La politica parla spesso di cifre, ma sono soprattutto queste a parlarci molto bene della politica di un paese. Del nostro, dell’Italia, ci raccontano quelle messe a bilancio dal governo Conte prima e da quello Draghi poi in questi ultimi anni.
L’orientamento della spesa pubblica, piuttosto che essere indirizzato verso capitoli che riguardano la tutela delle fasce più deboli della popolazione, è andato a sostenere la commistione tra pubblico e privato, incentivando le detrazioni fiscali per il mondo delle imprese e teorizzando, con una spudoratezza degna soltanto di una classe dirigente improvvisata ma scaltra nel proteggere i proprietari della produzione, che il tutto avvantaggiasse senza ombra di dubbio l’altro mondo, quello del lavoro.
Invece, nel corso degli ultimi lustri, la composizione del salario è andata via via modificandosi a tutto scapito dei salariati stessi, perché sono venute meno una serie di tutele sociali già piuttosto colpite da una inedia ricercata e voluta per contenere la spesa imprenditoriale (a cominciare da quella pensionistica), avvantaggiare i profitti e il regime concorrenziale di un capitalismo italico che conferma la sua fama di straccioneria conclamata.
Gli investimenti dei padroni sono, per la maggior parte, stati finalizzati all’ottenimento di sempre maggiori garanzie pubbliche sul rischio di impresa, invocando – non ultimo come pretesto per una accumulazione di profitti inedita e inaspettata – anche la crisi pandemica e ora la guerra in Ucraina.
La visione di medio e lungo termine del capitalismo italiano è un fallimento sotto tutti i punti di vista, perché non esiste una progettualità che metta nel paniere dell’offerta privata anche una condivisione di responsabilità per la vita (o sarebbe sempre meglio definirla “sopravvivenza“) e la riproduzione giornaliera della propria forza-lavoro.
Confindustria e, in generale, il padronato hanno vissuto per decenni sugli allori del finanziamento di Stato, sulla tutela fiscale ridotta ad esenzione fiscale, sulle garanzie dello Stato per prestiti internazionali, sul rapporto rischioso tra Roma e Francoforte da un lato, tra Roma e Bruxelles dall’altro.
La Repubblica italiana è stata messa al servizio dell’interesse privato da governi che si sono fregiati dell’etichetta di “centrosinistra“: una invenzione trasformista, una ipocrisia bella e buona di una riconversione politica di partiti e personaggi che, altrimenti, sarebbero stati surclassati da tempo da nuovi rampanti allievi capaci in brevissimo tempo di superare il maestro.
Ora, pensare che dai campioni del liberismo politico italiano, dal PD e dalla maggioranza di unità nazionale, che di liberisti al suo interno è ricchissima, possa arrivare una contingente riforma dei salari che li preservi dalla crisi economica che si prospetta, è più che altro fantapolitica. Basta esserne consapevoli; basta sapere che la proposta del ministro Orlando sul salario minimo (adeguare i salari di un settore produttivo al migliore contratto retributivo di quell’ambito di lavoro) somiglia molto di più ad un “una tantum” più che ad una seria riforma strutturale.
E’ proprio la logica di governo che stride con una inversione di tendenza, con una proposta di capovolgimento delle precedenti linee di attuazione di riforme del lavoro: Mario Draghi non ha certo intenzione di proporre quello che invece andrebbe proposto per promuovere un vero reddito minimo per i lavoratori, ossia stabilire per legge una linea di partenza minima del rapporto orario/salario.
Questa eventualità consentirebbe di stabilire una volta per tutte, e legalmente, che al di sotto – ad esempio – dei 9 euro all’ora nessuna azienda privata (e nemmeno pubblica) può scendere e che, quindi, rispetto al costo del lavoro odierno, le aziende sarebbero costrette a ridurre i loro profitti in favore delle maestranze.
E’ prima di tutto il principio che non si vuole affermare: perché, stabilito che davanti ad una crisi strutturale e non solo nazionale si risponde non con pannicelli caldi e con salari minimi flessibili, ma con una legge dello Stato, si potrebbe anche pensare ad una reintroduzione dell’indicizzazione delle retribuzioni e delle pensioni in raffronto all’inflazione reale (e non solo a quella programmata…).
Un processo di questo tipo darebbe il via ad una stagione di potenziamento delle ragioni dei lavoratori, dei loro salari e quindi del loro potere di acquisto. Si vuole che i salariati partecipino alla riconversione dei loro soldi in spesa comune, in domanda soddisfatta dall’offerta ma, prima ancora, si pretende (ovvero lo pretendono i padroni e lo eseguono i loro corifei istituzionali) che il salario resti una variabile dipendente dalle fluttuazioni borsistiche e dagli affarismi privati, piuttosto che dagli indici economici che si ripercuotono sulle tasche degli strati più indigenti della popolazione.
Il punto di vista da cui partire per delle riforme (anti)sociali è, e deve per forza essere, quello della classe imprenditoriale e non quello della classe lavoratrice, del mondo del precariato e del disagio, del “a fine salario avanza ancora troppo mese“.
Le cifre, si diceva, parlano della politica che si fa nei vari paesi europei: la denuncia della fissità dei nostri salari, della loro perdita verticale di potere di acquisto in questi anni, è stata fatta dall’ISTAT e poi dall’INPS.
L’allarme sociale, che sarebbe dovuto provenire da un governo che avesse a cuore le ragioni dei lavoratori piuttosto che quelle dei ricchi profittatori, è stato dato invece dall’istituto della previdenza sociale che oggi, infatti, sempre su questa linea “tecnica” di allerta per la politica tutta, ha redarguito e rimbrottato in merito all’insufficienza di una misura come quella proposta da Orlando.
Dice l’INPS che sarebbe molto meglio sperimentare il salario minimo orario fissato per legge. Ma il governo fa orecchie – appunto – da mercante e non vuole sentirci per nessun motivo. Da una riforma di questo genere se ne avvantaggerebbe anche il gettito per le pensioni e l’intero sistema-Paese ne trarrebbe giovamento, aumentando la spesa pubblica sostenuta dai consumi crescenti.
Invece, siccome il punto di vista è quello esclusivamente imprenditoriale, il governo, che ne è timido critico e acquiescente condivisore, preferisce ignorare le cifre che parlano della politica estera interna all’Unione europea, dove il salario minimo di paesi come la Germania, il Lussemburgo, la Francia, i Paesi Bassi, l’Irlanda, tanto per fare alcuni esempi, varia da un massimo di 2.200 euro ad un minimo di 1.600 euro mensili. La Spagna sta, proprio in queste settimane, adeguandosi a questi livelli. E l’Italia?
L’Italia rimane impantanata in un attendismo parolaio che non giova a nessuno comparto economico, a nessun ambito produttivo e lavorativo. La riottosità confindustriale frena quelle poche e poco nobili intenzioni di intervenire in qualche modo sul monte salario minimo, mentre i sindacati, in mancanza di un piano che intervenga tanto sul lavoro quanto sulle pensioni e sulla fiscalità in generale, si contentano di annuire alla proposta di Orlando.
Ma la crisi economica che è già in mezzo a noi, dagli scaffali dei supermercati alle pompe di benzina, preannuncia un autunno devastante per i redditi da lavoro e ancora più per la grande marea del sommerso, per quegli invisibili che invece sono reali e che pesano su loro stessi senza avere dallo Stato una benché minima attenzione.
Agli evasori fiscali e ai signori imprenditori la vita va un pochino meglio…
MARCO SFERINI
4 giugno 2022
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