa. Migliora il trattamento dell’infarto e quello della frattura di femore, migliora il trattamento di alcune neoplasie e si riduce il ricorso al taglio cesareo come modalità di svolgimento del parto.

Emerge dall’insieme di questi rapporti una situazione apparentemente paradossale, da un lato l’immagine di un disastro imminente dall’altra quella di qualità delle cure e di un lento ma sicuro progresso. Nessuno però mente e nessuno si sbaglia, l’impianto di un servizio sanitario pubblico e universalista appare tanto solido da resistere a lungo al definanziamento e all’incuria, ma la crisi è già in atto e si rivela con chiarezza sul terreno delle disuguaglianze.

Nella disponibilità dei servizi come nella qualità delle prestazioni ospedaliere il dato comune sono infatti le differenze territoriali e sociali che nel vanificare l’universalismo rendono inesigibile la salute come diritto di cittadinanza.

Le apparenti contraddizioni tra i rapporti hanno a che fare con la differenza nei loro punti di vista: i rapporti del Gimbe e dell’Ocse si concentrano sulle variabili organizzative e di funzionamento del Servizio sanitario, partono cioè da un approccio macro di valutazione dei processi e descrivono una macchina al limite delle risorse che continua a camminare sacrificando una parte importanti dei suoi compiti.

Una macchina della quale si lamenta la scarsità di carburante ma non si critica il modello. Il rapporto Pne, con un approccio micro, si concentra al contrario su un sottoinsieme di specifiche prestazioni assistenziali di cui valuta la qualità, ospedale per ospedale, trascurando il loro impatto sulla salute della popolazione nel suo complesso.

Il primo approccio, per paradosso, potrebbe approvare un sistema che amplia l’offerta dei servizi senza generare salute mentre il secondo rischia di promuovere un sistema che si occupa soltanto di quelli che arrivano ad usufruirne, a prescindere dalla parte di bisogno che rimane insoddisfatto.

Ambedue gli approcci, nel loro ambito raccontano la realtà, ma in ambedue i casi è una realtà che non considera la salute della popolazione e la soddisfazione dei suoi bisogni. Invece è proprio sulla relazione tra il funzionamento del sistema, la salute dei cittadini e la sua equa distribuzione, che andrebbe fondato il rilancio del Servizio sanitario nazionale come presidio di diritti e non solo come fornitore di servizi. Un preciso dovere, fin qui eluso, di chi governa il paese.

CARLO SAITTO

da il manifesto.it

Foto di Anna Shvets

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